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Le radici del glicine di Massimo Pirotta. Le testimonianze dell'occupazione della ex Mellin a Milano dal 1975 al 1984, dalle lotte per la casa al Virus dei punx

In via Correggio 18 ho messo piede la prima volta nella primavera del 1998, quando entrai a far parte di una delle più grandi agenzie di pubblicità allora attive in Italia: lì era la sua sede. In realtà io allora non sapevo nulla. Non sapevo che quella — oltre che di Pasquale Barbella con cui feci il colloquio — fosse anche l’agenzia di Gavino Sanna, a lungo il più noto pubblicitario italiano. Non sapevo cosa fosse esattamente un art director, anche se sarebbe stata la mia professione per gli anni a venire. Non sapevo neppure cosa fosse stato via Correggio 18 a Milano. Ma andiamo per ordine.

Primo. Con Gavino ebbi modo di lavorare più volte in quegli anni e ogni volta passavo davanti la fila di poltrone da barbiere fuori dal suo ufficio. Entrato, rimanevo poi incantato a guardare le mille foto, dipinti e disegni originali appesi alle spalle della sua scrivania, provando a riconoscerne gli autori, tipo quello di Gerald Scarfe. Sì, l’autore della copertina e dei disegni di The wall dei Pink Floyd.
Secondo. L’art director è grosso modo colui che si occupa della parte visiva nella comunicazione pubblicitaria, in coppia con il copywriter che si occupa del testo. La divisione non è mai così netta e lo scambio indispensabile. Art e copy formano la coppia creativa.

Terzo, soprattutto: via Correggio 18 a Milano. La finestra del mio ufficio dava sul cortile posteriore dell’edificio, dal lì si intravedeva l’interno dell’altra ala, evidentemente abbandonata e con le pareti ricoperte di scritte e manifesti strappati. Di spazi così ce ne sono tanti ovunque, nulla che facesse pensare a qualcosa di particolare. L’indizio vero e proprio lo scovai invece un giorno che dovetti scendere nell’interrato dell’edificio “buono” per recuperare materiale di cancelleria. Fra le pareti ridipinte, un pezzo in alto vicino all’ascensore era sopravvissuto sporco. Intenzionalmente lasciato così a testimoniare la vita precedente di via Correggio 18. Ora, potrei sbagliarmi ma mi pare di ricordare che ci fosse scritto “We want the world” e probabilmente anche il resto della frase tratta da When the music’s over dei Doors, ovvero “and we want it now”. Ma ripeto, la memoria non è il mio forte.

Non dovetti indagare molto per scoprire che quegli edifici, una dozzina di anni prima, erano stati sede del Virus, uno spazio a lungo occupato dai punk milanesi e adibito soprattutto a sala per i concerti della scena musicale hardcore. Il corto circuito era evidente e, lo ammetto, piuttosto tragicomico: lì dove avevano bivaccato la sinistra extraparlamentare e gli anarchici ora si scatenavano tempeste di cervelli — i brain storming! — per convincere quanta più gente possibile a comprare merci su merci, il tripudio del consumismo sulle rovine del comunismo…

 

“Virus” il documento edito da Shake Edizioni, girato nel 1982, all'interno dell'area occupata di via Correggio 18 a Milano.

 

Per la verità il Virus fu solo una parte della storia di via Correggio 18 e a rendere giustizia al resto è arrivato Massimo Pirotta con il suo Le radici del glicine, saggio edito da Agenzia X, la stessa casa editrice fondata da quel Marco Philopat che grazie a volumi come Costretti a sanguinare e Lumi di punk è forse il più noto testimone della scena punk, essendo stato lui stesso uno dei punx milanesi.

«Un lavoro lungo 18 mesi» mi ha raccontato Pirotta, durante i quali ha raccolto le testimonianze di coloro che a partire dall’11 aprile del 1975 — molto prima del Virus quindi — occuparono quella che un tempo era stata la fabbrica della Mellin, «quella dei biscotti per bambini». Un prezioso lavoro di documentazione attraverso i racconti in prima persona di Mimì, Stefano, Rita, Marco, Milena e molti altri. Tutti più o meno giovani, tutti più o meno di sinistra in quegli anni Settanta in cui pensare diversamente non era uno slogan pubblicitario molto paraculo. «(…) i loro racconti — riprendo dall’introduzione che potete leggere integralmente più avanti — non sono certo quelli di tristi ex aderenti a qualche organizzazione extraparlamentare di sinistra, qui si tratta di soggetti lontani mille miglia dal proselitismo o dall’agire per un tornaconto economico, generosi nella loro militanza come erano generosi nell’accogliere e sostenere ogni battaglia civile e politica.»

