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Curiosità ed approfondimenti storici suscitati dalla mostra di Palazzo Reale che attraverso cinquanta capolavori dell’impressionismo e delle avanguardie racconta la parte migliore del collezionismo americano, nato nella controversa Gilded Age di fine 800. 

 

La bellissima città di Filadelfia è di nuovo in primo piano su queste pagine. Dopo averne parlato per esperienza personali vissute in loco, questa volta il punto di partenza è offerto dalla mostra “Una storia di grande collezionismo americano. Impressionismo e avanguardie. Capolavori dal Philadelphia Museum of Art”, in corso a Palazzo Reale di Milano dall'8 marzo e aperta fino al 2 settembre 2018. 
Allestita in collaborazione con MondoMostre Skira, l'esposizione  offre un assaggio dell'immenso patrimonio di uno dei più antichi e prestigiosi musei americani. 

 Fondato come The Museum and School of Industrial Arts subito dopo la chiusura della prima Esposizione Internazionale degli Stati Uniti, che si tenne  nel 1876  nella ex capitale  per celebrare il centenario dell’Indipendenza, il Philadelphia Museum of Art ebbe come prima sede alcuni padiglioni della fiera dedicati alle arti applicate e nel 1928 si trasferì nell'enorme edificio neoclassico appositamente costruito. 

 

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Due vedute frontali del Philadelphia Museum of Art.

 

Landmark della città, anche grazie alla scalinata di Rocky, e luogo molto amato e frequentato dagli abitanti della multietnica città grazie alle molteplici  iniziative costantemente messe in atto, il museo sta ora rivoluzionando alcune sue parti interne secondo un progetto di Frank Geary. Pur non intaccando la struttura esterna, entro il 2020 il museo si arricchirà di enormi nuovi spazi che gli permetteranno di continuare ad essere all'avanguardia come istituzione museale internazionale e, fedele alla sua missione educativa, come inclusivo centro culturale radicato sul territorio. 

Di questo ed altro  abbiamo parlato con Matthew Affron, curatore insieme a Jennifer Thompson della mostra di Palazzo Reale, nonché autore di parecchi libri di arte moderna tra i quali Fascist Visions: Art and Ideology in France and Italy, in un’intervista di prossima pubblicazione.

 

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 Matthew Affron e  Jennifer Thompson, i due storici dell'arte del Philadelphia Museum of Art curatori  della mostra milanese. Al centro l'interprete per Jennifer Thompson, mentre Matthew Affron conosce l'italiano molto bene.

 

Argomento prevalente di queste pagine saranno curiosità ed aneddoti che prendono spunto non tanto dalle cinquanta opere esposte, quanto da  Samuel Stockton White III, Walter e Louise Arensberg,  Albert Eugene Gallatin e Louis E. Sternalcuni dei collezionisti più significativi ed interessanti che costituirono le loro collezioni nella prima metà del 1900 e che, decidendo di renderle  patrimonio pubblico, scelsero  il Museum of Art di Philadelphia.

Alcuni  cenni storici sull'epoca della rivoluzione industriale americana nota come Gilded Age (dal titolo del  romanzo del 1873  di Mark Twain  che con  pungente ironia ne fotografava l'essenza di avidità, corruzione e ipocrisia sotto la patina dorata)  coinvolgeranno invece in modo non altrettanto positivo Alexander Cassatt, fratello della pittrice Mary Cassatt e primo acquirente di arte impressionista di Filadelfia, e probabilmente degli Stati Uniti, all'inizio degli anni 1880.

 

 

L'allestimento di Palazzo Reale 

 

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Una sala dedicata a paesaggi e vedute urbane impressioniste. Volte e nicchie richiamano gli ambienti americani. Da sinistra  Pierre Auguste Renoir, I Grand Boulevards (1875); Camille Pissarro, La fiera in un pomeriggio di sole, Dieppe (1901);  Alfred Sisley, Le rive del lago (1885)

 

 Che la mostra di Palazzo Reale sarà ricca di suggestioni si percepisce fin dall’ingresso con la visione prospettica del corridoio di accesso alle sale, percorrendo il quale si possono leggere la timeline del Museum of Art e del collezionismo americano  e le presentazioni dei vari organizzatori. Tra di esse quella del direttore Timothy Rub,  che sottolinea i particolari legami tra l'Italia e Filadelfia, dove esiste una delle comunità italoamericane più numerose degli Stati Uniti. Nello specifico il Museum of Art, che ha una collezione italiana di più di 20.000 opere delle più varie discipline artistiche e artigianali,  allestisce  costantemente esposizioni dedicate ad artisti e a celebri personalità delle arti applicate italiani. Due su tutte quelle dedicate  a  Michelangelo Pistoletto  e al maestro vetraio Lino Tagliapietra rispettivamente nel 2010-11 e nel 2016-17.

