Dalle canzoni di Simon and Garfunkel alle tags di Cornbread, Julio 204 e Taki 183, dallo studio del 1967 “Names, Graffiti and Culture” di un insegnante di Harlem allo storico fotoreportage del 1974 “The Faith of Graffiti”, le primissime tappe di una storia appassionante, che si aggancia al contemporaneo fenomeno italiano troppo spesso etichettato come vandalismo.
Nella prima parte del dossier Street Art e integrazione abbiamo sottolineato come la connotazione fortemente sociale data da Jane Golden ai programmi artistici di Filadelfia sia stata decisiva nel processo che ha fatto della città la capitale mondiale dei musei a cielo aperto con gli oltre 4000 murales odierni.
Anticipando la frase di Nelson Mandela “l’istruzione è l’arma più potente che possiamo usare per cambiare il mondo”, i progetti di Jane Golden erano (e sono tuttora) basati sull’identica convinzione che “istruzione, cultura e arte sono potenti mezzi di trasformazione sociale” ai quali, indipendentemente dalle possibilità economiche familiari, tutti dovrebbero potere accedere attraverso percorsi efficienti, efficaci e duraturi. Grazie alle battaglie indefessamente sostenute da Jane, i suoi progetti sono stati supportati fin dal loro nascere nel 1984 dai vari sindaci di Filadelfia, che hanno cercato di salvaguardarli anche quando le condizioni finanziarie della città erano assai problematiche.
Sebbene non dal punto di vista artistico, abbiamo contemporaneamente fatto una prima incursione nella street art italiana, dando un’occhiata alle questioni legislative e propagandistiche che sinergicamente scandiscono la nostrana tendenza antiwriter, sfociata nella prima condanna carceraria recentemente comminata a Milano.
Abbiamo accennato anche a Wiola, un collettivo di recente formazione che dai primi di gennaio 2018 raccoglie firme per la modifica la cosiddetta legge antiwriter (articolo 639 del Codice Penale), e all’avvocato street artist Domenico Melillo in arte Frode, da anni in prima linea nella difesa processuale di numerosi writers e fin dall’adolescenza writer lui stesso per vocazione, con opere in parecchie parecchie città italiane e straniere.
Con Frode, anche portavoce di Wiola, avremo a breve il piacere di approfondire i vari aspetti della situazione della street art italiana in un’intervista esclusiva per Vorrei.
I due ritratti di Giuseppe Verdi, dipinti da Frode su una centralina elettrica in via Manzoni a Milano in prossimità del Teatro alla Scala. Il primo, realizzato nel 2016 nell'ambito del progetto Energy Box, è stato cancellato da ignoti. Il secondo è stato realizzato nel 2017.
In questo capitolo risaliremo alle origini del writing urbano americano, per puntualizzarne alcuni momenti salienti di Filadelfia e di New York.
Nella scansione spaziale e temporale ci sono alcune analogie con lo stupendo documentario Wall Writers. Graffiti in Its Innocence (2016), nel quale l'autore Roger Gastman, tra le massime autorità contemporanee anche grazie a quella specie di bibbia di The History of Graffiti, tratta il periodo che va dal 1967 al 1972. Gastman sostiene infatti che l’età dell’innocenza dei graffiti finisce in quell'anno, quando vengono organizzate le prime mostre e quando consumismo e pubblicità cominciano a manipolare il fenomeno e ad impossessarsene, secondo una pratica che gli Stati Uniti sono sempre riusciti ad attuare con i movimenti controculturali.
Oltre a molti preziosi filmati ed immagini d'epoca, il documentario, che fa seguito alla pubblicazione di un libro omonimo, contiene interviste a parecchi ex-protagonisti di Filadelfia e di New York, che raccontano di quei tempi lasciando trapelare una gran varietà di emozioni, particolare che rende il film non soltanto un importante documento storico.
Avvalendoci anche di testimonianze tratte da quel documentario, noi ci occuperemo qui della prima generazione di writers newyorkesi e filadelfiani con il principale scopo di dare voce a coloro che hanno voluto comprendere le motivazioni sociali del writing fin dalla sua comparsa.
