Dossier razzismo. Chicago. Estate 2016. Art Institute e Millennium Park. In scena, nei due luoghi collegati dalla lunga passerella in acciaio bianco di Renzo Piano, un pezzo di storia americana. All'interno, sulle pareti e nelle bacheche del museo, le fotografie e gli scritti di Invisible Man: Gordon Parks e Ralph Ellison in Harlem e i dipinti di America after the Fall: Paintings in the 1930s. All'esterno, tra le mani dei Black Lives Matter, cartelli e striscioni. Tema comune l'interminabile discriminazione razziale
Nell’estate 2016 mi trovavo a Chicago nel periodo in cui nell’ala moderna dell’Art Institute progettata da Renzo Piano erano in corso due bellissime mostre intitolate Invisible Man: Gordon Parks e Ralph Ellison in Harlem e America after the Fall : Paintings in the 1930s, per diversi aspetti in relazione tra loro e con la realtà contemporanea.
Dalla modern wing dell'Art Institute di Chicago una veduta della passerella che porta al Millennium Park e di alcuni grattacieli della città.
Nella prima mostra l’Art Institute di Chicago, in collaborazione con la Gordon Parks Foundation e con la Library of Congress di Washington (che conserva i Ralph Ellison Archives), ricostruiva attraverso un meticoloso ed inedito lavoro due importanti dossier letterario-fotografici, Harlem is Nowhere (1948) e A Man Becomes Invisible (1952), mai pubblicati nel modo in cui erano stati concepiti e realizzati dai loro autori Ralph Ellison e Gordon Parks.
Tra gli artisti più eclettici ed incisivi del secolo scorso, Ralph Ellison (1914-1994) e Gordon Parks (1912-2006) vissero la prima parte della loro vita tra miseria e discriminazione. Sfruttando i numerosi talenti di cui erano dotati riuscirono a fuggire da quelle realtà attraverso i più diversi lavori ed esperienze, approdando entrambi, Ellison come scrittore e Parks come fotografo, al Work Progress Administration (WPA), l’ampio programma federale istituito da F.D. Roosevelt negli anni della Grande Depressione per creare posti di lavoro nel paese afflitto dalla disoccupazione.
Tra le varie sezioni in cui il WAP era suddiviso c’erano infatti anche quelle artistiche, volte sia ad incentivare arte e cultura, sia a documentare le condizioni di vita della popolazione dell’Unione, sia a decorare gli edifici pubblici con grandi opere murali che celebrassero l’America.
Come Parks ed Ellison diversi dei trentacinque artisti scelti per rappresentare "l'americanità" pittorica degli anni '30 in America after the Fall lavorarono per il WPA. Tra di loro i tre afroamericani Aaron Douglas, William H. Johnson e Archibald Motley, che furono anche figure di spicco del movimento culturale nero conosciuto come Harlem Reinassance, avendo avuto il suo fulcro in quel quartiere di New York nei primi due decenni del '900.
"Fuggiti dal feudalesimo del sud in cerca di rifugio, molti Negri vagano a vuoto nei labirinti dei ghetti del nord, persone senza identità della democrazia americana."
Ralph Ellison
Fu ad Harlem che Ellison e Parks si conobbero più o meno verso l'inizio degli anni '40, quando Harlem era ormai in condizioni di degrado.
Come altri intellettuali ed attivisti afroamericani, anche loro erano vi si erano trasferiti intenzionati a far rivivere quell’Harlem Reinassance, che aveva fatto di Harlem il polo di attrazione per scrittori, poeti, musicisti, cantanti, attori, pittori, insomma per un gran numero di personaggi appartenenti al più poliedrico mondo artistico.
Il movimento si era sviluppato come conseguenza della Grande Migrazione Nera quando l'esodo di massa di ex-schiavi dagli stati del sud aveva popolato ed ingrandito le città del nord, creando una nuova topografia razzialmente divisa.
La miseria, il terrore scatenato dal Ku Klux Klan e le leggi segregazioniste, varate dopo il ritiro delle truppe federali al termine della Ricostruzione post Guerra Civile, furono le principali cause che spinsero tanti afroamericani verso territori dove si illudevano di trovare libertà ed uguaglianza, ma dove al contrario trovarono solo altra povertà e altro razzismo. Decisi ad usare la loro arte non solo per la propria realizzazione personale, gli artisti del Rinascimento di Harlem si battevano per i diritti e la libertà della loro gente e per sfatare gli stereotipi imperanti sulla razza nera. L’uomo di colore veniva infatti sempre rappresentato o come il bonario ed allegro servitore dei bianchi, inconsapevole della propria condizione e quindi stupido, o come il violento per natura.
L'immenso successo di The Birth of a Nation (1915) di David W. Griffith, inizialmente uscito con il titolo The Clansman come il romanzo di Thomas Dixon da cui era tratto, contribuì ulteriormente a diffondere lo stereotipo del nero aggressivo e barbarico, contemporaneamente portando ad un ritorno prepotente del Ku Klux Klan.
Rappresentando la vita afroamericana in tutti i suoi aspetti negativi o positivi che fossero, inclusi comportamenti, emozioni e sentimenti legati alla quotidianità, il mondo descritto dagli artisti dell'Harlem Reinassance contrastava con il prevalente immaginario che ne avevano i bianchi.
