“Quando è onesta, non ti porta mai fuori dalla realtà. Così, ciò che appare come una fuga è in realtà un ritorno a te, dopo un bel giro”. Sabrina Campolongo, scrittrice e traduttrice, lo pensa, lo dimostra con un corso da Virginia & Co. e lo racconta in questa intervista.
Ha scritto un romanzo con cui ha “l’impressione di avere toccato degli snodi particolarmente sensibili, dolenti, sepolti molto in profondità”. Si intitola “Ciò che non siamo” (Edizioni Paginauno) e chissà che non diventi un film.
Tiene corsi dal titolo “La scrittura e l’esperienza della verità”, come quelli presso la Libreria Virginia e Co. di Monza, in cui chiede “di raccontare un’esperienza, bandendo ogni astrazione” perché scrivendo, anche se fermi, ci si possa sentire in viaggio.
Lei è Sabrina Campolongo, scrittrice e traduttrice, vive a Monza e l’abbiamo incontrata.
Scrittrice e traduttrice. Cosa dei diventata per prima?
La scrittura viene prima della traduzione. Scrivere fa parte della mia vita praticamente da sempre, mentre l’idea di provare a tradurre si è fatta strada piano piano, a partire dalle mie letture di testi in lingua originale, inglese e francese, e tradotti. Non sapevo se mi sarebbe piaciuto tradurre prima di cominciare, così l’ho fatto e basta. E mi è piaciuto! Secondo me l’esperienza della traduzione sta esattamente al centro tra quella della lettura e quella della scrittura. Ho scoperto che la lettura più profonda sperimentata prima restava ancora in superficie, se paragonata alla traduzione, lo stesso vale anche per la rilettura, seppur attenta e scrupolosa. Nel tradurre ti interroghi letteralmente su ogni parola, ogni virgola, sulla struttura di ogni frase, sul suo suono… E lo fai continuamente, mastichi e rimastichi le parole di qualcun altro e poi cerchi delle parole simili, vicine, le sistemi in una forma che ti parli di quella forma originaria, che risuoni dentro di te in modo analogo. Tutto ciò, ovviamente, impatta anche sulla tua scrittura, ti porta a una nuova consapevolezza.
Cosa ti piace dell’uno e dell’altro ruolo?
La differenza tra le due esperienze è emotiva. La traduzione mi regala una gioia pacata, alla fine, una gratificazione, simile a quella per un lavoro manuale ben fatto. La scrittura invece può essere esaltante o mortalmente deprimente, a seconda dei momenti, come l’inizio di una storia d’amore.
Dalla raccolta di racconti “Balene Bianche” al tuo recente romanzo “Ciò che non siamo”: come è cambiato il tuo approccio alla scrittura? Stile e temi?
Stile senz’altro, o almeno mi auguro sia così, perché scrivendo si deve crescere. Anche i grandi della letteratura hanno dovuto macinare pagine e storie per trovare la propria voceprima, e poi farla crescere, e stabilizzarla. Basta leggere i diari di Virginia Woolf per rendersene conto. I temi invece sono sempre i miei, evolvono come evolvo io ma, pur nella loro evoluzione, sono sempre le stesse cose quelle su cui torno, le mie ossessioni diciamo. “Ossessione” può avere un’accezione negativa, ma non per lo scrittore. Lo scrittore se le deve tenere care le proprie ossessioni, altrimenti la scrittura nasce vuota, esangue. Le mie sono le relazioni profonde e contraddittorie tra le persone, il rapporto con il corpo e con i corpi, dall’esultanza del corpo alla malattia, alla morte. E l’influenza sulle esistenze dell’ambiente in cui si nasce, in cui ci si muove.
In “Ciò che non siamo” metti in luce le contraddizioni di una famiglia in modo piuttosto lucido e impattante sul lettore. Come hai lavorato ai personaggi e all’intreccio?
“Ciò che non siamo” è nato in modo particolare e si è sviluppato in un modo inusuale, almeno per me. È nato da un’immagine, come mi accade spesso. Dall’immagine di una ragazzina molto pallida, molto bionda, ferma sulla scaletta di un aereo appena atterrato, che apre il romanzo e si rivela da subito una costruzione ingannevole della mente di uno dei personaggi. Ho lavorato su questa ragazzina, dandole un nome, Lyuba, che vuol dire amore, amata, a lei che fino a quel momento non ha mai conosciuto l’amore. Ho scritto un racconto su di lei, dal punto di vista di un ragazzo, Vittorio, che si ritrova a condividere con questa ‘aliena bionda’ parte della sua vita. Sono arrivata in fondo, l’ho riletto e immediatamente ho sentito che non avevo finito con quei personaggi: con Lyuba, Vittorio e i suoi genitori, Andrea e Milena. È strano! Di solito chiudo i conti con i miei personaggi all’interno dello spazio della storia che ho immaginato per loro. Nel caso di “Ciò che non siamo”, però, un racconto non è bastato, quei personaggi avevano altro da dirmi e avevo voglia di inseguire anche le loro storie. Per questo alla fine è venuto così: strutturato in cinque ‘racconti’, parte organica di un romanzo ma anche leggibili autonomamente.