Vagando anche un po' a ruota libera, arretreremo pertanto di qualche anno rispetto alla fine degli anni '60, per poi arrivare al 1974 con lo storico The Faith of Graffiti di Jon Naar e Norman Mailer .
Ad un prossimo capitolo riserveremo invece le successive evoluzioni del fenomeno (testimoniate da anche film di culto come Wild Style e Style Wars del 1983), così come l'incredibile storia personale di Jane Golden e quella della ripresa del muralismo figurativo politico-sociale di lezione rooseveltiana e messicana.
La seconda di copertina e la prima pagina, autografata durante la presentazione del libro, di The History of Graffiti (2011) di Roger Gastman. Tra le varie firme anche la riproduzione dell'omino col nasone che sbircia, il Kilroy Was Here, che i soldati americani disegnavano e scrivevano durante la seconda guerra mondiale. Kilroy was here era diventato talmente popolare e simbolico che al Washington DC Memorial dei caduti nella seconda guerra mondiale c'è una targa a lui dedicata (foto sotto).
Le origini: Filadelfia o New York?
"The legend of legends" di Filadelfia Darryl "Cornbread" McCray, al quale è convenzionalemnte attribuita la primogenitura delle tags, e Dimitrios "Taki 183", la prima leggenda di New York, in una foto recente. Manca "Julio 204", riconosciuto come il primo tagger colombiano-newyorkese, del quale non si hanno notizie da decenni.
La questione della primogenitura del writing americano, sostanzialmente dibattuta tra le città di Filadelfia e di New York nelle quali le firme rispettivamente di Cornbread e di Julio 204 cominciano a comparire nel 1967, sembra essere stata risolta con l’attribuzione del primato a Filadelfia.
Se poi ciò si debba al fatto che di Julio 204 non si sa più nulla da decenni, tanto che il documentario di Gastman si conclude invitando chi ne avesse qualche informazione a farsi vivo, mentre Darryl “Cornbread" Mc Cray non si è mai stancato di ribadire la sua paternità, non è dato sapere.
Sta di fatto che oggi il problema non sembra essere così importante, stando almeno alle dichiarazioni contemporanee di molti protagonisti di allora, tra cui Dimitrius “Taki 183”.
L'ex writer, considerato la prima leggenda di New York, della leggenda appare l'antitesi, con l'espressione aperta e bonaria del suo viso e l'atteggiamento semplice e modesto col quale racconta di sé, dei suoi storici compagni Greg , Phil T Greek e Phil T Greek (due amici della comunità greca che si firmavano con lo stesso nome) e delle loro prime tag eseguite nel 1968 su emulazione di un tal Julio 204.
«Julio 204 è comparso di punto in bianco. Abbiamo cominciato a vedere le scritte nel 1967. Non erano di grandi dimensioni. Si notavano perché non c’era nient’altro sui muri e nessuno sapeva di cosa si trattasse realmente. Pensavamo che riguardassero qualcosa che doveva succedere il 20 luglio alle 4. Poi abbiamo capito che era un ragazzo che andava in giro a scrivere il suo nome e il numero della sua strada.» (dal documentario Wall Writers. Graffiti in Its Innocence)
Alcune tag di Julio 204.
Le parole di Taki 183 inoltre sembrano confermare la teoria, molto ricorrente nel mondo artistico in generale, dell’esistenza di sintonie invisibili che permettono ad alcuni fenomeni di sorgere concomitantemente in diversi luoghi pur senza una reciproca conoscenza.
«Conosco tipi di altre città che dicono di essere stati i primi. Ma va bene così. Ci sono ragazzini che non avevano mai lasciato il loro quartiere. Se loro sono stati i primi nel loro quartiere senza mai essere stati a Washington Heights [generalmente riconosciuto come il capostipite del writing di New York], va bene, anche loro sono stati i primi nelle loro zone.» (dal documentario Wall Writers. Graffiti in Its Innocence)
Se poi il primato newyorkese spetti a Washington Heights o ad Harlem o al Bronx (dove il fenomeno ben presto esplode letteralmente quando si cominciano a taggare i vagoni del metrò), oppure in quale momento preciso le tag compaiano per la prima volta, non solo è poco rilevante, ma è impossibile certificare.
Esistono infatti fotografie che mostrano come l’abitudine di scrivere il proprio nome sui muri fosse precedente a quel 1967 convenzionalmente scelto come data di inizio.