Street Life, Harlem (1939), l'opera di William Johnson in America after the Fall , ritrae un uomo e una donna vestiti in modo elegante forse al loro primo appuntamento. Una scena di assoluta normalità, come parecchie delle foto di Gordon Parks scattate ad Harlem, alcune delle quali inserite nei progetti con Ralph Ellison.
Street Life Harlem (1939) di William Johson e tre fotografie di Gordon Parks per Harlem is Nowhere (1948)
Ellison, Parks e Johnson tra l’altro vissero in prima persona lo storico Harlem Riot del 1943, due giorni di scontri che ebbero come conseguenza 7 morti e più di 700 feriti. Ellison non solo ne scrisse sul New York Post, ma fece della sanguinosa e delirante notte di incendi, saccheggi, urla e sparatorie, la scena degli ultimi capitoli del suo Invisible Man. Nel corso delle ricerche per la mostra dell’art Institute di Chicago tra gli Ellison Archives alla Library of Congress di Washington sono stati trovati dei provini di Parks che si riferiscono al secondo giorno di quei tumulti dei primi due giorni di agosto, tumulti che contribuirono ulteriormente a dare di Harlem la fama di un inferno di delinquenza. William Johnson, immortalò la sua personale visione di quegli scontri nel dipinto Harlem Riot.
Provini di stampa di quattro scatti di Gordon Parks del 2 agosto 1943, il secondo giorno dell'Harlem Riot.
"Sovraffollata e sfruttata politicamente ed economicamente, Harlem è la scena e il simbolo della perpetua alienazione del Negro nella terra della sua nascita.”
Ralph Ellison
Negli anni della Grande Depressione la vitalità data ad Harlem dal movimento del Rinascimento culturale si spense e il quartiere subì progressivamente un tale degrado che negli anni '40 era considerato il simbolo nazionale della devastazione sociale ed economica e della criminalità.
Come molti altri artisti tra cui Richard Wright anche Ralph Ellison e Gordon Parks si trasferirono ad Harlem, per contribuire con il loro attivismo e con le loro capacità artistiche al riscatto di quel quartiere nel quale vedevano il simbolo della condizione della popolazione afroamericana.
Fu in questa prospettiva che Ellison e Parks collaborarono prima per Harlem is Nowhere, incentrato sulla prima istituzione psichiatrica non segregata nazionale, la Lafargue Clinic fondata nel 1946, e successivamente per A man becomes invisible.
Eseguiti rispettivamente per The Magazine of the Year nel 1948 e per Life nel 1952, entrambi i dossier subirono però sorti avverse che li snaturarono.
L’improvvisa bancarotta della prima rivista, con le conseguenti battaglie legali durante le quali diversi documenti andarono perduti, impedì la pubblicazione di Harlem is nowhere. Quando esso apparve sotto forma di saggio e senza le foto di Parks nel 1964 in una raccolta di scritti di Ellison, della sua essenza era rimasto ben poco.
Destino più o meno analogo toccò anche a A Man Becomes Invisibile, mutilato enormemente proprio da Life che lo aveva commissionato in seguito al successo internazionale di Invisible Man, il romanzo di Ralph Ellison uscito nel 1952. La rivista ridusse infatti a quattro foto di Parks, accompagnate da brevi note di redazione, il lavoro ricco e complesso in cui i due autori alternavano gli scatti sui set appositamente allestiti per illustrare particolari situazioni del romanzo ad altri catturati liberamente per le strade di Harlem.
Le tre pagine di Life del 25 agosto 1952, con la contrastante pubblicità del film Ivanhoe con Robert Taylor ed Elizabeth Taylor accostata alla pagina di apertura, erano dunque tutto quanto restava di una collaborazione dall’alto valore storico e sociale, oltre che artistico, tesa a mostrare la realtà e la valenza simbolica di Harlem e la necessità di fornire agli afroamericani quelle cure per il disagio psicologico che nessuna istituzione dava loro.
La mostra dell’Art Institute di Chicago, integralmente documentata nel bel catalogo, non solo rende ragione al lavoro condotto quasi simbioticamente dai due artisti, ma getta anche una nuova luce sulle ripercussioni che l’elaborazione concettuale e pratica di quei progetti, soprattutto di Harlem is Nowhere, ha avuto sulle loro successive produzioni.
Al contempo essa dimostra come nella nostra era, in teoria post-razziale, le realtà di quegli anni antecedenti le sanguinose lotte del Movimento per i Diritti Civili siano più che mai attuali.
Un paio di giorni dopo aver visto le due esposizioni, il caso ha voluto che i Black Lives Matter di Chicago tenessero una manifestazione al Millenium Park attiguo al museo.
"Non abbiamo altro da perdere se non le nostre catene"
un cartello dei BLM
Vi ho partecipato con la mia macchina fotografica, sebbene in un particolare momento abbia sentito il bisogno di deporla e di unirmi a quella folla etnicamente eterogenea con il pugno alzato, raccolta per diversi minuti in un rabbrividente silenzio assoluto. Inevitabile comunque il confronto tra quelle persone, fornite di moderni telefonini ma anche di intramontabili cartelli, e le persone immortalate, non meno di 65 anni prima, nelle foto e nei dipinti appesi nell’edificio a pochi metri di distanza.
