Pochi lo sanno, ma la politica estera americana prima di Trump adottava un protocollo di trattativa diplomatica accuratamente codificato. Se ne parla nel libro di Roger Fisher, William Ury e Bruce Patton
A volerli guardare con occhio clinico, questi sono anche anni interessanti.
Per esempio, tutti criticano – e non senza qualche ragione – il rapporto conflittuale che Donald Trump ha instaurato con l’Unione Europea, con gli alleati della NATO, con l’Iran, con il Messico, Cuba, il Canada e la Siria. Per non parlare poi dei suoi rapporti altalenanti con la Russia (in questo caso perfino con qualche ambiguità), la Cina e la Corea del Nord.
La nuova politica estera americana di Trump pare improntata a uno stile che potremmo definire “ruvido”
La nuova politica estera americana di Trump pare improntata a uno stile che potremmo definire “ruvido”: un impasto di minacce dirette, di promesse di ritorsioni, di sparate grossolane, ma anche di proposte continue di faccia a faccia con i vari leader mondiali. Uno stile di trattativa che probabilmente Trump ha maturato negli anni dei suoi esordi nel mondo degli affari, quando doveva trattare con gli inquilini morosi dei suoi immobili – o meglio: degli immobili di suo padre – che si trovavano nelle periferie newyorkesi dove bisognava talvolta procedere con metodi spicci.
In ogni caso, qualunque sia la sua origine, in politica estera Trump adotta uno stile di trattativa oggettivamente molto diverso rispetto a quello delle amministrazioni precedenti. Evitiamo però alcuni fraintendimenti.
Anche prima di Trump gli Stati Uniti erano giunti più volte ai ferri corti con i propri alleati europei (negli ultimi anni in particolare con la Francia, ma in un passato nemmeno troppo lontano anche con l’Italia di Aldo Moro), per non parlare poi della tensione che ha contraddistinto i rapporti tra gli Stati Uniti e la Russia, Cuba, l’Iran, la Cina (con questi ultimi con qualche cedimento per motivi di tattica antisovietica) e via dicendo.
Inoltre anche in passato la politica estera americana ha percorso la strada delle minacce, e qualche volta dalle minacce è passata perfino alle vie di fatto.
Reagan aveva una capacità diplomatica di “vecchio stampo” maturata negli anni in cui era stato presidente del sindacato degli attori e poi governatore della California
Infine dobbiamo evidenziare che esiste anche un sottile filo rosso che lega lo stile di trattativa dell’amministrazione Trump allo stile di trattativa di altre amministrazioni repubblicane, alcune delle quali hanno per esempio organizzato summit internazionali di portata epocale come ha fatto Trump con Kim (ricordiamoci che Nixon incontrò Mao), oppure allo stile di altre amministrazioni ancora, che hanno per esempio coltivato il piacere dell’attacco verbale diretto nei confronti dell’avversario (ricordiamoci che Reagan definì l’Unione Sovietica “l’impero del male”). A proposito di Reagan, non prendiamo per buone neanche certe rappresentazioni che vorrebbero Trump come l’erede di Reagan. Anche se Ronald Reagan aveva l’istinto dell’azione spettacolare – il 5 agosto 1981 licenziò per esempio 11.000 controllori di volo – come lo ha Trump, Reagan però aveva anche una capacità diplomatica di “vecchio stampo” maturata negli anni in cui era stato presidente del sindacato degli attori e poi governatore dello stato della California; capacità di cui Trump appare sprovvisto.
Premesso che i risultati della politica estera di Trump li misurerà la prossima generazione, ciò che fin da subito sembra veramente diverso rispetto alle amministrazioni precedenti, anche repubblicane, è però la poca considerazione che Trump ha per il proprio apparato diplomatico. Spieghiamoci meglio: dietro i presidenti si muove un apparato burocratico fatto di un segretario di stato, di un consigliere per la sicurezza, centinaia di ambasciatori, migliaia di diplomatici, rappresentanti, mediatori e via dicendo. Oggi l’apparato diplomatico americano appare screditato agli occhi delle altre diplomazie, incapace com’è di operare la propria opera di mediazione, scavalcato da tweet contraddittori provenienti dall’alto a getto continuo, e tramortito da continui cambi di uomini al suo vertice e della linea politica generale.