 

20171213 le radici del glicine via correggio

 

Sono storie di chi negli stessi anni vedeva l’Italia alle prese con quelle lotte che hanno cambiato tanto il Paese (il divorzio, l’aborto, il voto ai diciottenni…) decidendo di vivere in un luogo occupato e accogliendo molte altre persone e fra queste anche i punk che poi daranno vita al Virus.

Ci sono storie molto diverse nel prezioso libro di Pirotta, quelle di chi lavorava in ospedale o in fabbrica, di chi scappava dall’oppressione famigliare e di chi non sopravvisse all’ondata di eroina arrivata improvvisa a devastare esistenze, famiglie e probabilmente anche molta parte dell’energia del movimento.

20171213 le radici del glicineAltro elemento importante di Le radici del glicine è costituito dagli apparati. La cronologia di quegli anni — dal primo giorno di occupazione fino al 15 maggio del 1984, quando ci fu lo sgombero con la polizia in tenuta antisommossa — che riporta quanto altro accadeva a Milano, la nascita di giornali e fanzine, le manifestazioni e gli omicidi dei terroristi, e insieme i dischi e i film che ne scandivano la successione. La bibliografia, dalle Lettere a Lotta continua al Male di Vincino. Le tantissime foto che testimoniano l’effervescenza di quell’arco di tempo così intenso. E ancora il testo scritto all’indomani dello sgombero sulla rivista Primo maggio da Cosimo Scarinzi e Fabio Traù, praticamente una ricostruzione in tempo reale di tutta l’esperienza.

A scorrere le quasi 300 pagine del libro di Pirotta viene spesso da credere che siano passati molti più dei 33 anni che ci separano dallo sgombero, non certo perché allora non c’erano i social network o le app, ma per la distanza siderale che separara le ambizioni di allora da quelle di oggi. Lo dicono Philopat e Pirotta — ancora dall’introduzione — «(…) l’incredibile milieu di personaggi che abitavano o frequentavano via Correggio è forse l’aspetto essenziale della nostra ricerca, ma a differenza dei disperati del Casermone così ben delineati dallo scrittore scamiciato (Paolo Valera in La folla, Ndr), chi viveva nella casa occupata non tentava solo di sopravvivere allo sfruttamento, ma provava anche a rialzare la testa per contrastare le ingiustizie, cercando l’unità con i propri simili. La lotta per una nuova umanità era il loro unico obiettivo». Oggi, al tempo del rancore, prevale l’aggressività fine a se stessa. L’insulto social e inconcludente «La totale assenza di tale prospettiva al giorno d’oggi, è la principale ragione della proposta editoriale che vi presentiamo».

 

 

Dall’eskimo al chiodo

Marco Philopat e Massimo Pirotta

 

Provate a immaginare una grande casa liberata nel pieno centro di Milano. Un’isola pirata metropolitana, un concentrato di libertari, famiglie di senzatetto, anarchici, hippie, comunisti, femministe, cattolici del dissenso, operai riottosi, ragazzine di strada ed ex partigiani. Provate a immaginare di entrare in uno dei luoghi più tolleranti e pieni di energia degli ultimi cinquant’anni, una dimora in cui le persone si incontrano portando il proprio vissuto senza maschere, anche perché quelle poche che si contrappongono alle salde amicizie e alle buone relazioni, vengono smontate all’istante da un clima di condivisione privo di meccanismi autoritari e da una lotta tenace contro un nemico comune. Provate a immaginare un via vai continuo di soggetti che a loro volta viaggiano per altre strade convergenti, ognuno alla ricerca di visioni più vaste di quelle della normalità, giovani donne e uomini che si dannano per trovare nuovi percorsi esistenziali, inediti e collettivi, poco importa se siano troppo psichedelici da far perdere la ragione o troppo rivoluzionari da far perdere il senso delle proporzioni. Provate a immaginare di entrare in questo vortice di creatività esplosiva grazie a un macchina del tempo che vi condurrà, in un qualsiasi giorno compreso tra 1975 e il 1984, all’interno dell’ex fabbrica occupata di via Correggio 18 a Milano, e finalmente potrete partecipare in diretta a un’avventura difficile da dimenticare.

Usate questo libro come guida di viaggio e non ve ne pentirete.