Una foto scattata da Don Hogan nel 1966 a Spanish Harlem per il New York Times.
Alcune foto si trovano anche nello studio “Names, Graffiti and Culture” condotto nel 1967 da Herbert Kohl, e pubblicato nella rivista Urban Review nel 1969.
Classe 1937, nato e cresciuto in una famiglia ebraica del Bronx, Herbert Kohl è uno degli educatori ed insegnanti più progressisti ed innovativi americani, che ha al suo attivo diverse pubblicazioni derivanti dalle sue ricerche e dalle sue esperienze di insegnamento, sempre finalizzate a compensare gli enormi dislivelli sociali della realtà americana.
Avendo scelto di insegnare nelle scuole pubbliche dei quartieri più difficili, Kohl ha più volte dimostrato con risultati pratici come una scuola veramente democratica, dotata di insegnanti competenti, appassionati e in grado di lavorare con metodi alternativi rispondenti alle modalità ed ai bisogni effettivi degli studenti, riesca ad ottenere, con ragazzi provenienti da zone povere e culturalmente deprivate, risultati uguali a quelli dei coetanei di zone “normali”, sfatando quindi opposte e generalizzate stigmatizzazioni negative su alcune fasce di alunni.
Generalmente ignorato nelle ricostruzioni storiche del writing urbano, lo studio di Herbert Kohl riveste una notevole importanza, in quanto per la prima volta affronta l'allora l'emergente problema sociale dei graffiti con uno sguardo non repressivo e criminalizzante, bensì realistico, oggettivo e comprensivo, oltre che pedagogico.
Quanto alla data di inizio del fenomeno, Kohl racconta di essere venuto a conoscenza del writing casualmente, in seguito al racconto di un quattordicenne quasi analfabeta, al quale faceva da tutor, sull'abitudine di scrivere il suo pseudonimo sui muri, abitudine condivisa con una trentina di altri ragazzi. Incuriosito Kohl si fa portare da Johnny alias Bonito a vedere quei muri, entrando così in contatto con la realtà di ragazzi che da circa cinque anni compivano quel gesto per rivendicare un'ientità della quale avevano bisogno.
Una delle immagini contenute nel trattato di Herbert Kohl.
Oltre alle tag comunque, ci sono anche altre tipologie di writing che attraversano tutti gli anni '50 e '60. Ad esempio i nomi delle gang, che servono a marcare il territorio. E poi parole e frasi antisistema di chi comincia a dare voce alle proteste sociali, come quelle contro la discriminazione razziale, che proprio negli anni '50 vede i primi atti di ribellione destinati a sfociare nel Movimento per i Diritti Civili del decennio successivo, oppure contro gli interventi militari statunitensi e contro le varie forme di ingiustizia socia
"The words of the prophets are written on subway walls and tenement halls"
Nel settembre 1963 in un locale del Greenwich Village, il Gerde's Folk City, un paio di ragazzi newyorkesi di origine ebraica, cresciuti insieme e da anni abituati a cantare e suonare anche con il nome di Tom & Jerry, si esibiscono per la prima volta in una canzone nella quale c'è un verso che allude ai graffiti.
The Sound of Silence, destinata a diventare uno dei brani più famosi del mondo di tutti i tempi, e quei due ragazzi di nome Paul Simon e Arthur Garfunkel attirano l’attenzione della Columbia Records, che l'anno dopo produce l'album Wednesday Morning 3 a.m.
Nell'ultima strofa del brano, che inseriamo qui nel riarrangiamento dei Disturbed, con un'interpretazione da brivido del frontman David Draiman la cui presenza scenica nello stupendo video non è da meno della sua performance canora, spicca il forte significato delle parole "The words of the prophets are written on subway walls and tenement halls”.
The Sound of Silence nella versione dei Disturbed
Di fronte ad un mondo sordo all’ascolto degli altri, un mondo dove il silenzio dell’egoismo e dell’indifferenza dilaga come un cancro, i graffiti si connotano di una sorta di potere taumaturgico. Sono voci di speranza provenienti dal basso, ancora soltanto sussurrate, ma che forse troveranno il coraggio di unirsi e di farsi avanti per infrangere il suono del silenzio. Chissà allora che al dio al neon della ricchezza, del potere, del materialismo, cui la folla si inchina, non si possa contrapporre forte e chiaro quel segnale di avvertimento che si sta formando con le parole dei profeti scritte sui muri della metropolitana e dei caseggiati popolari.