 

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Tra i 20.000 pezzi italiani del Museum of Art di Filadelfia una delle parecchie versioni di Ecce Puer (1906-1907) di Medardo Rosso.

 

Le sale milanesi, trasformate dall’architetto Corrado Anselmi in ambienti simili a quelli del Philadelphia Museum, e dei grandi musei americani più in generale, con i loro lucernari, nicchie e volte, non deludono le aspettative.  
In una scenografia lineare ed elegante e con un disegno luci, di Barbara Balestrieri, degno di quelle produzioni teatrali in cui ogni dettaglio della scena ha il suo proiettore per creare le più svariate atmosfere, quarantasette dipinti e tre sculture sono i protagonisti di un percorso visivamente seducente.

Completano  l'allestimento raffinate tavole scure su cui campeggiano citazioni di artisti e personaggi celebri, proiezioni di grandi fotografie d’epoca, pannelli informativi sui principali movimenti artistici e su alcuni collezionisti ed istruttive didascalie di Matthew Affron e Jennifer Thompson poste accanto ad ogni opera. 

Il percorso è organizzato in modo prevalentemente cronologico,  seguendo in parte il criterio di separare i ritratti dalle vedute paesaggistiche ed urbane per quanto riguarda la maggior parte degli impressionisti, in parte dedicando le sale più avanguardiste ai principali collezionisti della prima metà del 900. 

Gli artisti sono quelli d’obbligo;   Monet,  Manet, Degas, Renoir,  Cezanne,  Van Gogh, Gaugin,  Matisse, Soutine, Kandinsky, Chagall, Picasso, Miro, Braque, e diversi altri pezzi da novanta.  Tra loro tre donne:  le uniche due pittrici entrate di diritto nel gotha dell’impressionismo, Berthe Morisot e Mary Cassatt,  e  "la Dame du Cubisme"  Marie Laurencin,  così definita per i  per i suoi esordi dal tratto dolcemente geometricio influenzato dalla vicinanza  con Picasso e Braque.

 

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Una delle sale dedicate ai ritratti in cui viene ricreato l'effetto lucernario, un altro degli elementi tipici dei musei americani. I quadri i sono da sinistra Ragazza che fa il merletto ( 1906) e Ragazza con gorgiera rossa (1896) di Pierre Auguste Renoir. Sulla parete a destra Ritratto di bambina (1894) di Berthe Morisot.

 

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Il dettaglio di una delle parecchie sale del Philadelphia Museum of Art dedicate agli impressionisti che evidenzia i tipici lucernari dei musei americani. In primo piano Little Dancer: Aged Fourteen di Edgar Degas 

 

Mary Cassatt e i suoi amici impressionisti

E' Mary Cassatt, nella sua duplice veste di unica artista americana della mostra e di promotrice degli impressionisti negli Stati Uniti in un periodo in cui  in Europa facevano ancora la fame, a dare il benvenuto nella sala di apertura intitolata  La collezione Cassatt. L’America accoglie gli impressionisti. 

La sua frase  Le donne dovrebbero essere  qualcuno e non qualcosa domina dall’alto, mentre Donna con collana di perle in un palchetto, dipinto nel 1879 quando già da alcuni anni la pittrice risiedeva a Parigi dove avrebbe tascorso il resto della  vita, fa da contraltare a La classe di danza ( 1880) di Edgar Degas.

 

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Donna con collana di perle in un palchetto (1879) di Mary Cassatt 

Apprezzatissima per le sue doti di pittrice e per la avanguardista risolutezza di donna che volle e seppe prendere il posto che le spettava in un mondo maschile,  Mary si diede da fare per promuovere  in America lil nuovo stile pittorico e i suoi autori.

Fin dai primi anni 1880 Mary spinse agli acquisti suo fratello Alexander, personaggio dell'alta società di Filadelfia, ben sapendo che l'effetto "imitazione" si sarebbe presto sparso tra gli industriali del suo giro. E le richieste infatti piovvero. Dopo aver visto quei quadri così nuovi e "decorativi" nelle lussuose magioni di Alexander Cassatt e signora, parecchi ricchi uomini d'affari e consorti smaniavano per abbellire le pareti delle loro case allo stesso modo.  E Mary fu prontissima a sfruttare le loro voglie per aiutare i suoi amici artisti europei in bolletta.