Le pagine che seguono sono frutto di uno studio durato diciotto mesi, con una raccolta di testimonianze orali di tutti gli ex occupanti che siamo riusciti a rintracciare. Con loro ci siamo incontrati più volte per sviluppare in termini narrativi la prima sbobinata e, quasi per magia, alle volte c’è sembrato di rivivere il clima gioioso di quell’esperienza comunitaria. Infatti volevamo iniziare la presentazione al volume con una narrazione ambientata durante una cena di gruppo sullo splendido terrazzo del terzo piano di via Correggio, nello stabile dove una volta c’erano i lussuosi uffici della ex fabbrica. Ricreare quell’atmosfera allegra che nasceva dall’incontro di tantissimi giovani provenienti da esperienze completamente diverse e che lì, magari sotto l’ombra di due glicini in fiore, trovavano dei punti di contatto.

Pensavamo di scrivere i dialoghi, cosa si dicevano i convitati, quali erano i loro desideri, sogni e incubi, riportare alcuni brevi racconti che scaturivano dai fatti quotidiani, i problemi collettivi che andavano ad affrontare, gli amori che sbocciavano o sfiorivano. Cosa mangiavano, cosa bevevano e cosa fumavano. Volevamo scrivere una fiction, ma poi ci siamo trovati di fronte a una storia corale che filava liscia di per sé e nulla aveva da invidiare a un bel romanzo.

A partire dal titolo, cioè le radici di una pianta molto resi- stente, avvitata su se stessa e infestante, ma anche un arbusto che non si stanca mai di arrampicarsi verso il cielo e che in primavera diventa bellissimo e profumato. I glicini di via Correggio sono sempre presenti nelle testimonianze e vengono spesso citati come uno dei principali agganci della memoria per illustrare l’atmosfera che nutriva quegli spazi. Per chi scrive, il glicine è invece un simbolo delle origini e del futuro dei movimenti sociali che partono dal basso per assaltare il centro delle città.

Come in La folla, un libro di Paolo Valera ambientato in una grande casa milanese dei primi del Novecento dove gli inquilini sono anch’essi proletari, l’incredibile milieu di personaggi che abitavano o frequentavano via Correggio è forse l’aspetto essenziale della nostra ricerca, ma a differenza dei disperati del Casermone così ben delineati dallo scrittore scamiciato, chi viveva nella casa occupata non tentava solo di sopravvivere allo sfruttamento, ma provava anche a rialzare la testa per contrastare le ingiustizie, cercando l’unità con i propri simili. La lotta per una nuova umanità era il loro unico obiettivo.

La totale assenza di tale prospettiva al giorno d’oggi, è la principale ragione della proposta editoriale che vi presentiamo.

Nel libro ci sono molti altri spunti, per esempio il ruolo paritario delle donne all’interno della comune milanese: sono loro ad affermare che la società la si cambia solo attraverso l’opposizione al dominio maschile, sono loro a dimostrare quotidianamente che via Correggio è una valida alternativa per uno stile di vita più sostenibile.

A ribadire poi la questione legata alla solida appartenenza di classe e di lotta degli occupanti, si può notare come nei racconti orali ci siano spesso ricordi che riguardano due personaggi esemplari che frequentavano lo spazio liberato: il partigiano Bruno Casini e la clochard Marcellina. Come dire: veniamo da lì e continuiamo a schierarci con i più deboli.

Però i loro racconti non sono certo quelli di tristi ex aderenti a qualche organizzazione extraparlamentare di sinistra, qui si tratta di soggetti lontani mille miglia dal proselitismo o dall’agire per un tornaconto economico, generosi nella loro militanza come erano generosi nell’accogliere e sostenere ogni battaglia civile e politica. Persino quegli scatenati giovani punk che mai avrebbero trovato in tutto il resto della città persone disposte a sopportarli. I rigidi schemi teorici di cui sono pieni i materiali sugli anni settanta italiani non hanno senso quando il momento decisionale si affronta insieme in assemblea guardandosi negli occhi uno nell’altro, proprio come diceva il caro Carlino, un occupante storico morto nel 1991 in un incidente d’auto: “È necessario superare la fase teoria-prassi-teoria per trasformarla in prassi-teoria-prassi”.

Dieci anni di memorie sulla comune urbana si intrecciano qui alle diverse fasi storiche cittadine, il tessuto sociale di un quartiere operaio che appoggia le lotte nei primi anni, ma che poi si sgretola in pochi mesi insieme alle organizzazioni di base. L’eroina, la lotta armata, il riflusso, la speculazione edilizia e infine, ai vicini che diventano le guardie del perbenismo, si oppongono i suoni distorti e le urla dei punk. Ogni circostanza viene qui ricordata sotto un altro punto di vista, sempre sostenuto da una forte dose di utopia, come se via Correggio avesse vissuto un suo tempo, fuori dal tempo.