Nel secondo album Parsley, Sage, Rosemary and Thyme del 1966 , il duo inserisce A Poem on the Underground Wall, una canzone che Paul Simon scrive a Londra forse sulle suggestioni dei graffiti londinesi, ma anche memore della seduta di posa fotografica nella stazione 55th Street del metrò di New York, effettuata due anni prima per la copertina del primo disco. I circa 500 scatti di allora erano risultati inutilizzabili per via di un particolare graffito, una parola di quattro lettere non proprio elegante, inquadrato involontariamente e senza accorgersene. Per i due cantanti la presenza di quel graffito avrebbe dato un valore aggiunto all’album, ma la Columbia Records proprio non ne volle sapere.
A Poem on the Underground Wall, volutamente molto breve rispetto alle consuete ballate, è un esempio di come una canzone riesca a volte, se il paroliere è uno come Paul Simon, ad esprimere le migliori caratteristiche della letteratura e del cinema, con l’incalzare del rimo del racconto, l’attesa, la suspense, l’azione, il voluto enigma del suo finale e l'impressione di vedere il tutto accadere davanti ai propri occhi.
C’è un uomo nascosto nell’oscurità di un angolo di una stazione della metropolitana, in attesa dell’ultimo treno della notte. Nella profondità di una tasca la sua mano stringe un pastello. E’ immobile, ma gli occhi sono vigili, pronti a captare tutto quanto avviene intorno a lui nell’attesa di cogliere il momento propizio. Il treno arriva e le porte si aprono. Che sia quello il momento che aspettava? Forse, eppure l’uomo esita, accenna un movimento, ma non osa andare oltre. Le porte si richiudono, il treno riparte e lui riarretra. E’ di nuovo nell'angolo, immobile, ma non più vigile come prima, paralizzato nel buio del suo nascondiglio. Ha fallito la missione. Ma d’un tratto la riscossa. Nell’azione. Veloce, furtiva, quasi un lampo. La mano che stringe il pastello vola fuori dalla tasca e su un cartello pubblicitario imprime in un baleno la parola di quattro lettere che non si può pronunciare. E poi via. Con un ghigno ironico sotto la debole luce del metrò l’uomo misterioso sale la scale e sparisce nel buio della notte. Dove sia diretto non si sa. Ma il suo messaggio è lì sul muro, un poema racchiuso in quattro lettere.
L’urlo di ribellione di uno dei profeti di The Sound of Silence.
Da un bootleg di un concerto di Simon & Garfunkel a New York nel 1967, la canzone A Poem on the Underground Wall, preceduta da alcune spiegazioni di Art sulla parola di quattro lettere.
Le prime leggende: Taki 183 e Cornbread
Taki 183 e Cornbread
Secondo la prassi che caratterizza la maggior parte dei writers di New York, forse copiata da Julio 204 forse da chissà chi, Dimitrius “Taki 183”, fa seguire al suo diminutivo il numero della sua strada, che si trova nella zona di Washington Heights, dove vivono soprattutto greci, ma dove ci sono anche portoricani, cubani e domenicani.
La fama di Taki 183 si diffonde presto per la gran quantità di firme che lascia in ogni angolo della città, anche grazie al suo lavoro di fattorino.
Siamo ancora nella fase in cui le tag sono semplici e quindi veloci da scrivere. Il loro numero e l’ampiezza della zona marcata prevalgono su quei fattori stilistici che subentreranno successivamente, e Taki 183 le sue tag le lascia in giro non solo in città ma nello stato di New York, nel Connecticut e nel New Jersey.
Nel 1971 un reporter del New York Times, seguendo le sue firme cittadine come le briciole di Pollicino, scopre la sua identità e lo intervista per l'articolo 'Taki 183' spawns pen pals. Quando fa presente al giovane writer quanto sia costoso rimuovere i graffiti, lui innocentemente gli dice:
«Perché se la prendono con dei ragazzini? Perché non con gli organizzatori delle campagne elettorali che quando ci sono le elezioni riempiono tutte le metropolitane di manifesti e di adesivi?»
