In Stasera sono in vena il lato oscuro e dimenticato degli anni Ottanta. La provincia tossica, la grande musica, l'arrivo della Sacra Corona Unita. L'asterisco di Vorrei per il grande lavoro di Oscar De Summa
Non si esce vivi dagli anni Ottanta. Lo ha scritto e cantato Manuel Agnelli nel 1999 per una delle canzoni di Non è per sempre, sesto album degli Afterhours, il terzo in italiano. In quelle poche frasi — vado a memoria, ma credo che in quel periodo Agnelli usasse la tecnica del cut-up — viene fuori quella contrapposizione che tutti noi che quel decennio l’abbiamo vissuto da “giovani” conosciamo bene: «cos'è che non mi piace / in questo baraccone? / sarà che dentro è triste / e starne fuori è una prigione». Erano anni in cui il muro più alto non era a Berlino, ma davanti a ciascuno di noi. Semplificando vergognosamente: da una parte c’erano i lustrini, le spalline esagerate, gli Wham, i litri di gommina sui capelli (i paninari insomma, quelli che adesso governano l’Italia), dall’altra c’era il tormento, la New wave, i punk e quel che rimaneva dell’impegno degli anni Settanta.
Su quegli anni esiste una vasta letteratura. Tanta, troppa roba nostalgica e qualche rara eccezione lucida, come ‘80, l’inizio della barbarie di Paolo Morando. Se ne sono raccontati gli aspetti di costume, quelli musicali e culturali (fantastici quelli in presa diretta di Pier Vittorio Tondelli), quelli politici e quelli calcistici anche. Una zona però è rimasta nell’ombra della memoria. Quella di chi, nella provincia meno glamour e patinata, si è ritrovato nei favolosi anni Ottanta fianco a fianco, dentro e, soprattutto, sotto l’eroina. Non è solo una questione di sanità, non lo è mai stata. Così come non può bastare Amore tossico di Claudio Caligari a raccontarla, anche perché Roma non era la provincia.
Tavola tratta da Perché Pippo sembra uno sballato di Andrea Pazienza
Nel modo trasognato che appartiene al teatro, ci prova in questi ultimi anni Oscar De Summa. Autore, regista e attore di Stasera sono in vena. Lavoro del 2015, arrivato nelle scorse settimane al Binario 7 di Monza. Un gioiello di 70 minuti, durante i quali precipitiamo negli anni Ottanta dell’entroterra pugliese, fra Brindisi e Lecce, quando il Salento non era la meta turistica di pizzicati e briatori di tutta Italia che è oggi. Una colonna sonora stellare (Pink Floyd, Doors, Iggy Pop…), una estensione di tono capace di andare dall’umorismo surreale di Andrea Pazienza al lirismo dark di Nick Cave, insieme alla grande capacità immaginifica di De Summa che pur da solo, accovacciato sulla cassa amplificata, pesta il piede sulla pedaliera degli effetti distorsori e dà corpo e voce a un gruppo di ragazzi affacciati sul baratro. Alle loro spalle il nulla di una terra ruvida, davanti quello della tossicodipendenza. E in alto incombe l’arrivo della Sacra Corona Unita, la mafia salentina che proprio in quegli anni conquistò una terra ancora vergine.
Come in tutti i lavori seri e importanti, i piani di lettura di Stasera sono in vena sono molti e assai diversi. C’è quello autobiografico che De Summa non nasconde. C’è quello culturale su cui scopriamo che non siamo né nella terra del rimorso di De Martino, né in quella della taranta un tanto al quintale e de lu sole lu mare lu ientu di oggi. C’è quello socio-politico che ci ricorda come le esperienze collettive siano sprofondate nelle tragedie (o farse) personali. E c’è quello criminale, quello delle vagonate di eroina immesse nel mercato delle sostanze al posto dell’erba e dell’hascish.
È questo il passaggio chiave di tutto il lavoro probabilmente e De Summa lo sottolinea spesso nelle sue interviste: dalle sostanze ricreative che favoriscono, o accompagnano, la socialità, si passa alle sostanze che individualizzano, isolano, rendono soli e ammalati di solitudine.
È l’altra faccia del rampantismo? Probabilmente. Se da una parte ci si arrampicava a dispetto di tutto e di tutti per avere “successo”, negli anni Ottanta c’era anche chi precipitava nella dipendenza, nel buco. Ugualmente bugiardi, egoisti, carogne.
La forza di Stasera sono in vena, il motivo per cui vogliamo assegnargli l’asterisco di Vorrei è la sua grande capacità di tenere insieme tutto questo senza risultare pedante o, all’opposto, cazzaro. È uno spettacolo. Divertente, coinvolgente, ti prende e ti porta in alto ridendo (molto) e poi ti lascia cadere, con profondo dolore.
La musica. È un elemento fondamentale di questo lavoro. Quanto è importante avere una musica popolare che non è solo intrattenimento? Che sia testimone e interprete dei sentimenti più profondi. Ecco che torniamo al muro. Allora come oggi: da una parte la musica di consumo, dall’altra quella di senso. Il grande classico (che non vuol dire antico, ma capace di essere attuale oltre il proprio tempo) usciva un mese prima degli anni Ottanta. Il monumentale The Wall dei Pink Floyd fu pubblicato il 30 novembre del 1979 (il film di Alan Parker nel 1983). Lì dentro c’era tutto.
Pink Floyd Hey You
Hey you, out there in the cold
Getting lonely, getting old
Can you feel me?
Hey you, standing in the aisles
With itchy feet and fading smiles
Can you feel me?
Hey you, don't help them to bury the light
Don't give in without a fight
Hey you out there on your own
Sitting naked by the phone
Would you touch me?
Hey you with you ear against the wall
Waiting for someone to call out
Would you touch me?
Hey you, would you help me to carry the stone?
Open your heart, I'm coming home
But it was only fantasy
The wall was too high
As you can see
No matter how he tried
He could not break free
And the worms ate into his brain
Hey you, out there on the road
Always doing what you're told
Can you help me?
Hey you, out there beyond the wall
Breaking bottles in the hall
Can you help me?
Hey you, don't tell me there's no hope at all
Together we stand, divided we fall
Compositori: Roger Waters - © Warner/Chappell Music, Inc
La foto di di scena sono tratte da www.oscardesumma.it