Nel 1886  inoltre Mary Cassatt aiutò il mercante parigino  Paul Durand Ruel, in quel momento sull'orlo della bancarotta,  ad esporre 200 opere  impressioniste a New York.  Il successo di vendite, oltre a contribuire all'affermazione del nuovo modo di dipingere,  sistemò  finanziariamente Durand Ruel,  pioniere di quelle che sarebbero diventate le strategie tuttora vigenti nel mercato dell'arte,  in gran parte dipendente  dalle mode dettate dagli acquisti delle classi agiate e dall'influenza di mercanti e galleristi.

L'interessante figura di Paul Durand Ruel, con le interazioni tra arte, finanza, politica e pubblicità che il suo intuito gli permise di sfruttare, è stata al centro dell'esposizione Discovering Impressionists: Paul Durand Ruel and the New Painting, che il Philadelphia Museum of Art (organizzatore insieme  alla National Gallery di Londra e al Musee du Luxemburg di Parigi) ha ospitato nel 2015  e di cui  Jennifer Thompson è stata la curatrice americana.   

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Il retro Del Philadelphia Museum of Art. Foto scattata nel 2015 mentre era in corso la mostra Discovering Impressionists: Paul Durand Ruel and the New Painting, la cui curatrice americana era Jennifer Thompson.

 

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La galleria 162 del Philadelphia Museum of Art dove sono esposte parecchie opere di Mary Cassatt. La prima a destra è Portrait of Alexander J. Cassatt and His Son, Robert Kelso Cassatt (1884)

Nel percorso di questo minisaggio che lascia da parte la cronologia, saltiamo da una grande donna come Mary Cassatt, sul cui fratello torneremo in seguito,  ad un'altra grande donna da più di mezzo secolo eclettica protagonista dell'arte e della cultura internazionale, la "sacerdotessa" Patti Smith, cresciuta in un’umile famiglia tra Philadelphia e il New Jersey.  

In una citazione Patti  ricorda la sua prima visita al Philadelphia Museum con  i genitori, quando entrata in una sala dedicata a Picasso si sentì pervadere da improvvise emozioni che la "lasciarono senza  fiato".

  

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Il giullare (1905) di Pablo Picasso. A destra Omaggio a Maillol (1917) di Pierre Bonnard, una delle opere della collezione Stern.

 Presente a Milano con tre dipinti, l'autore catalano oggetto delle istintive emozioni della Patti Smith bambina è anche autore di  una delle tre sculture della mostra, Il giullare del 1905.  Sono tuttavia le altre due,  L’atleta di August Rodin e Il bacio di Costantin Brancusi,  che  meritano un’attenzione particolare non solo come opere d’arte, ma per la valenza nel percorso di collezionismo in cui sono inserite.

 

Da Samuel S. White III, modello per L'atleta, al Phialdelphia Rodin Museum

 Il piccolo bronzo di Rodin, che nella posa ricorda il celeberrimo  pensatore scolpito una ventina d’anni prima, venne cominciato nel 1901 quando il giovane pluripremiato culturista Samuel Stockton White III, rampollo di una famiglia di Filadelfia che produceva attrezzature odontoiatriche, conobbe lo scultore a Parigi
Colpito dal suo fisico, Rodin gli chiese di posare per lui. Nacquero così L'atleta e la passione del suo modello per l’arte moderna (lui stesso sposò una pittrice) e per il collezionismo.  La raccolta di White III, cominciata con  opere impressioniste ed arricchitasi via via di tutti i successivi movimenti ed avanguardie, fu donata al Museum of Art nel 1967 dalla sua vedova Vera White. 

 

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Sulla sfondo Samuel Stockton White III. Sulla parete in primo piano uno dei quadri della sua collezione, Natura morta con piatto di frutta (1936) di George Braque 

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L'atleta, che Auguste Rodin modellò nell'argilla tra il 1901 e il 1904,  e che venne fuso in bronzo nel 1904.  

 

 La storia della piccola scultura ebbe anche altre importanti conseguenze per Filadelfia. Durante un evento mondano, White III raccontò della sua esperienza parigina con Rodin al concittadino Jule Mastbaum, un magnate della distribuzione  cinematografica, che iniziò la scalata al successo con  l’apertura del primo Nickelodeon (le sale il cui ingresso costava un nichelino) di Filadelfia nel 1905.

Innamoratosi letteralmente delle sculture di Rodin, Mastbaum cominciò a collezionarle, deciso a donarle alla città previa costruzione a sue spese di un museo pubblico.
Il movie mogul morì però nel 1926, subito dopo la fase di progettazione di un piccolo edificio dalle fattezze di un tempio greco, che sarebbe dovuto sorgere in mezzo agli alberi non distante dall'immenso edificio neoclassico, di cui si stava completando la costruzione, del Museum of Art.