L’articolo del Times aumenta la sua popolarità, che viene incrementata anche da uno spot televisivo per la campagna turistica della Statua della Libertà, nel quale la sua tag viene casualmente inquadrata sul muro alle spalle di una famiglia che sta salendo le scale interne del monumento.
Fotogramma tratto dal documentario WallWriters: Graffiti in Its Innocence di Roger Gastman.
Due foto con la firma di Taki 183 sui manifesti elettorali strappati.
Taki 183 lasciava la sua tag su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro.
Ormai il writer è una celebrità, tanto che nel 1973 viene intervistato per la rivista Interview di Andy Warhol.
Ma quando al termine dell'intervista il giornalista lo invita a recarsi da Andy Warhol per conoscerlo personalmente, lui candidamente gli risponde : “I got no time for this guy.”
Finché, raggiunto l'apice della popolarità, Taki 183 decide di dedicarsi ad altro e si ritira.
Nel 1985 il cinema gli rende omaggio con il film Turk 182, nel quale Timothy Hutton interpreta un writer smascheratore di corruzioni e di ingiustizie.
Se Taki 183 appare la personificazione della modestia, chi non sembra esserlo nel rivendicare la leggendarietà delle sue imprese e soprattutto la primogenitura del writing è il filadelfiano Darryl “Cornbread” McCray, "the legend of the legends”, "the first worlds writer", “the king of the walls", come lui stesso ha sempre tenuto a precisare negli eventi a cui continua a partecipare e nei numerosi documentari girati su di lui.
In effetti, quando afferma di essere stato “la sola persona al mondo a scrivere il suo nome sui muri con l'unico scopo di farsi una reputazione”, forse è un tantino esagerato ma, considerando la sua storia personale, qualche ragione ce l'ha.
Nel 1965 Darryl ha 10 anni, vive in riformatorio e ha la mania del pane di mais. Un giorno il fornaio dell’istituto, al quale il bambino chiede in continuazione di inserire il pane di mais nel menu, urla di tenere quel "Cornbread" fuori dalla sua cucina e da quel momento quello diventa il soprannome con cui tutti prendono in giro il ragazzino.
Lui allora ha l'idea di provare a trasformarlo in un punto d'orgoglio. Innanzitutto lo imprime con un pennarello sul retro delle sue magliette e poi, copiando i ragazzi del riformatorio che hanno scritto sui muri i nomi delle loro gang, comincia a scrivere Cornbread in tutti gli spazi dell’istituto, chiesa compresa, diventandone presto l'idolo.
Matura così la convinzione che se quegli autografi gli sono serviti per guadagnarsi la popolarità in riformatorio, la cosa può funzionare anche fuori. Dal 1967, quando torna a casa, Cornbread lascia la sua firma ovunque, ben presto imitato da molti altri ragazzi di Filadelfia.
Un paio imprese memorabili diffondono la sua fama tra i writers di tutto il mondo.
All'aeroporto di Filadelfia Cornbread tagga l’aereo dei Jackson 5, mentre Michael e i suoi fratelli e sorelle firmano autografi, cosa di cui ci si accorge solo dopo l’atterraggio a Los Angeles.
Quando nel 1971 un giornale locale dà notizia della sua morte, essendo stato erroneamente identificato come il ragazzo ucciso in una sparatoria tra gang rivali, Cornbread si intrufola nottetempo nello zoo di Filadelfia e spruzza su un elefante "Cornbread lives". Viene preso e arrestato, ma alla stazione di polizia i poliziotti fanno la fila per avere il suo autografo. Così perlomeno è come la racconta lui. In effetti, tra i vari articoli usciti ai tempi sulla notizia, esiste anche il trafiletto di un giornale di quei giorni in cui il suo amico Tity Peace racconta di esserci andato anche lui allo zoo e di aver taggato il povero ignaro pachiderma.
Un fotogramma di uno dei numerosi tributi resi recentemente a Cornbread, il breve Cornbread Lives , in cui oltre alla presenza del writer che si racconta ci sono diversi disegni.
Fotogramma tratto dal documentario WallWriters: Graffiti in Its Innocence di Roger Gastman.