Gordon Parks , 1948
Ralph Ellison, 1948
La divisione razziale nei dipinti di America after the Fall: Paintings in the 1930s
L' American Gothic, bianco, di Grant Wood e l'American Gothic, nero, di Gordon Parks sottolineano come anche dopo la fine della schiavitù il lavoro dei neri sia sempre andato ad esclusivo beneficio dei bianchi.
Prima di esaminare Harlem is Nowhere, uno sguardo ad America after the Fall: Paintings in the 1930s (che ha da poco concluso un tour a Parigi e a Londra), perlomeno limitatamente a quegli aspetti che collegano alcuni dei suoi dipinti alle tematche razziali di Parks ed Ellison.
La mostra offre una saliente panoramica della pittura statunitense tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’40 attraverso una cinquantina di capolavori di trentacinque pittori. La scelta effettuata testimonia l’eclettismo di quel periodo mostrando come i vari artisti, contemporanei di Gordon Parks e Ralph Ellison seppur con ovvie differenze anagrafiche, stessero in quegli anni incerti cercando o consolidando il proprio stile all’interno di una gamma che andava dal modernismo al surrealismo, dal realismo all’astrattismo, passando per quel regionalismo folk che alcuni di loro seppero interpretare in modi personalissimi grazie agli influssi e alle mescolanze di vari stili.
Comune denominatore degli artisti esposti, tra i quali Grant Wood, Edward Hopper, Thomas Hart Benton, Charles Sheeler, Georgia O’Keeffe, Stuart Davis, Jackson Pollock, era il desiderio di catturare il carattere americano sia attraverso spaccati di costume, sia traducendo forti sensazioni in immagini astratte, sia dando corpo ad istanze sociali, politiche, economiche e razziali.
Oltre alla presenza di tre pittori del movimento della Harlem Reinassance, uno dei punti di contatto tra le due mostre riguarda l'opera scelta per la locandina di quella pittorica, il celeberrimo American Gothic (1930) di Grant Wood, e la foto American Gothic (1942) di Gordon Parks che, pur non essendo esposta in quella particolare occasione, è una delle sue immagini più famose.
American Gothic (1930) di Grant Wood
American Gothic (1942) di Gordon Parks
Gordon Parks soleva dire di usare la macchina fotografica come un’arma. E la potenza di un proiettile ha in effetti la sua personale versione del dipinto di Wood, che ritrae una donna afroamericana senza il cammeo e il forcone dei protagonisti del quadro, ma con scopa e spazzolone. Sullo sfondo, invece della bella casa di campagna con la finestra gotica, meritato frutto del lavoro dei due contadini, Parks provocatoriamente mette la bandiera degli Stati Uniti.
Se il dipinto è rappresentativo di quell’America bianca, rurale e religiosa che ha sempre orgogliosamente e indefessamente lavorato per il benessere della propria famiglia, la foto sottolinea come il lavoro dei neri non sia mai andato a proprio beneficio, ma esclusivamente a beneficio dei bianchi, anche dopo la presunta fine della schiavitù proclamata dall'Emancipation Proclamation firmata da Abraham Lincoln il primo gennaio 1863 in piena Guerra Civile. Eppure sempre di cittadini americani si tratta.
"La schiavitù non è mai terminata"
un cartello dei BLM
Il riferimento alla schiavitù era presente anche tra i tanti cartelli alla manifestazione dei Black Lives Matter. Slavery never ended ne recitava uno. La schiavitù non è mai terminata.
Cotton Pickers (1945), uno dei tre dipinti di Thomas Hart Benton in mostra, quella situazione la illustrava bene a una settantina d'anni di distanza dall'abolizione della schiavitù.
Cotton Pickers (1945) di Thoams Hart Benton
Basato su una serie di schizzi che il pittore "regionalista" aveva realizzato nel 1928 durante un viaggio nel sud, dove aveva personalmente constatato le condizioni degli ex-schiavi, Cotton Pickers è ricco di dettagli che evidenziano la sofferenza e l’umanità di un gruppo di raccoglitori di cotone (ad esempio la magrezza dei personaggi che ne denota la fame, il telo tirato a protezione dello scheletrico bambino malato, la dolcezza con cui la donna offre da bere). Non più schiavi ma talmente poveri e sfruttati da non riuscire nemmeno a mettere insieme i soldi per affrontare la migrazione al nord, Benton li ritrae sia sulle tele, sia nei grandi murales che realizza per il WPA con la sua particolare tecnica a tempera.
Deciso a non ignorare gli emarginati, gli sfruttati e i dimenticati della Storia (tanto che nel 1940 esegue i disegni per la prima edizione illustrata di Furore di John Steinbeck), Benton inserisce nei suoi cicli sulla vita americana sia i nativi sia gli afroamericani, che venivano invece quasi sempre tralasciati a vantaggio di rappresentazioni edificanti dell’America bianca.