Rispettando i desideri del marito la sua vedova portò avanti i lavori, finché nel 1929 il Rodin Museum venne aperto al pubblico e posto sotto l’amministrazione del Museum of Art. A tutt’oggi esso vanta la seconda collezione di opere dello scultore francese dopo Parigi. Tra di esse uno dei venti calchi bronzei originali dislocati nel mondo di quel Le Penseur (1880-1902) che, dall’alto della piattaforma collocata  all’esterno dell’edificio, riflette sul senso della vita tra alberi, visitatori e  passanti.

 

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20183003 philadelphia museo Rodin 1La facciata del Rodin Museum di Filadelfia e Il pensatore 

 

La collezione Brancusi degli Arensberg e l'affair Brancusi di New York

 La terza scultura, Il bacio (1916) di Constantin Brancusi del 1916, che già da solo sola varrebbe una visita al mostra, è la quarta ed ultima versione dell’opera ispirata all’artista rumeno dall'omonima sinuosissima scultura dell’amico Rodin, ma caratterizzato come le altre tre dalla ricerca dell’essenzialità. Estratto da un blocco di pietra calcarea, il parallelepipedo raggiunge nella sua sintesi la perfezione nella rappresentazione dell’unione tra uomo e donna.

Esso apparteneva ai coniugi Walter e Louise Arensberg, la cui donazione di oltre mille opere nel 1950 segnò il punto di svolta nell’importanza del Museum of Art per l’arte moderna. Posto al centro della sala di Palazzo Reale dedicata alla coppia,  Il bacio è attorniato da una serie di capolavori uno più bello dell'altro.

 

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Il bacio (1916) di Constantin Brancusi al centro di una sala dedicata alla collezione Arensberg. Sulla parete di fondo  L'ora del tè  (Donna con cuccaiaino) del 1911 di Jean Metzinger e Uomo al balcone (Ritratto del dottor Theo Morinard) del 1912 di Albert Gleizes

 

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L'ora del tè  di Jean Metzinger (collezione Arensberg) è stato definito la Monna Lisa del Cubismo.

 

Gli Arensberg amavano particolarmente l’artista rumeno, che nel 1924 fu anche protagonista di un singolare e divertente caso giudiziario passato alla storia come il caso Brancusi, quando un impiegato della dogana di New York pretese il pagamento di un dazio, non previsto per le opere d’arte, su una piccola statua dello scultore intitolata “Bird in Space” poiché non vi aveva riscontrato le fattezze di un uccello. 

Dopo una lunga battaglia il giudice diede ragione a Brancusi sentenziando a proposito della statua:

«Sebbene si possano riscontrare difficoltà nell’associarla ad un uccello, cionondimeno è piacevole da guardare e molto ornamentale.» 

Delle più di trenta versioni di Bird in Space che Brancusi, ossessionato dal tema, realizzò nel corso di 40 anni, due si trovano nella bellissima ed ampia sala del Philadelphia Museum of Art dedicate alle sculture di Brancusi e quasi interamente provenienti dalla collezione Arensberg.

 

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Alcune delle opere di Brancusi in una sala a lui dedicata al Philadelphia Museum of Art. Il bacio di trova sul fondo tra due versioni, una in marmo e una in metallo, di Bird in Space.

 

Walter e Louise Arensberg, eccentrici artisti e collezionisti

 Molti aneddoti rendono particolarmente interessante la coppia Arensberg, molto affiatata per interessi ed affinità intellettuali che coltivarono insieme per tutta la vita. 

Walter, figlio di un industriale siderurgico Pittsburgh, ma innamorato di letteratura e poesia e poeta lui stesso, non aveva nessuna intenzione di seguire le orme paterne e infatti studiò letteratura, mentre Louise, nata a Dresda da un commerciante di tessuti tedesco poi trasferitosi in America con la famiglia, era una pianista di talento. I  due si conobbero grazie al fratello di Louise che frequentava l’Università di Harvard con Walter.

Fu soprattutto la ricchezza che il padre di lei mise insieme con le stoffe a permettere alla coppia di vivere d’arte e di dare inizio alla loro immensa collezione, che comprendeva anche oggetti  precolombiani  oltre che opere d’arte di artisti contemporanei, molti dei quali divennero loro amici.