Finché nello stesso anno Cornbread, ormai divenuto leggenda, annuncia il suo ritiro attirando ancora una volta l'interesse dei giornali. La consapevolezza del significato delle sue azioni e di quelle degli altri taggers è comunque rivendicata con forza in un aricolo che raccoglie una sua intervista.
«Quando vivi in quartieri come quelli nei quali viviamo noi, o ti unisci alle gang o diventi un drogato. Noi scriviamo soltanto sui muri. Tutto qui. Noi non abbiamo mai scritto oscenità su un muro. Non abbiamo mai ucciso nessuno e non abbiamo mai venduto a nessuno neanche una dose.»
L’aver privilegato le storie personali di Cornbread e Taki 183 è stata un po’ una scelta obbligata, volendo risalire alle origini del writing. Naturalmente loro due sono solo i riconosciuti capofila di una nutrita schiera di nomi rimasti nella storia, tra le migliaia e migliaia di giovani che si sono dati alla pratica.
Se inizialmente è Filadelfia la capitale dei writing, nel giro di pochissimi anni New York le strappa il primato. Per entrambe le città è impossibile citare i tanti nomi che ne hanno fatto la storia.
Tra i newyorkesi alcuni, presi un po' a caso tra le varie zone, sono Cay 161, Junior 161, Snake I, Sjk 171, Spanky 132, Baby Face 86, Joe 182, Coco 144, Stitch I.
Da una serie di foto scattate da Bill Cunningham, un'immagine in cui la bizzarra modella è seduta in un vagone del metrò dove impera la firma di Cay 161, uno dei primi e più famosi writers di New York.
E poi ci sono le ragazze, come Rocky 184, sicuramente una delle prime, Charmin 65, Lollypop, Cowboy, e le cosiddette "three Graces", Eva 62, Barbara 62 e Michelle 62. Per loro le cose sono molto più difficili. Farsi una reputazione in un mondo così maschile ed essere considerate alla pari è un traguardo per il quale si deve faticare almeno il doppio dei ragazzi.
La bellissima Rocky 184 oggi, in un fotogramma di Wall Writers: Graffiti in Its Innocence di Roger Gastman. Cresciuta nel quartiere di Washington Heights e, ai tempi, ragazza di Stitch I, racconta della fatica per farsi un'identità da writer e non essere considerata solo come fidanzata di un writer.
Una foto di Jon Naar del 1973, pubblicata nel libro The Faith of Graffiti (1974), in cui spiccano alcuni nomi di alcune delle prime ragazze dedite al writing.
Una segnalazione meritano gli Ex Vandals di Brooklyn, un gruppo la cui tattica di cominciare a taggare collettivamente prima che individualmente si rivela vincente. In una prima fase scrivono solamente il nome del gruppo, proprio come fanno le gang, lasciando il loro marchio con diverse grafie nei luoghi più frequentati dai writers, in modo da suscitare curiosità. E ci riescono creando scompiglio anche nelle gang. Tutti si chiedono chi siano questi Ex Vandals che nel giro di qualche settimana hanno invaso la città. Quando poi passano alla fase due, in cui ciascun membro scrive il proprio nome vicino a quello del gruppo, il mistero si svela, le gang si tranquillizzano ed ogni singolo componente degli Ex Vandals acquista immediatamente una fama che non si sarebbe fatto agendo da solo.
A differenza di molti writer di prima generazione che abbandonano molto presto, gli Ex Vandals continuano, diventando tra i più bravi nelle successive evoluzioni stilistiche della spray painting art.
Due tag della prima fase degli Ex Vandals ed una in cui il nome del gruppo è accostato a quello del writer.
Philadelphia Inquirer 1971: "Why they do it" di Sandy Padwe
Tra la gran quantità di libri, filmati, siti che, soprattutto negli ultimi dieci anni, sono fioriti a testimonianza del revival di interesse verso le varie declinazioni della street art, un documentario molto interessante è Sly Artistic City: Philly Graffity History, di Robert Moran, in cui la storia dei writers di Filadelfia copre un arco temporale abbastanza lungo.
Il film include anche interviste a Jane Golden e al sindaco Wilson Goode, quello che nel 1984 dà il via all'Antigraffiti Program nel quale si inseriscono i programmi antirepressivi di Jane Golden.
