L’audiodramma di Sergio Ferrentino “L’igiene dell’assassino” ripropone i dilemmi del romanzo di Amèlie Nothomb: nei rapporti tra lettori e scrittori, tra vita e scrittura, tra corpo e mente.
Ancora un grande audiodramma di Sergio Ferrentino, questa volta tratto dal primo romanzo di Amèlie Nothomb, L’igiene dell’assassino. L’anteprima del 17 novembre, nel bellissimo spazio della Fonderia Mercury e nell’ambito di Bookcity, non ha fatto che confermare la vitalità e il fascino di questo speciale genere di messa in scena di un testo: una rappresentazione in cui gli aspetti visivi sono ridotti all’essenziale mentre tutta la suggestione è affidata ai suoni, ai rumori, alle voci che attraverso il microfono binaurale avvolgono da ogni parte lo spettatore, scavalcando in modo sorprendente la separazione tra la sala e il palcoscenico. Riproducendo dinnanzi al pubblico quel che avverrebbe in uno studio radiofonico, l’audiodramma restituisce al testo, alla parola e alla voce dei protagonisti, un’assoluta centralità, permettendo nel contempo la percezione dell’azione scenica, del movimento, dei gesti, attraverso la loro immagine sonora.
Tutta la suggestione è affidata ai suoni, ai rumori, alle voci che attraverso il microfono binaurale avvolgono da ogni parte lo spettatore, scavalcando in modo sorprendente la separazione tra sala e palcoscenico
Il testo della Nothomb si presta in modo perfetto a questo genere di rappresentazione, dal momento che è un dramma che si svolge tutto attraverso i dialoghi, affilati e paradossali, tra i protagonisti: uno scrittore di enorme successo, un mostro sacro riverito dalla critica tanto da aver ottenuto il premio Nobel, e che, prossimo alla morte per una rara malattia, si concede finalmente, seppur con ostentata riluttanza, alle interviste dei giornalisti che ha sempre evitato, e quattro rappresentanti della categoria. Dopo i loro tentativi di intervista, i primi quattro malcapitati, che il gran genio tratta con disprezzo, non risparmiando loro nessuna crudeltà verbale, commentano l’insuccesso dei colleghi rinfacciando loro una inadeguatezza alla quale si illudono di essere superiori, mentre l'ultima intervista spiazzerà tutti in un crescendo di colpi di scena che porteranno il dramma alla sua conclusione. Un romanzo estremamente teatrale, in cui la diegesi narrativa é ridotta al minimo, e che la riduzione di Sergio Ferrentino restituisce perfettamente nei suoi passaggi fondamentali, mettendone in evidenza senza alcuna sbavatura la tematica centrale, affascinante in sè, oltre che per la dialettica paradossale attraverso cui è svolta.
Sandro Penne e Sergio Ferrentino. Dalla pagina di Fonderia Mercury
Bravissimi tutti, e specialmente l’unica voce femminile, Cinzia Spanò. Straordinaria, poi, la suggestione indotta dalla voce scelta per il protagonista: seduto di spalle, non vediamo mai il volto e il corpo del grande Prétextat Tatch, che pure ne autodenuncia continuamente la deforme obesità e bruttezza, ma la voce con la quale esprime tutta la sua estrema misantropia, tutte le contraddizioni sostenute con implacabile dialettica, tutta la sofferenza e il piacere solipsistico, è quella straordinaria di Sandro Penne, che in questa veste non poteva non ricordare, tra i tanti attori da lui doppiati, quella del grande Anthony Hopkins. E in particolare, direi, quella del più “mostruoso” tra i suoi personaggi, quell’Hannibal Lecter che, ne Il Silenzio degli innocenti, divora i propri simili. Il cinico e crudele Tatch ha un’opinione infima di tutto il genere umano, e soprattutto del genere femminile, di cui detesta la corporeità e soprattutto la capacità riproduttiva, e pratica anch'egli una, seppur diversa, perversione alimentare, una bulimia che lo spinge a riempire quasi tutto il suo tempo e tutto il suo corpo di dosi rivoltanti di zuccheri e grassi animali. Anche dei suoi romanzi, l’autore dice che “rigurgitavano di schifezze”, e attribuisce il successo delle sue prime opere al masochismo dei primi lettori che espiavano in quello specchio il senso di colpa collettivo del dopoguerra. Metafora della scrittura, dunque, l’alimentazione? Già Tomasi di Lampedusa parlava di “scrittura grassa”, quella che lui preferiva, e la Nothomb parla anche della lettura in termini alimentari , accennando a una “lettura carnivora” o “vegetariana”; il suo protagonista, poi, afferma che si dovrebbe leggere come si mangia: non solo per necessità, ma lasciandosi trasformare dalla lettura come si viene trasformati dal cibo.
si dovrebbe leggere come si mangia: non solo per necessità, ma lasciandosi trasformare dalla lettura come si viene trasformati dal cibo.