Eppure la scuola statunitense di negoziato – forse è poco noto – è stata una delle migliori al mondo, e l’apparato diplomatico americano è sempre stato molto preparato in questo campo. Ancora oggi nelle più importanti università americane esistono infatti corsi di negoziazione, ed è un peccato invece che la negoziazione non sia insegnata in Italia se non per cenni nei corsi di relazioni industriali (che poi vuol dire relazioni sindacali).
Faccio en passant notare – a riprova dell’interesse scientifico che in America circonda il tema della negoziazione – come anche la famosa teoria dei giochi, oggi in palpabile declino ma che durante la guerra fredda era considerata uno strumento imprescindibile per le diplomazie di tutto il mondo, sia stata sviluppata negli Stati Uniti.
La negoziazione è importante negli affari e nella politica, nelle relazioni con i datori di lavoro e nella negoziazione... di ostaggi (altra specialità americana). A parte gli scherzi, la negoziazione è importante perché in realtà negoziamo quotidianamente su tutto: dall’ora in cui nostro figlio deve tornare dalla discoteca, allo scegliere con la propria moglie che film andare a vedere e via dicendo.
La grande negoziazione americana si è sviluppata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti si ritrovarono vincitori in un mondo dove le vecchie potenze coloniali stavano crollando e dove era necessario scrivere una valanga di trattati di collaborazione come quelli dello sfruttamento dei fondali, del commercio internazionale o del diritto marittimo.
La Bibbia della negoziazione americana è stata tradotta anche in Italiano e si intitola L’arte del negoziato.
La Bibbia della negoziazione americana è stata tradotta anche in Italiano e si intitola L’arte del negoziato. Non si tratta di un libro fatto di consigli generici. Esso è stato la base del protocollo adottato dai negoziatori americani che portò ai celebri accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele, uno stato – quest’ultimo – tradizionalmente poco propenso ai compromessi, ma che in quell’occasione ne fece uno enorme restituendo il Sinai all’Egitto.
Dunque Trump, al di là delle intenzioni, sta mandando all’aria più che altro un metodo di negoziato che tecnicamente si chiama “negoziato di principi” e che è stato elaborato dall’Harvard Negotiation Project.
Il metodo si impernia su quattro punti chiave: a) scindere le persone dal problema; b) concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni; c) generare una gamma di possibilità prima di decidere cosa fare; d) insistere affinché i risultati si basino su qualche unità di misura oggettiva.
Sembra tutto facile, ma come vi dicevo non è un libro di consigli generici. In realtà ogni passaggio del metodo ha ulteriori sotto ramificazioni che qui per ragioni di spazio non affronteremo.
Trump non considera per nulla la validità del primo punto, e cioè scindere le persone dal problema. Lo dimostrano gli insulti che ha rivolto a Trudeau, il primo ministro canadese. Al contrario, se avesse utilizzato il vecchio metodo di negoziato, Trump avrebbe dovuto mettere a fuoco ciò che non va – che ha più di qualche ragione per esistere, visto il clamoroso squilibrio presente nella bilancia commerciale americana con il Canada – piuttosto che attaccare le persone, comportamento che di solito non ha risultati concreti di lungo periodo.
Attaccare le persone o i popoli invece che concentrarsi sui problemi infatti non porta a risultati concreti e, se li porta, ne vengono fuori accordi che durano poco. I trattati di pace dopo la prima guerra mondiale ne sono stati un fulgido quanto drammatico esempio.