Tra i molti writers ripresi da Moran parecchi appartengono alla primissima generazione e raccontano divertiti, e con un po' di nostalgia, le loro avventure di quegli anni in cui in città si formano due gruppi: uno con Cornbread, Tity, Dr. Cool nella zona nord e uno con Kool Klepto Kid, Cool Earl, Chewy, Cold Duck, Bobby Cool nella zona ovest.
Due foto d'epoca, tratte dal documentario Sly Artistic City: Philly Graffiti History (2010) di Robert Moran
Sono i writers della zona ovest che ad un certo punto cominciano a lasciare tag e messaggi come "incontriamoci" sui muri più battuti da Cornbread e dai suoi, finché finalmente l'incontro avviene e, come dice Cool Earl, "fu amicizia istantanea".
Da quando cominciano a taggare insieme i writers di Filadelfia diventano una potenza e il numero dei giovani che si dedicano alla pratica aumenta esponenzialmente, con la conseguenza che molti ragazzini vengono sottrati al vortice di violenza delle gang nelle quali, come sottolineava Cornbread, è molto facile andare a finire se si vive in certi quartieri. Eppure la percezione generale che opinione publica ed istituzioni hanno dei writers è tale e quale a quella che hanno delle gang.
Tuttavia c'è anche qualcuno che decide di mettersi dall'altra parte della barricata rispetto alle accuse imperanti di vandalismo e criminalità di cui i writers oggetto indiscriminato.
Nel 1971 un reporter del Philadelphia Inquirer, Sandy Pawde, sucessivamente divenuto professore di giornalismo alla Columbia University di New York, si mette in testa di analizzare il fenomeno dal punto di vista sociale, senza pregiudizi di sorta e grazie ad alcuni informatori del suo giro riesce ad entrare in contatto con i giovani writers. Ne scaturisce il reportage The aerosol autographers - Why they do it, il primo pezzo giornalistico di spessore sull'argomento, pubblicato il 2 maggio 1971 in un inserto speciale del giornale.
Mosca bianca tra una pletora di accusatori, Padwe cerca di capire le motivazioni che spingono quei ragazzini a scrivere sui muri, si fa raccontare le loro storie, ne comprende tanto le delusioni ed insoddisfazioni quanto le aspirazioni e rivendicazioni. Ma l'articolo solleva centinaia di proteste, e lui e il Philadelphia Inquirer diventano oggetto di centinaia di critiche, proteste ed insulti.
The aerosol autographers - Why they do it di Sandy Padwe in due fotogrammi dal documentario Sly Artistic City: Philly Graffiti History (2010) di Robert Moran
Jon Naar, Norman Mailer e The Faith of Graffiti
Foto di Jon Naar dal libro The Faith of Graffiti (1974)
Nel 1973 è il turno della difesa dei writers di New York, con il progetto per un libro fotografico che il designer Mervyn Kurlansky e Jon Naar, ingaggiato come fotografo, vogliono intitolare Watching By Name Go By e per il quale Norman Mailer accetta di scrivere una presentazione che dà ai graffiti, come dice Naar, «un ‘aura di legittimazione che altrimenti non avrebbero avuto.»
Il fenomeno è ormai conclamato rispetto a quello studio iniziale condotto nel 1967 dell'insegnante di Harlem, il professor Kohl, anche se gli autori del nuovo progetto non ne sono a conoscenza. Verso la fine del 1973 Naar passa due settimane tra i graffiti e graffitari newyorkesi, scattando circa 100 rullini. Con lui c'è Norman Mailer.
Fin dal primo giorno di lavoro, alla fermata del metrò 155th Street - Eighth Avenue, i due entrano in contatto con con una banda di ragazzini che, pur avendo solo tra i nove e i dodici anni, sono esperti conoscitori della rete stradale e metropolitana. Avendo lo stesso Naar un bambino di 9 anni, il fotografo stabilisce con loro un rapporto empatico e loro si offrono di aiutarlo alla scoperta dei vari luoghi graffitisticamente emblematici della città.
