20171027 laurito

 La mostra di Marisa Laurito nel Serrone di Monza conferma la mancanza di una visione unitaria della proposta espositiva della Reggia. Per quanto ancora ci saranno improvvisazione e impreparazione?

Nelle scorse settimane il chiacchiericcio social monzese per alcune ore ha avuto per protagonista una mostra. Si chiama “Transavantgarbage. Terre dei Fuochi e di Nessuno” e proprio mentre scriviamo queste righe chiude i battenti. Per tutto il mese di ottobre il Serrone della Villa reale di Monza ha accolto grandi fotografie scattate dalla signora Marisa Laurito, nota come donna di spettacolo, in particolar modo televisivo: «Un'anteprima nazionale, una mostra di forte denuncia sociale contro un sistema dove, in nome del profitto a tutti i costi, si producono rifiuti, inquinamento e morte. L'esposizione (così recita il comunicato stampa diffuso dagli organizzatori) si snoda in venti scatti fotografici e installazioni che hanno lo scopo di divulgare il problema, scuotere le coscienze mostrando un'Italia logorata e sormontata da ogni genere di rifiuto nucleare, industriale e chimico.» Intenzioni evidentemente lodevoli, la denuncia attraverso l’arte e l’impegno civile contro l’inquinamento non possono che trovare il plauso di una rivista come la nostra, che proprio all’ambiente e alla cultura dedica le sue attenzioni. Per chi non ha avuto modo di visitare l’orangerie della Reggia abbiamo pensato di riproporre alcuni degli scatti. Di nostro possiamo dire che ci ha sorpreso positivamente, perché eravamo decisamente prevenuti e per più motivi: non ci ha mai particolarmente interessato il lavoro televisivo della signora Laurito, non ci convincono coloro che si improvvisano con strumenti e linguaggi (in questo caso quelli fotografici) e non abbiamo compreso la contestualizzazione dell’operazione. Eppure il kitsch (volontario o meno, non lo sapremo mai davvero) di quei grandi pannelli lucidissimi e coloratissimi, di quei fotomontaggi clamorosamente finti, l’eclatante didascalismo così prossimo alla banalità di quelle inquadrature hanno qualcosa di convincente. Forse è il grande balzo, la grande distanza dalle foto di denuncia a cui siamo generalmente abituati, lì dove di solito si ricorre al bianco e nero drammatico, a inquadrature rigorose, al pathos più commovente, la signora Laurito ha infilato colori sgargianti e accostamenti spiazzanti. Lasciando ai filmati il tono più serio e prevedibile della “denuncia”. Sarà riuscita nel suo intento di scuotere le coscienze? Dubitiamo fortemente, non sappiamo quante coscienze abbiano attraversato il Serrone in questo mese e di sicuro non sapremo mai quante ne siano uscite scosse, ma sappiamo che questa è l’epoca della superficialità e niente e nessuno si scuote per più di 15 minuti, figuriamoci con una mostra bizzarra come questa. Perché bizzarra? Lo dicevamo prima, perché frutto del lavoro di chi abitualmente (e notoriamente) fa altro e quel retroterra della signora Laurito non è un aspetto secondario. Se fin dal manifesto si è voluto giocare sul richiamo del personaggio utilizzando un suo ritratto, è evidente che si sarebbero fatto i conti con la sua lunga storia di intrattenimento televisivo. La decontestualizzazione in arte è espediente e prassi consolidata ormai da secoli, quella dell’autore meno, sempre se escludiamo chi si improvvisa velleitariamente. Qui, insomma, non è il soggetto ad essere decontestualizzato (ricordate la fontana di Duchamp?), ma l’autrice che dal fare le smorfiette dal rettangolo televisivo passa addirittura alla denuncia sociale in uno spazio destinato alle arti visive.