Un calendario proprio, capace di eludere gli abbagli di quello dell’ufficialità e del cinico individualismo. Interno a un lasso di tempo con più stagioni, avamposto di nomadismi al singolare, attuato da un piccolo gruppo e alimentato dal forte dosaggio di saperi collettivi. Un gioco di insiemi in cui l’inventarsi giorno per giorno era la vera sfida da affrontare. E in questo ambito, popolato e attraversato da anime plurime e da altrettante animosità, prende vita e forma una novella che a noi oggi può sembrare quasi surreale, ma che invece fu realtà per molti anni.

Ci sono altri fattori che, con qualche scatto da centometrista, si inseguono in un andirivieni tra ieri e domani, tralasciando l’appendice triste e lacrimosa delle solitudini odierne. Pensiamo al lavoro, al non lavoro, a quelle moltitudini unite in una sola battaglia. Inoltre in via Correggio c’era un’enorme circolazione di idee che venivano tramutate all’istante in azione diretta e tutto ciò è servito a dare vivacità a un luogo, che contrariamente a molti altri sono stati ricoperti delle polveri dell’oblio.

In Le radici del glicine sono raccontate le idee da grandi sistemi attraverso piccoli gesti quotidiani che ci fanno capire come si può vivere con poco e abbinarlo tranquillamente al vogliamo tutto. C’è un fantomatico sindaco dell’autogestione, con il pallino del giovedì, che indossa vestiti colorati e che deve tenere insieme, in un contenitore (la casa) le tute blu, le addette alle pulizie, i camici bianchi da infermiere, poi le baby-sitter, giovani apprendisti, studenti fuorisede, viandanti, gente con il sacco a pelo, ragazze approdate perché la famiglia è ariosa come una camera a gas.

Niente viene preso sottogamba, dal sapersi posizionare all’interno di una manifestazione di piazza, dal fumarsi uno spinello al momento giusto, dall’attacchinare manifesti in notturna senza farsi sgamare, dalla orgogliosa assenza di serrature, al colore azzurro del portone d’ingresso. Dall’essere particolarmente attenti a provocazioni, al diffondersi dell’eroina (essere, ma- gari a loro insaputa, eroi senza eroina), dall’imbastire tavolate in cui discussioni ad ampio raggio che si uniscono ai baci, alle divergenze politiche, alle carezze e ai litigi. La casa comune è stata anche una questione di sguardi. Occhio clinico e occhi spalancati. Occhiaie a causa di notti insonni e con l’ansia dell’essere pendolare, uno dei tanti con o senza biglietto per tragitti metropolitani con ritorno. Sin quando un caporeparto, ti viene a dire che non vai più bene e che così non può più andare avanti perché budget e profitti sono il nettare della vita, e se tu proprio non vuoi capire... Be’, peggio per te. Cercati un’altra sistemazione per sbarcare il lunario. Sguardi di una generazione, figlia del dopoguerra e delle sue conseguenti macerie e non tanto del boom economico dove si scopre il giovane e lo si scaffala in quanto divenuto nuova categoria mercificata. Gli occupanti provenivano da famiglie proletarie, sapevano cosa erano fatica, sudore, l’alzarsi il mattino presto, la stanchezza post-lavorativa, il fare quadrare i conti e il lusso di potersi concedere un’annuale vacanza. Usanza ferragostiana, quando rallenta il ritmo, si carica il portapacchi dell’utilitaria e si va in coda sull’autostrada. In via Correggio si cercano e si trovano varianti a tutto ciò, a quell’agire comune massificato, sovraccarico di illusioni e fotoromanzato, dove chiedere la carta d’identità a un nuovo arrivato è un tabù. Ma basta poco per capire chi sei veramente. Basta intuire chi vorresti frequentare, più che sufficiente per capire al meglio chi sei, al di là di quello che si ama raccontare. Ed è grazie ad accorgimenti come questo, che le amicizie sbocciate allora non si sono mai perse, dilatate o frantumate. In taluni casi, come ci siamo resi conto durante la fase delle registrazioni, esatta- mente l’opposto: si sono rafforzate. A quarant’anni di distanza c’è chi si è guadagnato la pensione, chi imperterrito continua nell’impegno politico, nessuno si sente in difficoltà a raccontare quello squarcio di vita che è stato finestra aperta sul mondo, sogno prolungato, materia da modellare a proprio piacimento, esercizio continuo contro convenzioni che si sono fortemente osteggiate e combattute. La pillola, il divorzio, l’aborto non più clandestino, lo Statuto dei lavoratori, una busta paga più gonfia, il diritto di riunirsi in assemblea durante le ore lavora- tive. Così come occupare scuole e università contro la riforma, i “parlamentini” (i decreti delegati) per dare il colpo di grazia all’assemblea generale. Sono pagine atletiche di una “Gazzetta rossa” che vede sfilare operai e studenti, donne in prima fila che si oppongono agli sgomberi di stabili occupati, coordinamenti specifici e alla ricerca di strategie oltre alle imminenti tattiche, l’antifascismo militante (che toglie abilità politica e fisica al nemico), il festival pop che non è più festival perché diventa festa del proletariato giovanile, i gruppi della sinistra extrapar- lamentare con tanto di angeli del ciclostile e servizi d’ordine che fanno mambassa nei cortei, negli scontri con la polizia, che portano nelle strade migliaia di giovani. Il 1975, quando viene occupata la casa, è un anno fratturato e sequenziale, dove fanno tappa e chiedono ospitalità nuovi soggetti sociali con teorie libertarie o marx(z)iane, approcci coloriti e meno pumblei del solito. Altre aspettative, non più tanto Mao ma Agnes Heller, la filosofa ungherese che aveva riletto il marxismo posizionandolo sulla politica dei bisogni.