Roustabout (1934) di Joe Jones
Attento nella descrizione pittorica di ingiustizie e dicriminazioni di ogni tipo, molto impegnato politicamente in organizzazioni di sinistra e attivo nel WPA per la realizzazione di murales è Joe Jones, un altro artista bianco presente alla mostra con due dipinti entrambi a tematica razziale. Bellissimo per composizione e colore oltre che per efficacia, Roustabout (1934), studio preparatorio per un murale, è un altro esempio di come la schiavitù fosse ancora viva. Qui non siamo in una piantagione ma nella zona industriale di Saint Louis, Missouri, dove l'80% della popolazione nera era disoccupato e coloro che invece lavoravano erano sottoposti a condizioni simili a quelle degli schiavi. Per quanto in quel periodo anche per gli operai bianchi la situazione di sfruttamento fosse simile.
Ma forse l’analogia più scioccante tra le realtà di quel tempo e la contemporaneità si trova nell'altro dipinto di Joe Jones American Justice (1933), uno dei quadri di maggiore impatto di America after the Fall. Lungi dall'essere testimonianza di aberranti abitudini del passato come quelle rappresentate in The Birth of a Nation, quegli uomini incappucciati richiamano avvenimenti tornati alla ribalta americana, come ad esempio i cortei razzisti e i disordini di Charlottesville, Virginia, di quest'anno. Episodi che sono sono solo la punta dell’iceberg di una recrudescenza razzista di vaste proporzioni, che ogni giorno si riaffaccia alle cronache con qualche nuovo episodio.
American Justice (1933) di Joe Jones
Se le continue esternazioni presidenziali incoraggiano e legittimano il fatto che Ku Klux Klan e suprematisti bianchi di ogni tipo abbiano rialzato la testa senza tema di farsi vedere apertamente in giro a dimostrare il loro odio, il fenomeno è comunque precedente alla elezione di Trump, che sembra esserne più una conseguenza che una causa, come testimonia la nascita stessa dei Black Lives Matter nel 2013, quando della corsa di Trump ancora non si parlava. Lasciando da parte la convinzione di chi scrive che la sua vittoria vada imputata alle numerose colpe Partito Democratico, il fatto che l’attuale presidente abbia buttato giù come birilli i suoi numerosi contendenti repubblicani grazie a proclami razzisti acclamati a furor di popolo la dice lunga su mai sopito razzismo di molti americani.
Corteo del Ku Klux Klan a Charlottesville, Virginia, 2017
Tornando alla pittura degli anni '30, la netta separazione fisica della popolazione bianca e nera di quel periodo (ancora attualissima come ho personalmente sperimentato in diverse situazioni a volte non prive di imbarazzo) emerge implicitamente anche in alcuni dipinti il cui tema non è la discriminazione. Osservando gli spaccati di vita sociale in circostanze di svago o di festività, i numerosi personaggi che popolano le scene sono sempre o tutti bianchi o tutti neri.
Divertentissime da osservare nei dettagli carichi di ironia sono ad esempio le opere di Doris Lee, Paul Sample e Reginald Marsh, rispettivamente Thanksgiving (1935), Church Supper (1933) e Marathon Dance (1934). Unica scena nera dello stesso tenore è Saturday Night ( 1935) di Archibald Motley.
Thanksgiving (1935) di Doris Lee
Church Supper (1933) di Paul Sample
Marathon Dance (1934) di Philip Evergood
Saturday Night ( 1935) di Archibald Motley
Eccezioni all’esclusività bianca o nera sono due dipinti di Reginald Marsh, In Fourteenth Street (1934), dove tra l’agglomerato di persone se ne riescono a distinguere due o tre di colore, e Twenty Cent Movie (1936), in cui l'uomo più alto in primo piano è un afroamericano. Essendo la città New York, già allora crogiuolo di razze oltre che terra promessa di molti afroamericani in fuga, ciò che sorprende però è il fatto che la mescolanza sia così esigua.
In Fourteenth Street (1934) di Reginald Marsh
Twenty Cent Movie (1936) di Reginald Marsh
Il riferimento alla musica nera, protagonista di Saturday Night di Archibald Motley, è presente anche in Swing Music (Louis Armstrong) (1938) di Arthur Dove. Come dice il titolo, il dipinto è ispirato al grande jazzista che fu protagonista dell'Harlem Reinassance, e in un certo qual modo anche di Invisible Man, e la cui musica già negli anni 30 era ascoltata anche dai bianchi. Le multiformi macchie di colore rosso bianco e grigio, che nella parte alta della tela sembrano volersi spingere al di fuori di essa e che Dove dipinge con l’immediatezza di un’improvvisazione jazzistica, traducono le emozioni provocate dal ritmo sincopato, dal calore della voce bassa e roca e dai virtuosismi della tromba che Armstrong sapeva portare ad incredibili acuti.
Swing Music (Louis Armstrong) di Arthur Dove.
Ralph Ellison e il suo Uomo Invisibile
Ralph Ellison, che tra i suoi vari talenti ed attività annoverava anche quelli di musicista diplomato in conservatorio e fotografo, arrivò alla celebrità con Invisible Man , scritto tra il 1945 e il 1952 e per il quale Harlem is Nowhere fu di grande importanza. Vincitore dei due premi nazionali più importanti, il Pulitzer e il National Book Award, il romanzo fu un immediato successo internazionale, replicando il superamento delle distinzioni razziali letterarie già riuscito nel 1940 a Native Son di Richard Wright. Entrambi i romanzi sono tuttora inseriti nelle più autorevoli liste dei cento romanzi da leggere nel corso della vita.