 

 

Una decontestualizzazione che, come dicevamo all’inizio, ha acceso fuocherelli di polemiche nel villaggio social monzese. Si sono addirittura create vere e proprie fazioni, pro e contro la mostra. A favore chi ha comunque apprezzato il lavoro proposto o il fatto che fosse a costo zero (non è un mistero la parsimonia brianzola…) e contro chi ha lamentato lo scadimento del livello della proposta in Villa Reale (da Steve McCurry e Henry Cartier Bresson alla Laurito!...), con l’aggiunta di una colorazione politica delle fazioni che ha portato molti a schierarsi a “prescindere”. Abbiamo letto qualcosa di queste schermaglie social e fra uno sbadiglio e l’altro ci è scappato pure il sorriso quando abbiamo letto chi è arrivato a sostenere che Cartier Bresson deve ringraziare di essere nato ricco e di aver potuto permettersi la Leica, altrimenti non sarebbe stato nessuno…

Polemichette a parte, di riflessioni serie ci sarebbe davvero bisogno. Non tanto sulla mostra della signora Laurito - a cui auguriamo una splendida carriera di fotografa e di scuotere milioni di coscienze sulla questione inquinamento - quanto sulle sorti del complesso Reggia di Monza come sede di mostre. Nei tre anni trascorsi dalla sua riapertura, a prescindere dall’area interessata (Serrone o Villa, piano nobile o corridoio...) abbiamo dovuto assistere a troppa improvvisazione, con sbalzi di tematiche, di qualità, di linguaggi che di certo non hanno contribuito a rafforzare l’immagine della Reggia di Monza come meta di mostre di un determinato tipo e livello. Ne abbiamo parlato già in passato, la frammentazione della gestione fra Consorzio, concessionari e sub-concessionari non aiuta il coordinamento delle iniziative, se a questo aggiungiamo che ad oggi non esiste una direzione scientifica (cioé competente in materia di mostre), ci sorprenderemmo del contrario della situazione attuale, cioé se esistesse un calendario coerente e riconoscibile.

Sappiamo tutti che, salvo eccezioni, arte e mostre non sono al centro delle attenzioni della politica e delle imprese (a meno che non ci sia da “valorizzare” e guadagnarci qualcosa), ma se vogliamo fare ragionamenti costruttivi dovremmo guardare in faccia la realtà e dire che ad oggi quella della Reggia è un’esperienza riuscita a metà. Il fatto che i partner di partenza della concessionaria Nuova Villa Reale (Civita e Vision Plus) hanno levato le tende qualcosa vorrà dire. Il fatto che dalle grandi mostre del primo anno siamo passati a quelle “di giro”, ovvero già viste altrove, qualcos’altro significherà.

Per esperienza, dubitiamo che qualcosa a breve possa mutare. L’improvvisazione e l’impreparazione delle parti in causa non aiutano, ma siamo qui ad aspettare di essere contraddetti. Noi vogliamo solo il bene della Villa Reale.

Nel frattempo, se proprio non siamo soddisfatti delle mostre in corso fra il kitsch della signora Laurito e quella specie di fiera della fotografia della Sony, possiamo sempre fare pochi chilometri e andare a visitare quel che resta del Mufoco in Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo. Lì, negli orari ridottissimi adottati da quando il grosso delle mostre è stato spostato in Triennale a Milano, sono visibili alcune serie della collezione permanente dell’immenso archivio fotografico custodito. Fra queste ci piace segnalare una, straordinaria e straziante. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Mario Giacomelli. Una piccola selezione tratta dalla ricerca svolta dal 1955 al 1983 negli ospizi dal grande fotografo di Senigaglia. Sì, sono di quelle foto in bianco e nero, drammatiche fino alle lacrime. Scatti della fragilità umana, quella lacerante e lacerata degli anziani consumati. Sono foto vecchie anche di sessant’anni, non sono lucide e scintillanti come quelle della signora Laurito, chissà se il chiacchiericcio social del villaggio troverà il tempo di occuparsene.

 

12. mario giacomelli verra la morte e avra i tuoi occhi 1966 1968 courtesy archivio mario giacomelli senigallia 0

 

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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