Alla Germania Trump ha ricordato che lo squilibrio tra importazioni e esportazioni di auto è 10 a 1 favore della Germania e che pertanto è necessario andare verso un 10 a 10 o verso un 1 a 1
Trump si discosta anche sul secondo e terzo punto del metodo di negoziazione fin qui adottato. Prende posizione e tratta a partire da quella, senza deviazioni. Per esempio alla Germania Trump ha ricordato che lo squilibrio tra importazioni e esportazioni di auto è 10 a 1 favore della Germania e che pertanto è necessario andare verso un 10 a 10 o verso un 1 a 1. Il metodo tradizionale avrebbe utilizzato un’altra strategia, e lo abbiamo visto concretamente all’opera durante l’amministrazione Obama. Partiva cioè dai principi – che sono gli stessi che hanno indotto Trump a prendere una certa posizione, e cioè l’enorme squilibrio presente nella bilancia commerciale statunitense rispetto all’estero: 700 miliardi di dollari all’anno – e cercava non tanto di accordarsi su di una posizione, quanto piuttosto di risolvere alla radice il problema che c’era dietro la posizione assunta.
In questo senso guardiamo per esempio a come l’amministrazione Obama abbia tentato di concordare un enorme trattato commerciale di libero scambio con l’Europa (TTIP) che avrebbe aperto il mercato comune più grande del mondo, cosa che alla lunga avrebbe portato giovamento alle imprese americane.
Il TTIP è stato accantonato da Trump quando la trattativa era alle fasi conclusive, ma era un piccolo capolavoro compiuto dalla oggi tanto deprecata diplomazia americana che era quasi riuscita a mettere in piedi assieme all’Europa un sistema di regole irreversibile (come l’Euro) che in un primo tempo avrebbe avvantaggiato le aziende europee, ma che sul lungo periodo avrebbe favorito senz’altro le aziende statunitensi, molto più grandi, organizzate, reattive al cambiamento, capaci di fare sistema rispetto alle aziende europee, e con alle spalle un paese più giovane e con una banca centrale non certo obbligata a fare mille mediazioni come la banca centrale europea.
In sostanza, se fosse stato approvato il TTIP, gli Stati Uniti sarebbero diventati sul lungo periodo esportatori nei confronti dell’Europa e non importatori come sono oggi, e ciò avrebbe invertito i valori della bilancia commerciale americana, che era il problema da cui si era partiti. Questo è un bellissimo esempio di ciò che significa trattare sui principi e non sulle posizioni, come sta invece facendo Trump.
Sull’ultimo punto del vecchio metodo di negoziazione, l’utilizzo di dati oggettivi, è del tutto inutile farsi illusioni: Trump durante la campagna elettorale per la nomination repubblicana aveva tirato fuori la storia della correlazione tra vaccini e autismo. Inoltre più volte, anche da presidente, ha negato l’esistenza di un riscaldamento globale. Se queste sono le premesse...
Concludendo, prima o poi il ciclone Trump passerà. Facciamo qualche previsione. Probabilmente nei prossimi mesi riuscirà a chiudere qualche accordo, ma il modo in cui li avrà chiusi renderà tali accordi fragili e molto poco duraturi, e chi verrà dopo di lui dovrà rimettere mano a questi accordi con il vecchio metodo o qualcosa di simile.
Una cosa però è chiara: il mondo plasmato dal “negoziato di principi” dalla seconda guerra mondiale agli anni 90 del XX secolo – con un’Unione Sovietica da contenere, soprattutto in Europa – oggi non esiste più, e non è pensabile che gli Stati Uniti continuino a pagare sine die il mantenimento di uno status quo che non è più di loro interesse. Voglio dire, che con il vecchio metodo di negoziato o con i metodi da bullo di Trump, è inevitabile che vengano in futuro modificati i rapporti di forza commerciali e la divisione delle spese per il funzionamento della NATO.
È un punto su cui fino a oggi si è prestata poca attenzione: con Trump è cambiato lo stile di negoziato, il metodo diciamo così, ma gli obiettivi degli Stati Uniti – chiunque diventi il presidente in futuro – per un po’ di anni saranno quelli di Trump.
Roger Fisher, William Ury, Bruce Patton, L’arte del negoziato, Corbaccio, 2017, 250 pp, 16,60 euro.