E tuttavia, ostenta disprezzo per le interpretazioni metaforiche, anzi contesta la stessa utilità del termine, per lui troppo generico, di metafora. Della critica, e dei lettori non sa che farsene: il segno del successo, per lui, è vendere senza essere letto. D’altronde, certi giornalisti pretendono di parlare degli scrittori senza averli letti, avanzando interpretazioni e chiedendo spiegazioni sulla loro opera; e Tatch obietta loro: “Perchè dovrei dare spiegazioni che gli stupidi non comprenderebbero e di cui le menti più fini non avrebbero voglia?”. Così, le interviste finiscono per dirottare verso le curiosità biografiche, anche le più indiscrete: delle quali il mostro sacro approfitta per scandalizzare e respingere, ma attorno alle quali, quando provengano dalla eccezione di una lettura appprofondita dell’intera, vasta opera dello scrittore, si sviluppa, nella seconda parte del dramma, un intenso ed estremo dibattito sul rapporto tra opera e biografia e tra vita e letteratura. Nelle prime tre interviste “il grassone”, come finiscono per chiamarlo le sue vittime, domina il campo con l’ingombrante tema della propria fisicità e del rapporto tra questa e la scrittura: che è per lui autoerotismo, piacere solitario, in cui il corpo è coinvolto attraverso tutti gli organi di senso, in cui la parola deve passare sensualmente attraverso le labbra o rimanere esclusa da esse, perchè ci sono cose che non vanno dette.
Foto di Sandro Bove. Dalla pagina Facebook di Fonderia Mercury
Ed è proprio sul non detto, sul non raccontato, che si sviluppa l’intervista-indagine conclusiva: solo una delle tanto disprezzate rappresentanti del sesso femminile saprà intuire il segreto di quel non detto, incidendo con affilata determinazione sulla biografia dell’autore. Nel sottoporlo alla tortura, la Nothomb ci svela, questa volta indirettamente, anche una parte della sua autobiografia personale e letteraria insieme alla sua concezione della scrittura come passione esclusiva: “Scrivere non è vivere?” chiedeva a Tach uno dei primi giornalisti. La risposta era “Non sono in grado di rispondere a questa domanda. Non ho mai conosciuto altro.” Una passione che divora la vita. O forse, che nasce da una vita divorata dal bisogno di bellezza. E che nella insanabile nostalgia di questa si rovescia nel suo contrario. Ci parla soprattutto del conflitto tra il bisogno di rendere eterna la bellezza, e la vita stessa che la deturpa e la mescola alla bruttezza, ma pretende di continuare ed evolvere. Lo scioglimento del dramma non corrisponderà allo scioglimento dei dilemmi: se lo scrittore è un mostro rispetto a chi si limita a viverla, la vita, o se mostruosa è la pretesa del lettore di comprenderlo a fondo, se il lettore può essergli grato o maledirlo, se la scrittura rappresenti un bene od un pericolo. “La scrittura fa un gran casino a tutti i livelli: pensi agli alberi che si sono dovuti abbattere per la carta, ai magazzini che si son dovuti abbattere per la carta, che costeranno agli eventuali lettori, alla noia che quei disgraziati proveranno a leggerli, alla cattiva coscienza dei miserabili che li compreranno e non avranno il coraggio di leggerli, alla tristezza di quegli adorabili imbecilli che li leggeranno senza capirli, e infine soprattutto alla fatuità delle conversazioni che seguiranno alla loro lettura o non-lettura”. Ecco, per quanto paradossali, alcune di queste argomentazioni trovano nell’attuale pletora del mercato editoriale qualche ragione di consenso. E tuttavia, sapere che uno scrittore ammirato possa nutrire tanto disprezzo per chi stampa o per chi legge i libri, non può fare molto piacere...
Quando l’industria editoriale fa del mondo letterario uno star system, può accadere che la notorietà, il successo di vendite e perfino i riconoscimenti più prestigiosi non corrispondano affatto alla reale conoscenza e ai reali meriti di un autore
Spettacolo e romanzo mi hanno immediatamente riportato, per contrasto, all’ingenuo entusiasmo del giovane Holden per l’incontro con gli scrittori: ricordate? “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” Ahimè, le cose sono molto più complicate per Amélie Nothomb! E spesso non possiamo che trovarci d’accordo con lei. Quando l’industria editoriale fa del mondo letterario uno star system, può accadere che la risonanza, la notorietà, il successo di vendite e perfino i riconoscimenti più prestigiosi non corrispondano affatto alla reale conoscenza e ai reali meriti di un autore. E che incontrarlo personalmente sia talvolta per il lettore una iattura, un distruttivo rovesciamento del punto di vista. Il dubbio si insinua e si estende a tutto il processo creativo e ai criteri di giudizio sulla qualità di un’opera letteraria contemporanea. Diventare un classico, essere consacrato dalla durata nel tempo dell’apprezzamento accademico possono talora anche il frutto di una biografia scandalosa. O almeno, questo pare insinuare a conclusione “L’igiene dell’assassino”.