L’ultima festa di “Re Nudo” al parco Lambro nel 1976, vede gli occupanti della comune milanese in una posizione trasversalista, parecchio distante da quell’improvviso tutti contro tutti. Via Correggio è situata in un quartiere a metà strada tra il centro e le zone esterne più popolari, chi la occupa conosce ciò che succede nelle periferie più dei presunti leader o intellettuali di sinistra. Sono a stretto contatto con i giovani che passano le notti freddi seduti su un muretto ad annoiarsi e facili prede delle più disparate tentazioni. E non è detto che vanno sempre nella giusta direzione, anzi. Quindi a ciascuno la sua posizione: la fine di un’epoca ma certamente l’inizio di una nuova fase dove non viene tralasciato nulla. Molto si è detto sul Movimento ’77, inutile dilungarsi. Sta di fatto che nessuna istituzione è stata risparmiata dall’essere contestata. È un conflitto sociale tutto all’italiana e in via Correggio ci si fa i conti. Gli occupanti, da sempre non violenti, pacifici (ma non pacifisti) si trovano alle prese con un clima dalla forte carica violenta. Già, la violenza. Sarebbe meglio iniziare a usare questo termine al plurale, perché non esiste solo quella fisica ma anche quella psicologica, storica e da secoli nascosta con varie manomissioni e giustificazioni (sfruttatori e sfruttati), del logorare ai fianchi giorno per gior- no. Ed è così che siamo giunti nell’era degli ansiolitici e degli antidepressivi.

Bisogna dunque andare ancora una volta a farsi un giro in quella residenza arcobaleno che navigava sulle acque mobili di una Milano che è città d’acqua. Chi legge oggi la storia di via Correggio deve quindi sognare di approdare in una cena collet- tiva a bordo di una tavola da surf immaginaria. Guardare oltre il tempo, leggere e partecipare alle loro attività nella Milano da bere o in quella delle pere.

E qui siamo a un altra giravolta: i discussi e disillusi anni ottanta. Ma nella casa occupata succede il contrario perché si nutre di nuove energie. Non è tanto questione di divise e divisori (dall’eskimo al chiodo), bensì dell’arte degli incontri. Dapprima le bianche piastrelle, le luci al neon, i party audio- video-danzerecci, meccanico-robotici con ingresso libero e/o a sottoscrizione del poco più di un anno di vita dello spazio Vidicon e per finire con una X che sostituisce la K del punk. In un capannone della ex fabbrica nascerà nel 1982 il Virus grazie ai giovani punx accolti da tutti gli occupanti nonostante le iniziali incomprensioni e le differenze che allora sembravano esorbitanti.

E qui si chiude il cerchio, la storia del Virus è molto più nota, ma sconosciuta è sempre stata la sua origine. Abbiamo cercato di colmare un piccolo vuoto di memoria resistente, puntando la luce su una pianta infestante che abbelliva il cortile di via Correggio 18.

Il glicine come un’idra. Se tagli una testa, dal moncherino ne spuntano altre due.

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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