La loro caratteristica più eccentrica tuttavia fu la passione che Walter trasmise alla moglie per la crittografia e per Sir Francis Bacon.  Divenuta per Walter un'ossessione,  la convinzione  che dietro William Shakespeare si celasse il filosofo inglese lo portò a studiare attentamente tutta l’opera del bardo alla ricerca di simboli, crittogrammi, anagrammi e giochi di parole che confermassero le sue tesi, descritte nel libro The Cryptography of Shakespeare. Anche Dante, che Walter studiò attentamente e di cui tradusse in inglese molte opere tra cui La Divina Commedia, fu oggetto dei suoi interessi enigmistici che sfociarono nel libro The Cryptography of Dante.

 Quanto alla loro passione per l'arte moderma essa arrivò come una folgorazione alla mostra newyorkese all’Armory Show nel 1913, tanto che l'anno dopo si trasferirono a New York dove la loro casa divenne un centro di ritrovo per artisti ed intellettuali americani e stranieri e per vivaci nottate all’insegna degli scambi intellettuali e anche del divertimento. Lo stesso avvenne quando negli anni 20 si trasferirono a Hollywood, rendendo presto la loro dimora un importante fulcro artistico di Los Angeles, dove i due fondarono la Società Baconiana e dove contribuirono alla creazione di altre istituzioni culturali tra cui  il Museum of Art di Beverly Hills.  
Tra gli amici hollywoodiani più intimi della coppia vi furono i grandi Vincente Price e Edward G. Robinson,  che tra l'altro si batterono strenuamente per trattenere la loro collezione a Los Angeles. 

 

Marcel Duchamp, Fiske Kimball e i 1000 pezzi della collezione Arensberg

Tra i tanti amici artisti di Walter e Louise, una posizione particolare ebbe Marcel Duchamp, che la coppia conobbe nel 1913 instaurando un'amicizia che durò tutta la vita. Oltre a fungere da mentore artistico e consigliere per i loro acquisti, Duchamp  utilizzò la loro casa newyorkese come studio per realizzazione di una delle sue opere più celebri ed enigmatiche, La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche conosciuta come  Il grande vetro.

Una delle sue particolarità è una vistosa frattura plurima, che il vetro subì durante il trasporto dal Brooklyn Museum dove era stato esposto. Convinto che quella casualità desse all’opera significati aggiunti, Duchamp non volle sostituirlo, ma lo aggiustò in modo tale che le scheggiature stessero insieme ma fossero visibili. Nel 1954,  quando The Large Glass fu montato nel Philadelphia Museum of Art, Duchamp supervisionò all’installazione dell’opera che volle fosse cementata nel pavimento. 

 

20183003 philadelphia museum grande vetro duchamp La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, ovvero Il grande vetro (1918-23) di Marcel Duchamp

 

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Alcune opere di Marcel Duchamp della collezione Arensberg a Filadelfia.

Il 1954 fu anche l’anno dell’inaugurazione ufficiale della collezione Arensberg, che il museo era riuscito ad aggiudicarsi grazie alle magistrali mosse di Fiske Kimball, direttore dal 1925 al 1955.
Quando si sparse la notizia che gli Arensberg avrebbero donato la loro raccolta ad un’istituzione pubblica, scatenando la competizione tra musei di tutto il paese, Kimball non solo fece ripetute visite ai coniugi insieme a sua moglie Mary, ma studiò  tanto attentamente la collezione da creare nel suo museo lo spazio perfetto per accoglierla.  Vuoi per le abilità di Kimball, vuoi per la ricognizione segreta affidata a Duchamp, che espresse parere favorevole, il Museum of Art di Filadelfia nel 1950 si aggiudicò qui preziosissimi mille e passa pezzi,  attestandosi definitivamente come uno dei principali musei di arte moderna. 

Purtroppo all’inaugurazione ufficiale avvenuta  il 16 maggio 1954 Walter e Louise non c’erano.
La morte se li era beffardamente portati via pochi mesi prima di quell’importante avvenimento, rispettosa però dell’unione che aveva contraddistinto le loro vite. Nel gennaio del 1954 un attacco cardiaco stroncò Walter,  tre mesi dopo la morte per cancro di Louise. 

 

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Una fotografia dei coniugi Walter e Louise Arensberg insieme a Marcel Duchamp. A destra Cerchi in un cerchio (1923) di Vasily Kandisky 

 

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 Il Carnevale del villaggio (1926) di Paul Klee, della collezione Arensberg

 

Albert Eugene Gallatin e il primo museo d'arte moderna americano

Alle  abilità ed alla passione di Fiske Kimball  per il suo museo si deve l’altissima reputazione che esso si è conquisato nel corso degli anni arricchendosi di importantissime collezioni e opere appartenenti a tutte le epoche storiche e preistoriche.
Per quanto riguarda l’arte moderna tutto cominciò nel 1943 quando Kimball riuscì ad accaparrarsi 170 pezzi della collezione di Albert Eugene Gallatin

Eccentrico personaggio newyorkese, egli discendeva direttamente da un altro Albert Gallatin, medico di Ginevra che, spinto da illuministico entusiasmo, nel 1780 aveva lasciato la Svizzera per  unirsi alla rivoluzione dei coloni americani, diventando in seguito persino Segretario del Tesoro di Thomas Jefferson,  terzo presidente degli Stati Uniti nonché redattore della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. 