"Io sono un uomo invisibile. (...) Quando gli altri si avvivcnano vedono solo quello che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, qualsiasi cosa insomma, tranne me. (...) L'invisibilità di cui parlo si verifica per la particolare disposizione degli occhi di coloro coi quali vengo a contatto. Dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali , attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà."
Ralph Ellison
Uomo Invisibile, prologo
Attraverso l'uso di una gran varietà di registri che vanno dal tragico al comico, dal realismo all'allegoria e al surrealimo, un giovane uomo afroamericano senza nome racconta la sua vita dal suo warm hole, il buco accogliente nel sottosuolo di New York dove si è rintanato a vivere.
Nel prologo, il protagonista ci illustra l'episodio che gli ha dato la definitiva consapevolezza della sua invisibilità di nero in una società di bianchi ciechi. Da lì la decisione di lasciare il suo appartamento per andare a vivere clandestinamete in una stanza inaccessibile a tutti, trovata per caso nello scantinato di un edificio abitato solo da bianchi.
L’energia necessaria per le 1369 lampadine che vi ha installato e per il giradischi, su cui suona a massimo volume What did I do to be so black and blue? di Louis Armstrong, la ruba alla compagnia elettrica Monopolated Light and Power. Veramente di giradischi ne vorrebbe avere cinque da far girare contemporaneamente con la stessa canzone per sentire anche fisicamente nel suo corpo le vibrazioni di quella musica che, ci dice nel prologo, spinge all’azione. Un'azione che troveremo nell'epilogo.
Nei venticinque capitoli che li separano si snoda la narrazione delle vicende della sua vita, caratterizzate al sud da un razzismo feroce e violento e a New York da un'indifferenza che nella sua disumanità è perfino più atroce della violenza.
Il punto di vista tuttavia non è quello dell’adulto disilluso che nel letargo del suo rifugio sotterraneo rifugge dall’azione, bensì quello del ragazzo e del giovane che quelle vicende ha vissuto con speranza ed ingenuità.
Il contrasto che si crea tra il candore di questo secondo io narrante e la brutalità di situazioni a volte drammaticamente realistiche a volte grottescamente surreali dà origine anche a diversi momenti di comicità, facendo contemporaneamente emergere l’amara concretezza delle umiliazioni subite dai neri nella loro stessa patria.
Due foto e un collage di Parks per illustrare scene del romanzo Invisible Man di Ellison in A Man Becomes Invisible per la rivista Life
"Ditemi che cosa ne è stato dei miei diritti, sono invisibile perché voi mi ignorate?" Michael Jackson
Gordon Parks, the Reinassance Man
"The Reinassance Man" Gordon Parks non solo fu uno dei fotografi più illustri del 900, ma fu anche scrittore, sceneggiatore, regista, musicista e pittore. Un artista a tutto tondo insomma che riuscì ad inserirsi in istituzioni fino ad allora di esclusivo dominio dei bianchi.
Nel dopoguerra ad esempio fu il primo fotografo afroamericano a lavorare in riviste quali Life e Vogue.
L'ingaggio a Life fu merito anzi delle eccezionali foto scattate per Harlem is Nowhere e consegnate con l’intero dossier a The Magazine of the Year poco prima del fallimento della rivista. Quelle foto, di diverse delle quali Parks aveva delle copie, gli diedero infatti il coraggio di presentarsi a Life e furono decisive per la sua assunzione. Alcune di esse vennero inserite in Harlem Gang Leaders, il suo primo servizio per la rivista in quello stesso 1948, che si apriva proprio con uno degli stupendi scatti realizzati per Harlem is Nowhere.
Nel 1969 grazie all’aiuto dell’amico John Cassavetes, Parks fu il primo afroamericano a dirigere un film in una major di Hollywood. Intitolato The Learning Tree (nella versione italiana Ragazzo la tua pelle scotta), il film prodotto dalla Warner Bros era tratto da un suo romanzo semiautobiografico del 1964. La locandina del film e la copertina del libro recitavano: "come ci si sente ad essere neri in un mondo di bianchi.”
Nel 1971 Parks firmò anche la regia del forse più celebre Shaft, la cui colonna sonora di Isaac Hayes fu a lungo anche nelle top list italiane di quegli anni. Il film, che spaccò la critica di colore, contribuì senza volerlo all’esplosione della blaxploitation, un filone commerciale prevalentemente violento con protagonisti di colore.
Harlem is Nowhere
“L’alto tasso di delinquenza e di collassi nervosi non deriva da un predisposizione biologica verso il crimine presente nei Negri, ma da una quasi totale mancanza di servizi che si prendano cura dei problemi degli individui di Harlem.”