Con questa particolare storia ho l’impressione di avere toccato degli snodi particolarmente sensibili, dolenti, sepolti molto in profondità.
Che reazione ha suscitato questo libro?
Una reazione molto viscerale, a cui non ero credo preparata fino in fondo. Una donna mi ha detto di averlo cominciato e averlo sospeso poi, per diverso tempo, perché le provocava incubi, faceva riemergere una parte del suo passato che non era pronta ad affrontare. Un’altra molto di recente mi ha detto di aver provato molte volte a scrivermi di questo romanzo, ma che ancora non ci riesce, con motivazioni molto simili a quelle portate dalla prima donna. Anche altri mi hanno raccontato le loro reazioni molto forti ad alcune scene. È un fatto che mi colpisce e anche imbarazza, quando me lo dicono. Sento quasi l’impulso di giustificarmi, di dire mi dispiace, non volevo. È piuttosto comune che i lettori ti dicano ‘hai scritto la storia della mia vita’ – non è quasi mai vero, ma è una reazione comprensibile – però con questa particolare storia ho l’impressione di avere toccato degli snodi particolarmente sensibili, dolenti, sepolti molto in profondità.
Lo trasformeresti in uno spettacolo teatrale?
Sarebbe favoloso. In verità sto giocando da un po’ con l’idea di ricavarne una sceneggiatura. Non l’ho mai fatto, sarebbe un’altra esperienza nuova, e io adoro imparare. Varrebbe la pena anche solo per questo.
Quando hai iniziato a scrivere narrativa, avresti immaginato di tenere corsi di scrittura?
No, non ci pensavo, ed è molto di recente che ho cominciato a farlo. Da una chiacchierata con un’amica psicoterapeuta sono uscita con la consapevolezza che la scrittura e la terapia hanno moltissimi punti di vicinanza. E non sto parlando dei temi, o della costruzione psicologica dei personaggi, ma proprio del metodo, dell’esperienza pratica, fisica dello scrivere. Non necessariamente di sé, anzi! Tanto più ti allontani da te, creando dei personaggi, facendoli muovere in una storia di finzione, tanto più facilmente entri in contatto, dalla porta di servizio diciamo, con il tuo io più profondo. Da qui il mio progetto, che non è quello di addestrare futuri scrittori, ma quello di mostrare a chi avrà voglia di mettersi in gioco con me, come la scrittura può entrare nella tua vita e renderla un posto più luminoso, più bello.
Il tuo corso propone “La scrittura e l’esperienza della verità”: cosa pensi di coloro che intendo la scrittura come un mezzo per fuggire dalla realtà?
La scrittura, quando è onesta, non ti porta mai fuori dalla realtà. Ti porta fuori dal contingente, dalla tua giornata storta, dal tuo problema apparentemente irrisolvibile, dal momento di tristezza o malinconia, ma alla fine anche il luogo in cui ti conduce è realtà. Una realtà che tu stesso hai smontato, in pezzi gestibili che ora stai cercando di rimontare in un universo coerente, con delle regole che è bene che ci siano. È una traiettoria circolare: allontanandoti ti stai in realtà avvicinando da un altro lato. Quindi quello che appare come una fuga è in realtà un ritorno a te, dopo un bel giro.
Spesso non sappiamo dire come stiamo, e allora tiriamo fuori l’arsenale delle frasi fatte, dei concetti sentiti altrove
Ci vuoi fare qualche esempio di attività che proporrai al corso?
Chiederò di raccontare un ricordo, o un sogno, o un’esperienza, bandendo però dal racconto ogni astrazione. Sarà un’esortazione ricorrente, quella di evitare tutto ciò che non è concreto. Sarò inflessibile su questo punto. All’inizio soprattutto, è un esercizio fondamentale. Spesso non sappiamo dire come stiamo, e allora tiriamo fuori l’arsenale delle frasi fatte, dei concetti sentiti altrove, in un film o tra le pagine di un libro. Ma se non posso scrivere che “mi sentivo totalmente demotivata e prostrata” sono costretta a descrivere il divano su cui sono seduta, l’odore dei miei vestiti, l’aspetto dei miei capelli, la confusione attorno a me, a far parlare gli oggetti, il corpo, i muscoli, i denti. E quando ci riesco sto scrivendo, e se scrivo non sono più immobile, anche se sono ferma. Sono in viaggio.