Quanto ad Albert Eugene, che ereditò un ingente patrimonio a soli 19 anni quando era però ormai già irrimediabilmente “compromesso” dalla passione per l’arte,  fu poeta, pittore e critico d’arte (dapprima innamorato dell’estetica “dell’arte per l’arte”  di James Mc Neill Whistler e del simbolismo liberty di Aubrey Beardsley, e successivamente  conquistato dall’astrattismo).  Dandy e “scapolo d’oro di New York” , ma  soprattutto una delle figure più rilevanti della cultura americana della prima metà del 900,  egli fondò il primo museo d’arte moderna degli Stati Uniti. 

La sua Gallery of Living Art, successivamente rinominata Museum of Living  Art, aprì nel 1927, due anni prima del Moma e quattro anni prima del Whitney Museum. Situata in Washington Square nel Greenwich Village dove molti artisti avevano i loro studi, essa utilizzava alcuni locali della New York University, che la famiglia Gallatin aveva contribuito a fondare restando nel consiglio di amministrazione. Ad ingresso gratuito quel luogo  divenne in un  baleno un punto  di ritrovo, studio e scambi culturali.  La possibilità di trovarsi di fronte ad opere di Matisse, Picasso, Braque, Gris, Leger, Mondrian permise ai pittori che si sentivano lontani dal realismo e dal regionalismo di avere preziose fonti di ispirazione da studiare e da elaborare.

Oltre allo stesso Gallatin che in età matura studiò pittura e divenne un ottimo rappresentante dell’astrattismo americano, artisti come i Wilelm ed Eloise De Kooning, Robert Motherwell e Stuart Davis, tanto per fare solo alcuni esempi,  ebbero in quel museo grandi opportunità formative. Almeno fino al 1942 quando l’università sfrattò Gallatin quasi di punto in bianco per far posto ad attività a sostegno dello sforzo bellico statunitense. In effetti quella fu probabilmente una scusa di cui i professori tradizionalisti della new York University approfittarono per liberarsi di opere che a loro non piacevano, che configgevano con i loro insegnamenti e che tuttavia attiravano gli studenti universitari, nonostante i divieti imposti loro di frequentare quel museo. Chi sicuramente si avvantaggiò della situazione fu il prontissimo Fiske Kimball che si accaparrò 170 preziose opere sfrattate.

La collezione Gallatin venne inaugurata al Philadelphia Museum of Art nel 1943 alla presenza di Marcel Duchamp e Fernand Leger. 

 

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Sulla parete di sinistra La città, di Fernand Leger della collazione Gallatin. A destra uno dei tanti ritratti che Henry Matisse realizzò nel 1920 a Nizza. Alla mostra di Milano è presente altro dipinto di quella serie proveniente dalla collezione di Louis E. Stern. 

 

Louis E. Stern e Marc Chagall

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 Una fotografia di Louis E. Stern tra due opere di Matisse della sua collezione. A destra  Natura morta su un tavolo (1925),  sinistra Donna seduta in poltrona, un dipinto della serie sopracitata che l'artista realizzò nel 1920 a Nizza.

 

Del 1964 è invece un lascito di altre 300 opere collezionate soprattutto tra il 1930 e il 1950 dall’avvocato Louis E. Stern,  altra figura di grande rilievo per il Museum of Art, di cui fu a lungo amministratore.
Trasferitosi negli Stati Uniti in giovanissima età da una comunità ebraica di Balta in Ucraina e laureatosi in legge all’Università della Pennsylvana, Stern rivestì un ruolo importante per Marc Chagall, quando questi si rifugiò egli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale. Fu proprio Stern, che parlava russo e yiddish, a facilitare le relazioni americane di Chagall instaurando con lui una relazione di stima ed affetto reciproca e duratura. La passione di Stern per l’arte si focalizzava sopratutto nell’intento di mettere in relazione l’arte preistorica dei vari continenti con quella moderna, alla ricerca di una continuità e di un filo comune nella essenzialità della forma espressiva. 