Richard Wright
Negli anni 40, quando Ellison e Parks vivevano ad Harlem, gli stereotipi sulla razza nera avevano invaso sempre più la stampa mainstream. Quanto ad Harlem, il quartiere era ovunque presentato come un inferno di miseria, sporcizia e delinquenza, senza un nessun neppur vago tentativo di indagare gli aspetti psicologici dei suoi abitanti.
D’altro canto la stampa prodotta da quella borghesia nera che ormai si era formata e consolidata in alcune città preferiva concentrarsi sugli aspetti di rispettabilità che la riguardavano, ignorando sia le condizioni di discriminazione in cui viveva la stragrande maggioranza della popolazione afroamericana, sia quelle abitudini di vita che loro stessi preferivano considerare non edificanti, fornendo in questo modo una visione altrettanto distorta.
L’intento era dunque di correggere quelle distorsioni, dimostrando ad esempio come decenni di false rappresentazione degli afroamericani ne avessero compromesso la loro stessa autopercezione e danneggiato lo stato psicologico. Per Richard Wright, che nel 1945 replicò il successo di Native Son con Black Boy e la cui figura di attivista fu per Harlem importantissima, la relazione tra la mancanza di servizi sociali e le condizioni di degrado che portavano alla criminalità appariva sempre più evidente.
Per cercare di porvi un rimedio nel 1946 Wright fondò la Lafargue Clinic, prima istituzione psichiatrica non segregata, che aveva la sua sede in alcune stanze dello scantinato di una parrocchia episcopale di Harlem messe a disposizione gratuitamente dal reverendo Shelton Hale Bishop, il quale compariva anche nel reportage Harlem Gang Leaders.
Cofondatore era lo psichiatra Fredric Wertham, divenuto celebre nei decenni successivi per la sua guerra ai fumetti violenti, tanto da diventarne lui stesso protagonista in una serie che lo demonizzava.
In Psychiatry Comes to Harlem, pubblicato sulla rivista di sinistra Free World, Wright accompagnava le foto scattate da Richard Saunders sulle varie attività della clinica ad un saggio in cui spiegava dettagliatamente le ragioni che lo avevano spinto a quell'impresa:
“L’alto tasso di delinquenza e di collassi nervosi non deriva da un predisposizione biologica verso il crimine presente nei Negri, ma da un quasi totale mancanza di servizi che si prendano cura dei problemi degli individui di Harlem... La clinica ha riscontrato che il più consistente aiuto terapeutico che possa fornire alla malattia mentale di Harlem è instillare nei suoi abitanti quella che Wertham chiama 'la volontà di sopravvivere in un mondo ostile'."
Contemporaneamente alla Lafargue Clinic i coniugi Drs. Kenneth e Mamie Clark (famosi per l’invenzione del Doll Test in cui si chiede ad un bambino di scegliere tra due bambolotti identici tranne che per il colore della pelle e dei capelli) aprirono un altro centro psichiatrico ad Harlem, il Northside Testing and Consultation Center.
Fu Gordon Parks a realizzare le foto relative al lavoro che si effettuava in quella istituzione inserite nel reportage Problem Kids per la rivista Ebony, foto che avevano un'atmosfera più positiva rispetto a quella angosciosa che, seguendo le indicazioni di Ellison, Parks riuscì a comunicare in parecchi scatti di Harlem is Nowhere.
Nel 1954 tanto gli studi della Lafargue Clinic quanto i test dei coniugi Clark furono determinanti per la decisione della Corte Suprema, nella causa Brown vs Board of Education, che determinò l'abolizione della segregazione nelle scuole.
Gordon Parks per Problem Kids, rivista Ebony, 1947
La macchina fotografica deve catturare “l’affollamento, la delinquenza, il disagio familiare, la disoccupazione”, rimandando a “ quegli aspetti della vita di Harlem che appaiono nei sogni dell’individuo come simbolo (tunnel sotterranei, labirinti, scantinati, scale rotte, corridoi lunghi e stretti, poliziotti bianchi, distruzione).
Essi non sono sogno, bensì la realtà per più di quattrocentomila americani."Ralph Ellison
Nonostante Ellison fosse un bravo fotografo, quundo nel 1947 cominciò ad elaborare Harlem is Nowhere individuò in Gordon Parks il partner ideale per rappresentare l'ambizioso e difficile progetto che stava prendendo forma nella sua mente. Fotografare la vita quotidiana della gente di Harlem nella prevalente miseria del suo loro ambiente, per poi contrapporre alle immagini delle didascalie che dessero loro un valore simbolico.
In verità concentrando il lavoro su aspetti psicologici comuni a tutti gli individui al di là delle distinzioni razziali, Ellison voleva fare di Harlem un'allegoria molto più ampia. Attraverso una sintesi di realismo, astrattismo e simbolismo, i suoi abitanti sarebbero stati l’emblema della complessità della vita contemporanea americana.
Nelle sue intenzioni il servizio avrebbe anche rappresentato un nuovo modo di fare fotogiornalismo, come lui stesso spiega in una lettera a Wright:
“Sto lavorando su un pezzo che descrive come le condizioni sociali di Harlem rendano la clinica una necessità. Ho steso un progetto da realizzare con fotografie che dovrebbero rappresentare qualcosa di nuovo nel fotogiornalismo - se Gordon Parks riesce a catturare quegli aspetti di Harlem che a me sono così chiari.”