Tre altre foto di Jon Naar dal libro The Faith of Graffiti (1974)
Lo stessa fiducia si instaura con Norman Mailer, che nel saggio si sdoppia inventando il personaggio AI, acronimo di Aesthetic Investigator. Con lui i ragazzini si confidano, ne percepiscono la sintonia pur non sapendo che famoso scrittore sia quell’uomo.
E lui con la sua prosa trascinante, che a tratti si srotola ininterrotta come un poema beat, con l'innarrestabile flusso delle parole simile al susseguirsi dei nomi dei writers mentre i vagoni corrono sulle rotaie, fa di quei ragazzini degli eroi epici, che con le loro bombolette sfidano gli enormi draghi di acciaio che di notte risplendono nell’oscurità dei capolinea. Gli raccontano delle lunghe ore di attesa nascosti sotto i vagoni o nella boscaglia nelle aree capolinea dove i treni sostano a fine corse, dei pericoli che corrono per scavalcare o per stare in equilibrio, degli anfratti delle stazioni metropolitane dove nascondono le vernici, delle paure di essere perquisiti o catturati dai poliziotti, di quello che subiscono quando vengono presi, del coraggio che il desiderio di uscire dall’anonimato dei ghetti infonde loro per vincere quelle paure e scrivere il proprio nome.
Sì, perché il nome è la chiave di tutto.
Il nome, che rende l’atto di scriverlo una sorta di una missione religiosa.
E un giorno quando il giovanissimo Cay 161, quello della foto dell'anziana lady sul metrò, che va sempre a taggare con l'amico Junior 161, tentando di spiegare a Mailer quale sia il significato profondo di quell’atto gli dice “the name is the faith of graffiti", lo scrittore sente che quello dovrà essere il nome del suo saggio e del libro.
Quando nel 1974 il volume viene pubblicato con 39 delle più di 3000 foto scattate l’edizione britannica mantiene il titolo previsto. Ma per l'edizione americana Norman Mailer la spunta.
The Faith of Graffiti va a ruba e il New York Times lo esalta.
L'edizione americana originale del libro The Faith of Graffiti del 1974
Nel 1976 la BBC produce un documentario che porta il nome inglese del volume Watching My Name Go By, ritrovato e messo in rete un paio d'anni fa.
Nel 2007, sull’onda del revival di interesse cui si accennava precedentemente, Jon Naar recupera altre foto di quel ricco bottino di 34 anni prima e pubblica The Birth of Graffiti, mentre nel 2009 è la volta di una nuova edizione di The Faith of Graffiti con ulteriori 32 foto inedite e con una postfazione di Jon Naar:
«(...) Ero colpito dal modo di usare i loro graffiti come un codice privato per comunicare tra Manhattan, Bronx, Brooklyn e Queens attraverso il sistema del trasporto pubblico e attraverso altri mezzi. (...) Ciò che mi colpiva come fotografo autodidatta, come del resto colpiva Mailer, era il fatto che questi primi graffiti writers erano riusciti a creare una vera e propria nuova forma di espressione grafica senza avere avuto (o forse proprio "perché" non l'avevano mai avuta) alcuna istruzione formale nelle arti visive. Nella foto Hex Nixon si può vedere come i colori dei graffiti, rosso e nero su fondo bianco, riprendano gli stessi colori del manifesto Nixon for President che i graffiti rendono più bello. (...) »
La foto di Jon Naar col manifesto eettorale di Nixon
Sul retro di copertina della nuova edizione c’è la bellissima fotografia di quei bambini “vandali” che sorridono sereni e fiduciosi di fronte all’obbiettivo chi si è avvicinato per interessarsi a loro e non per sgridarli, punirli o minacciarli. Quei ragazzini, come i loro compagni di Filadelfia, non sono consapevoli delle future implicazioni artistiche, sociali e politiche di quello che hanno cominciato a fare. Di politica, sociologia e arte non sanno niente.
Sono solo ragazzini che in alcuni casi hanno un senso artistico istintivo e in altri no, ma che hanno tutti una gran voglia di dire “Hey, ci sono anch’io!”
Il gruppo dei giovani writers di New York fotografati da Jon Naar alla fermata 155th street.
Una simile foto dei writers di Filadelfia tratta dal documentario WallWriters: Graffiti in Its Innocence di Roger Gastman.
Continua...