 

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 Una frase da una lettera di  Marc Chagall a Louis E. Stern

 

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Ritratto di Madame Cezanne (1885-86) di Paul Cesanne proveniente dalla collezione Stern 

 

La  Gilded Age e i Robber Barons

Tornando ora circolarmente al periodo della Gilded Age da cui l’esposizione prende il via con la Sala Cassatt, qualche cenno storico su quell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, in cui la rivoluzione industriale americana trasformò radicalmente e per sempre gli Stati Uniti, e su Alexander Cassatt che della Età Dorata di Filadelfia fu uno dei protagonisti.

La pecca di questa bella mostra è, a mio parere, quella di avere dato storicamente per scontata la Gilded Age, della quale sembra quasi passare l'impressione di un periodo caratterizzato soprattutto da mecenati e filantropi, quando invece non fu così.  Molti dei suoi protagonisti, spesso “progressisti” nella scelta degli acquisti artistici, non lo furono per nulla nel gestire senza scrupoli etici le industrie e le società i cui smisurati profitti permisero loro di passare del tempo a comprare opere d’arte. 

 Ancora attualissimo nella ricostruzione storica di quel periodo è il libro del 1934 The Robber Barons. The Great American Capitalists. 1861-1901”, in cui  Matthew Josephson istituzionalizzava  l’espressione “robber baron"(tratto dalla terminologia del feudalesimo germanico e usato nel 1859 dal New York Times con riferimento a Cornelius Vanderbilt) per indicare  coloro che hanno “sfruttato le risorse naturali e le arterie commerciali, conquistato le istituzioni politiche, trasformato la filosofia sociale in monetaria.  E tutto in nome “dell’avidità di profitto privato”,  smisurata tanto quanto lo sfruttamento inflitto a contadini ed operai, molto spesso ridotti a livelli di povertà sotto i limiti della sopravvivenza. 

In parecchi casi i robber barons furono anche collezionisti. 

Due esempi su tutti sono Henry Clay Frick e John Pierpont Morgan, le cui Frick Collection e Morgan Library and Museum di New York costituiscono due tappe obbligate per gli amanti  dell’arte e dei libri antichi.  
Henry Clay Frick in particolare, magnate della siderurgia di Pittsburgh (come Andrew Carnegie di cui fu prima partner e poi rivale in una complessa causa giudiziaria), meriterebbe un capitolo a sé che potremmo anche dedicargli, per le infamie di cui si è macchiato.

Eppure dalla visita alla stupenda Collezione Frick situata nella reggia che l’industriale  si era fatto costruire, come d’obbligo, sulla Fifth Avenue, si esce convinti che il signor Frick sia stato un grande mecenate e benefattore, forse solo un pochino ostile ai sindacati. 

 

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Uno scorcio del giardino interno della Frick Collection di New York.

 

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Una sala della Morgan Library and Museum di New York

 

Alexander Cassatt e il "Great Rairoad Strike " del 1887

Filadelfia, per molti versi all’avanguardia in campo artistico, culturale ed educativo,  come dimostra la creazione del Museum of Art nel 1876, era anche, come Pittsburgh e la Pennsylvania in generale, tra i principali centri della rivoluzione industriale.

La città era ad esempio sede della  Pennsylvania Railroad, nella quale Alexander Cassatt, entrato come ingegnere all’inizio della Guerra di Secessione nel 1861 saltando non si sa come l’arruolamento, scalò in breve i vertici, diventandone prima uno dei tre vicepresidenti, poi vicepresidente unico e quindi, dopo un periodo di ritiro dagli affari, presidente negli ultimi anni sette anni della sua vita dal 1899 al 1906.

Durante la sua presidenza  Cassatt fu artefice di progetti importantissimi per i quali viene ancora celebrato come un grande innovatore ed uno dei personaggi più illustri di Filadelfia.
A lui si devono infatti molti ammodernamenti delle linee ferroviarie con diverse conseguenze positive, tra cui il  notevole miglioramento delle condizioni di viaggio dei passeggeri. A lui si devono anche opere come i tunnel sotto il fiume Hudson, che consentivano ai treni della Pennsylvania Railroad di entrare a Manhattan, e l’immensa e maestosa Pennsylvania Station di New York, purtroppo abbattuta nel 1963 nonostante le infinite proteste e petizioni per farne un bene culturale nazionale. 

Ciò di cui invece si parla meno, o non si parla affatto, in alcune  sue biografie riguarda invece le sue  responsabilità in uno degli episodi più tragici del Great Railroad Strike del 1877, lo sciopero dei ferrovieri che sconvolse gli Stati Uniti passando alla storia come uno dei più tragici  scontri sociali  del diciannovesimo secolo.