Una chiarezza che Ellison aveva messo sulla carta nei suoi appunti, come quelli sulla Lafargue Clinic, in cui sottolineava come l'alienazione degli afroamericani, estranei ai normali processi della vita nazionale e sociale, fosse simboleggiata da Harlem e da quelle "discriminazioni anti-Negro" che negavano loro l'accesso ad istituzioni e cure così necessarie all'individuo della moderna società urbana ed industriale.
Il lavoro prevedeva tre fasi strettamente interdipendenti. Dapprima la stesura di uno shooting-script con descrizioni finalizzate alla cattura di immagini al contempo realistiche e simboliche. Poi il lavoro sul campo con le macchine fotografiche ed infine la stesura delle didascalie per le fotografie scelte.
La sintonia della collaborazione di Ellison e Parks nella realizzazione del progetto letterario-fotografico Harlem is Nowhere ha quasi del magico. Foto e didascalie costituiscono un tutt'uno in cui realtà e simbolo si fondono perfettamente.
La sintonia con cui questa circolarità si è materializzata, ed è andata oltre, sembra avere del magico. Le indicazioni date da Ellison per Harlem is Nowhere trovano nelle foto di Parks un’aderenza sorprendente, dando a loro volta il la ad Ellison sia per lo stesso saggio del progetto sia per alcuni capitoli cruciali di Invisible Man.
Dal romanzo prende poi il via il nuovo servizio fotografico di Parks per il progetto A Man Becomes Invisible, in cui le foto costruite artificialmente sulle vicende del protagonista del libro e quelle prese dalla realtà si compenetrano, a volte quasi di confondono. Esse sintetizzano dunque nuovamente quell’unione tra realismo e simbolismo invocata da Ellison negli shooting-script di quattro anni prima per Harlem is Nowhere, in cui Ellison scriveva che la macchina fotografica avrebbe dovuto catturare, “l’affollamento, la delinquenza, il disagio familiare, la disoccupazione”, rimandando a “ quegli aspetti della vita di Harlem che appaiono nei sogni dell’individuo come simbolo (tunnel sotterranei, labirinti, scantinati, scale rotte, corridoi lunghi e stretti, poliziotti bianchi, distruzione). Essi non sono sogno, bensì la realtà per più di quattrocentomila americani."
Ed ecco allora le foto ad un tempo realtà e simbolo (tra cui quella del quel labirinto utilizzata da Life per l' apertura di Harlem Gang Leaders) che le didascalie di Ellison completano come un'unica cosa.
Ne riportiamo alcune con la traduzione delle didascalie di Ellison.
"Chi sono io? Dove sono? Come sono venuto al mondo? Dietro le mura senza fine del suo ghetto l’uomo cerca un’identità sociale. Fuggiti dal feudalesimo del sud in cerca di rifugio, molti Negri vagano a vuoto nei labirinti dei ghetti del nord, persone senza identità della democrazia americana. "
"Harlem, la più grande città 'Negra' degli Stati Uniti, una rovina fisica che per molti rappresenta un labirinto psicologico. La macchia illuminata nella foto si innalza dalle vicinanze della Lafargue clinic."
“I giovani di Harlem sono il 50% della delinquenza giovanile di tutta la città. Una recente indagine in una scuola di Harlem ha mostrato che un ragazzo su cinque è stato punito per assenze o per atti delinquenziali. Prodotti diretti di ambienti degradati, molti hanno bisogno di aiuto psichiatrico.“
"La spazzatura di Harlem: è così alta che non puoi scavalcarla; così ampia che non puoi girarle attorno. Al suo interno i bambini giocano, gli adulti l’attraversano camminando; puzza e offusca il paesaggio interiore della mente. "
"Quando le cose assumono un significato speciale perché sei nero, un occhio invisibile freddo e accusatorio sembra giudicare ogni tua azione. Ti fa sentire colpevole, ostile, “nowhere” (scatto 6)."
"Religione e carta igienica, libri dei sogni e forcine per capelli, santi e figurine esotiche, deodoranti e incenso, porcellini salvadanaio e danzatrici del ventre - i valori di una civiltà si riflettono ironicamente nella vetrina di questo negozio di Harlem."
Le immagini di Harlem is Nowhere dovranno:
“cominciare con il ‘labirinto’ del disorientamento psicologico, e finire con il labirinto (la clinica) attraverso il quale l’individuo viene aiutato a riscoprire se stesso; il ‘labirinto’ nel quale si appropria del ‘coraggio di vivere in un mondo ostile’.”
Ralph Ellison
Nella visione di Ellison però Harlem è anche “ la scena della sua trascendenza”, il luogo da cui è possibile rinascere. Ma servono istituzioni che aiutino le persone in questo tentativo, che diano loro, come diceva Wright citando lo psichiatra Wertham, "il coraggio di vivere in un mondo ostile".
