Il romanzo di debutto di Roberta Capon. «Sono i figli che molto spesso riescono ad “aprire gli occhi” alle donne maltrattate, succubi di uomini violenti».
Spesso è per via dei figli che le donne denunciano chi le maltratta, oppure almeno si allontanano da chi le perseguita per paura che anche i bambini possano subire abusi o violenze. Lo si legge sui giornali e lo si può anche umanamente immaginare. È con il punto di vista di un figlio, testimone ma mai coinvolto nelle violenze contro la madre perpetuate dal padre, che Roberta Capon racconta in “Gabriel” (Caosfera Edizioni) come “nella vita bisogna essere consapevoli di poter sempre cambiare strada o quantomeno, punto di vista”. Gabriel e Blanca lo fanno partendo, viaggiando. Siamo in Spagna, dove l’autrice ha scelto di ambientare la sua storia, nonostante lei viva a Monza, ma che importa? Si parla di violenze subite, di coraggio di cambiare, di qualcosa che prima o poi scatta. Temi transfrontalieri, temi trasversali che non hanno bisogno di scenografie vicine o note per toccare i lettori.
Come mai ha ambientato il suo libro in Spagna?
All’età di tredici anni, mia mamma e mio zio hanno deciso di portarmi in vacanza in macchina, proprio in Spagna. Mi sono innamorata subito della lingua, del modo di fare della gente e della loro calda accoglienza, dei paesini e delle città che avevamo attraversato. Ho deciso di ambientare il mio romanzo in Spagna, più specificamente tra Zaragoza e Barcelona, perché sono due città che amo. Nel corso degli anni sono tornata a visitare Barcellona, ma non solo: sono stata cinque volte in Spagna e appena posso ritorno per farmi ancora inebriare dal suoi profumi e per tuffarmi nella lingua che ho studiato per due anni e che attualmente parlo piuttosto bene. Mi manca da visitare il nord della Spagna: chissà, forse un giorno avrò modo di vederlo e scrivere un libro anche su Madrid…
Perché ha scelto il punto di vista del figlio per raccontare la violenza su una donna?
Ho voluto scegliere un punto di vista diverso da quello della donna maltrattata. È stato infatti necessario acquisire lo sguardo di una persona emotivamente coinvolta dalla questione, ma allo stesso tempo, in grado di vedere oltre e creare una via d’uscita per la vittima della violenza che, tendenzialmente, giustifica anche a se stessa i comportamenti dell’aggressore.
Sono proprio i figli che molto spesso riescono ad “aprire gli occhi” alle donne maltrattate, si legge sulla cronaca di donne succubi di uomini violenti che, grazie al pericolo percepito da queste ultime nei confronti dei figli, “prendono coscienza”. Il timore che il compagno possa abusare o maltrattare anche i bambini può portare la madre a chiedere aiuto.
Cosa accade in Gabriel?
Nel mio romanzo la questione è più complessa: Gabriel ha diciannove anni, non è mai stato picchiato dal padre, proprio grazie alla madre che ha saputo proteggerlo, almeno fisicamente, ma è cresciuto in una situazione instabile, umanamente degradante. Ha acquisito un ingente senso di responsabilità oltre che una notevole capacità di mentire all’unisono con la figura materna. Partendo da questo personaggio “borderline”, tra la fuga e l’omissione, nel romanzo analizzo anche la psicologia di chi subisce violenza in modo indiretto, in questo caso Blanca, la madre, senza però mai permettermi di giudicare.
È un caso che si tratti di un figlio e non di una figlia?
Ho sempre preferito scrivere dal punto di vista di un ragazzo e per giunta con un carattere estremamente differente dal mio, perché ritengo sia molto più semplice analizzare scelte e comportamenti da un punto di vista psicologico, senza sentirmene personalmente, direttamente coinvolta. Raccontare le vicende in una visione femminile, mi risulterebbe molto più difficile perché dovrei accettare di operare anche un’analisi su me stessa: la scrittura, per me, come la lettura, deve essere un piacere, non uno sforzo!
Come descriverebbe Gabriel a chi non ha letto il libro?
“Gabriel” è la storia del viaggio di un ragazzo che sta crescendo, perso tra l’egoistica necessità di vivere una vita spensierata, la rabbia verso un padre che non ritiene possa chiamarsi tale e la responsabilità, che si fa propria, di salvare sua madre.