Il 19 luglio ai lavoratori della Pennsylvania Railroad di Pittsburgh, sottoposti fin dall'inizio del mese ad una riduzione del 10% del già bassissimo salario, venne imposto l’ordine di far partire i treni merci a doppia trazione, che raddoppiavano il numero delle carrozze mantenendo inalterato il personale addetto per ogni treno, con un notevole aumento dei rischi di incidenti, già alti per quel lavoro. Il sovrintendente Robert Pitcairn di Pittsburgh annunciava anche il licenziamento di una sessantina di operai tra macchinisti e frenatori

Rifiutandosi di far partire i treni, i ferrovieri scesero in sciopero occupando alcune zone della città con il cospicuo sostegno della popolazione, che letteralmente odiava la Pennsylvania Railroad per lo sfruttamento perpetrato da anni. Anche i poliziotti  cittadini si schierarono con la gente.

Poiché la situazione si faceva sempre più calda Alexander Cassatt, uno dei tre vicepresidenti della della Pennsylvania Railroad  ma in quei giorni unico dirigente operativo,  arrivò a Pittsburgh il giorno dopo. Quando Pitcairn gli fece leggere le richieste dei lavoratori, ossia  il reintegro della paga intera, dei lavoratori licenziati e dei treni a trazione unica,  Cassatt gli ordinò di interrompere immediatamente ogni trattativa, poiché le  loro richieste erano inaccettabili.

Cassatt confidava che la Guardia Nazionale di Pittsburgh, del cui arrivo era a conoscenza, avrebbe risolto la situazione. Ma quando questa arrivò e il generale in comando avvertì che i soldati erano troppo pochi per disperdere la folla e che la situazione si sarebbe potuta risolvere solo con dei colpi di cannone a rischio di un bagno di sangue, il vicepresidente si dichiarò pronto alle conseguenze. Tuttavia il generale, riluttante ad un’operazione del genere, cercò di persuaderlo che anche la guardia nazionale di Pittsburgh difficilmente avrebbe aperto il fuoco su dei concittadini, tant'è vero che anche i soldati si misero dalla parte della popolazione.

Cassatt suggerì allora l’intervento della  Guardia Nazionale di Filadelfia che arrivò il 21 luglioAlle 15.30 i soldati aprirono il fuoco.  Tra i 20 morti rimasti sul campo e i 29 feriti c’erano uomini, donne e bambini.  

Il corso degli eventi era arrivato ad un punto tale che gli esiti sarebbero probabilmente stati gli stessi anche se invece di Alexander Cassatt ci fosse stato un altro dei dirigenti ai vertici della Pennsylvania Railroad.

Tuttavia a dirigere la situazione di Pittsburgh c’era lui, Alexander Cassatt, il primo illuminato collezionista di arte impressionista di Filadelfia.  Un personaggio che, sempre a mio parere, andava un po’ distinto dagli altri collezionisti e donatori qui citati per non fare di tutta un’erba e un fascio. Anche perché in effetti il signor Alexander Cassatt al Philadelphia Museum of Art non ha donato proprio un bel niente. I quadri della sua collezione sono stati infatti o acquistati dal museo o in alcuni singoli casi donati dai suoi discendenti.

 

 Brian De Palma al Philadelphia Museum of Art

E per concludere sdrammatizzando una citazione cinefila, ma anche personale, sul Museum of Art e su una delle scene più famose del regista filadelfiano, e hitchcockiano,  Brian De Palma, sebbene non uno di quegli interminabili piani sequenza cui ci ha abituati. 

La scena di quasi 10 minuti dell'abbordamento-inseguimento all'interno di quello che crediamo essere il Metropolitan Museum di New York, città dove si svolge la storia del film del 1980 Vestito per Uccidere, è stata in effetti girata al Museum of Art di Filadelfia. Omaggiando  la scena di “Vertigo” (La donna che visse due volte), nella quale Kim Novak è seduta quasi ipnotizzata davanti al ritratto della sua presunta antenata Carlotta Valdes nel Legion of Honor Museum di San Francisco, De Palma fa sedere  Angie Dickinson di fronte ad un quadro di Alex Katz.

 

Quando durante una mia visita al Philadelphia Museum of Art sono entrata in una  sala dominata da un gigantesco, e palindromo, quadro di Alex Katz,  mi sono trovata  alla presenza di una curiosa situazione che seppur furtivamente non ho potuto esimermi dal fotografare. E’ con quella personale citazione di una citazione di una citazione… che concludo questo lungo pezzo, non senza consigliare una visita alla bella mostra di Palazzo Reale per un primo incontro col Philadelphia Museum of Art e con quella città ricchissima di storia e di meraviglie da scoprire.

21083003 Alex Katz Philadelphia museum of art

Alex Katz, Summer Tales (2007) 

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

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