L'uomo spaesato, che non sa chi sia né dove si trovi, deve essere aiutato con delle cure psichiatriche. L'ultima foto del progetto si ricollega in questo senso a quella di apertura con le sagome in controluce dello stesso simbolico uomo che prima vaga per il labirinto dei vicoli di Harlem chiedendosi "Chi sono io? Dove sono?", e che è ora in attesa della sua seduta nel labirinto della Lafargue Clinic, dove troverà l'aiuto necessario per riappropriarsi della sua identità. La metafora del labirinto che Ellison usa anche per la Lafargue Clinic è dovuta al fatto che per raggiungerla bisognava percorrere "una serie di corridoi e stanze che sembravano uno spaventoso e stretto labirinto".
La foto conclusiva ha una duplice didascalia. E' stata infatti rinvenuta negli archivi con la scritta a piè di pagina "Un paziente in attesa in uno dei cubicoli della LAFARGUE CLINIC. La Lafargue clinic aiuta a trasformare la disperazione non in speranza ma in determinazione."
Aspettando lo psichiatra dietro lo schermo di cabine improvvisate dove svolgere le sedute, il paziente disperato va alla Lafargue clinic due volte alla settimana per un trattamento che a New York gli viene rifiutato da qualsiasi altra parte.
" Sto per uscire alla luce, non meno invisibile senza la vecchia pelle, ma nondimeno sto per uscire. (...) Forse è questo il mio maggior crimine sociale, d’aver prolungato troppo la mia ibernazione, poiché vi è la possibilità che anche un uomo invisibile abbia da svolgere un ruolo socialmente responsabile."
Ralph Ellison
Invisible man, epilogo
La sottolineatura rossa delle parole "transform not into hope but into determination" a sua volta sottolinea l'importanza che l'evoluzione concettuale di Harlem is Nowhere ebbe anche per il romanzo Invisible Man, che Ellison aveva interrotto per dedicarsi completamente al progetto sulla Lafargue Clinic e su Harlem.
Nell'epilogo infatti quell'azione evocata nel prologo in relazione alla musica di Louis Armstrong si trasforma nella determinazione del protagonista di uscire dal warm hole, per rimediare al "crimine sociale di aver prolungato troppo la" sua "ibernazione, poiché vi è la possibilità che anche un uomo invisibile abbia da svolgere un ruolo socialmente responsabile."
Dunque chi è quell'uomo che guarda fuori dal tombino?
E' quello che entra nel buco per sottrarsi alla società che non lo vede?
Oppure è quello che ha trovato il coraggio di agire, seppure da uomo invisibile, nella società a lui ostile?
Forse è tutti e due, proprio come la sagoma in controluce della prima e dell'ultima foto di Harlem is Nowhere.
C'è un dipinto in America at the Fall che ho voluto tenere come immagine conclusiva non solo per le affinità visive che ha con quelle due foto, ma per la duplice storia di determinazione, simbolica e concreta, che lo caratterizza.
Il dipinto si intitola Aspiration (1936) ed è uno dei più belli della mostra. Il suo autore Aaron Douglas, uno dei tre afroamericani scelti per rappresentare la pittura statunitense più significativa degli anni '30, fu una figura di punta dell'Harlem Reinassance. Applicando la sua preparazione nelle tecniche delle avanguardie europee a soggetti americani, con particolare attenzione alla storia afroamericana, creò uno stile personale in cui iconografia africana, geometria astratta e riferimenti al cinema espressionista tedesco con le sue luci ed ombre (ma in questo caso anche la città richiama Metropolis di Fritz Lang), si compenetrano.
Aspiration (1936) di Aaron Douglas
Il potere di trasformazione dell'istruzione è centrale in quest'opera in cui l'aspirazione delle tre emblematiche figure in controluce, che emergono dalle braccia incatenate degli schiavi alla base del dipinto e la cui preparazione culturale professionale è simboleggiata dagli oggetti nelle loro mani, non è una speranza, bensì una detrminazione.
Ma c'è qualcosa a proposito di questo dipinto che va ben oltre il suo significato simbolico. Si tratta della storia di determinazione che ha portato alla sua realizazione.
Esso fu eseguito nel 1936 dopo che la comunità nera di Dallas si era opposta alla decisione degli organizzatori bianchi dell'Esposizione per il Centenario del Texas di negare la partecipazione agli afroamericani. Determinati a non accettare quella decisione che li escludeva da una storia di cui erano stati parte integrante, i rappresentanti della comunità nera smossero mari e monti finché ottennero dagli organi federali i fondi per la costruzione di un padiglione dedicato a loro. Douglas realizzò quindi i quattro pannelli che non solo decoravano la Hall of Negro Life, ma testimoniavano l'importanza del contributo afroamericano allo sviluppo della vita del Texas, e della nazione, dal lavoro degli schiavi agli apporti intellettuali, artistici e scientifici delle ultime generazioni.
Note bibliografiche:
Michael Raz-Russo, INVISIBLE MAN Gordon Parks and Ralph Ellison in Harlem, Steidl/The Gordon Parks Foundation/ The Art Institute of Chicago, 2016
Judith A. Barter, AMERICA AFTER THE FALL Paintings in the 1930s, The Art Institute of Chicago, 2016
I brani di Invisible Man sono tratti dall'edizione italiana: Ralph Ellison, Uomo invisibile, Einaudi, 1971 (ristampa identica a quella del 1952), traduzione di Carlo Fruttero e Luciano Gallino