Un punto forte e un punto debole del libro?
La sua forza risiede nell’analisi psicologica del protagonista e soprattutto, nella sua presa di coscienza sulla propria situazione. Si legge forte il cambiamento di Gabriel dal prologo all’epilogo del romanzo.
Il “tallone d’Achille” riguarda la mancanza di un’analisi approfondita sul comportamento della madre, proprio perché incomprensibile agli occhi del figlio, protagonista assoluto della storia.
La madre di Gabriel rispecchia un atteggiamento molto comune tra le donne secondo lei?
Acquisisce il tipico atteggiamento delle donne maltrattate quando subiscono violenza dalla persona che amano: mente perfino a sé stessa, sull'evidente mancanza d'amore e totale oppressione. Troppo spesso, si tende a giustificare determinati comportamenti subiti dalle persone a cui vogliamo più bene; ma se sfociano in violenza fisica o psicologica è necessaria una presa di coscienza. Se avviene, spesso ha luogo dopo lungo tempo e anche grazie a figure secondarie che agiscono da “specchio” nei confronti della vittima.
Se si trovasse ad un tavolino di un bar con questa donna, cosa le direbbe?
Domanda interessante... eviterei di parlarle direttamente dell’argomento e la invoglierei invece a parlarmi delle cose belle che vive, fino a sfumare le parole in una riflessione che potrebbe aprire a nuovi confronti, magari più delicati. Una volta in empatia mi azzarderei a chiederle di quei lividi sulle braccia, senza mai azzardare alla possibilità di una violenza casalinga. E’ una persona molto fragile, la cui via di fuga non risiede nel passato, ma nella presa di coscienza di poter cambiare strada. Il mio romanzo parla di questo: nella vita bisogna essere consapevoli di poter sempre cambiare strada o quantomeno, punto di vista.
Le parole sono importanti: lei cosa pensa del termine coniato ad hoc " femminicidio”?
Le parole sono importantissime, ma non sono un’amante di etichette e terminologie, anzi! “Femminicidio” mi rimanda all’idea di una “femmina” (prima di tutto) uccisa in quanto donna; non lo trovo del tutto corretto, anche se condivido lo scopo di utilizzarlo per focalizzare lo sguardo sulla violenza sulle donne nello specifico, che sta dilagando in questi ultimi tempi su giornali e telegiornali. Questa violenza di genere esiste da sempre, solo che un tempo era celata da una pesante matrice culturale. Secondo me dovremmo parlare prima di tutto, di “omicidio” e fare nostra questa presa di coscienza sulla violenza, senza distinzioni di genere. Occorre fare uno sforzo, uscire da etichettamenti e ideologie e intraprendere un cammino di analisi culturale più che personale, sulla facilità con cui si agisce violenza sulle persone che ci circondano, spesso senza nemmeno accorgersene.
Come hanno influito sul suo romanzo, i suoi studi e le sue esperienze lavorative?
I miei studi hanno influito soprattutto sull’argomento trattato e sulla scelta del protagonista. Un argomento difficile come questo doveva necessariamente trovare da parte mia, un’empatia con il protagonista (dettata dal fatto di essere una figlia molto legata alla propria madre), ma anche un netto distacco con la realtà che Gabriel vive tra le pagine di questo libro. Gabriel rappresenta la figura di un educatore per Blanca. Un bravo educatore difatti, dovrebbe porsi a fianco del suo educando senza pretesa alcuna, prendergli la mano e accompagnarlo verso l’uscita, camminando con lui finché non è in grado di correre da solo.
Mi viene in mente, anche se successiva alla stesura del libro, la mia esperienza lavorativa come educatore professionale in Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani. Sarebbe difficile vedere un obiettivo da raggiungere in un contesto dove la morte è il fine ultimo del ricovero. È stato molto più semplice far vivere alle persone con cui ho lavorato momenti di vera gioia, di confronto, di stupefacente meraviglia. Noi educatori non sappiamo dove accompagneremo queste persone, sappiamo solo che la cosa che più conta è il viaggio di consapevolezza che permetteremo loro di fare, invitandoli a ex-ducere, portandoli fuori dal qui ed ora verso qualcosa che loro ancora non vedono, ma che noi sappiamo che esiste e non è neanche troppo lontano…