Bice Mortara Garavelli ci guida alla scoperta di un argomento spesso sottovalutato. Il suo prontuario contiene indicazioni pratiche e chiarimenti teorici che ci aiutano a sfatare qualche mito che ci portiamo appresso dai tempi della scuola dell’obbligo.
Un datato luogo comune vuole che gli studi di linguistica, dopo un sonno durato oltre duemila anni (e cioè da quando era morto Aristotele), siano rinati nel ventesimo secolo grazie al filosofo autodidatta Ludwig Wittgenstein.
Si tratta di una evidente forzatura: pensate per esempio agli interessi di logica e retorica che animarono la romanità e il medioevo, oppure pensate alla linguistica comparata del Diciannovesimo secolo. Tuttavia un fondo di verità c’è se si intende con questa affermazione che dopo Wittgenstein quella linguistica lì, quella cioè che riconosce come il fenomeno linguistico sia incarnato nel mondo reale, abbia riacquistato una centralità nel discorso filosofico che effettivamente non aveva più dall’Antichità.
Da Wittgenstein in poi c’è stato infatti un ininterrotto proliferare di teorie e di scuole, dall’ermeneutica allo strutturalismo tanto per citarne alcune, fino ad arrivare ad esagerazioni, e mi sto ovviamente riferendo alla filosofia analitica americana. Tutte quante si confrontavano però, pur da punti di vista diversi, con il mondo reale.
La novità del ventesimo secolo è stato dunque il ritrovato connubio tra lingua e realtà, un fenomeno che ha avuto anche risvolti politici. Basti ricordare in questo senso due esempi.
Innanzitutto il tentativo di italianizzazione dei termini stranieri voluta dal fascismo. La parola “goal” venne sostituita da “rete”; “cross” da “traversone”; “corner” da “calcio d’angolo”; “rugby” da “giuoco della palla ovale”; “brioche” da “brioscia”; “croissant” da “cornetto”; “chauffeur” da “autista” e via dicendo.
In secondo luogo, in anni più recenti e a partire dai campus della California, in una parte della società – e in particolare nelle élite – si è diffusa l’esigenza di dover parlare in modo politicamente corretto, che poi vorrebbe dire esprimersi senza offendere le minoranze. Per esempio secondo i fautori del politicamente corretto il termine “negro” – pur se ampiamente attestato nella lingua e nella letteratura americana – non dovrebbe più essere utilizzato se non nei dialoghi dei libri e dei film che fanno mimesi del parlato volgare.
Se gli intenti degli esponenti del politicamente corretto potevano essere tutto sommato ragionevoli, poi gli elementi radicali hanno preso il sopravvento per cercare di ergersi a paladini di qualche giusta causa (con presunte ricadute in cabina elettorale) e, per esempio in Italia, per non discriminare le donne è stato reso obbligatorio in certi contesti utilizzare termini che non trovano riscontro nell’uso corrente – sindaca, ministra, presidentessa – e a mettere la “a” alla fine delle professioni svolte da donne.
Tutto ciò serve in ogni caso per introdurre il concetto che da un secolo a questa parte gli uomini di cultura hanno preso a cimentarsi sistematicamente con la grammatica, il lessico e la sintassi. Giusto quindi che anche noi ci misuriamo, almeno una volta ogni tanto, con tali tematiche.
Ho scelto pertanto un testo introduttivo a una delle questioni più interessanti: la punteggiatura. Un argomento che ha anche immediate ricadute su una pratica che l’uomo di cultura spesso frequenta: la scrittura.
La punteggiatura dà sempre problemi. Quando andavamo a scuola, o almeno quando ci andavo io, per tagliare la testa al toro le maestre ci davano indicazioni tassative in merito all’uso dei segni di interpunzione (per esempio: usare sempre la virgola prima del “ma”; non usare mai la virgola prima di “e”; dopo il punto fermo non ripartire mai con un “e” oppure con un “ma”). Per non parlare di come ci dicevano di leggere segni di interpunzione: una pausa per la virgola, una pausa più lunga per il punto fermo.
Con gli anni ho scoperto che tali indicazioni non potevano essere normative, che a volte si trattava di verità parziali, e che anzi in alcuni casi erano proprio falsità.
Il Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara Garavelli, che vi consiglio di leggere, contiene indicazioni pratiche e chiarimenti teorici che ci aiutano a sfatare qualche mito che ci portiamo appresso dai tempi della scuola dell’obbligo. Incertezze e problemi permarranno comunque, ma – ricorda l’autrice – essi possono sollecitare un interesse intorno ai “principi linguistici su cui si fondano le spiegazioni degli usi e dei fenomeni interpuntivi”.
Torniamo ai principi, dunque.
Un tempo esisteva solo la lettura ad alta voce. La lettura a mente fu un fenomeno molto successivo.
Quando si usava leggere ad alta voce era la frequenza del respiro a scansionare i tempi di lettura. Quando poi nacque l’abitudine di leggere mentalmente, nacque anche l’esigenza di presentare visivamente il testo con indicazioni sul valore delle varie parti. I segni di interpunzione nacquero quindi come un “sistema per l’occhio” adatto alla lettura silenziosa per demarcare le unità sintattiche e le loro relazioni.
La punteggiatura dunque è fondamentale nella costruzione di un testo poiché ne è, per così dire, lo scheletro. Una strutturazione difettosa di ciò che si vuole dire è sempre manifestata da un disagio interpuntivo. Struttura di un testo e punteggiatura sono legati da un vincolo inscindibile. Non a caso in un testo costruito male non si riesce a mettere una buona punteggiatura, come sanno bene gli editor. I segni di punteggiatura sono infatti istruzioni per la lettura e la punteggiatura distingue i piani dell’enunciazione, mette cioè in rilievo l’architettura del testo.
Però gli stessi segni di interpunzione effettivamente assolvono allo stesso tempo anche a “sistemi per l’orecchio”, che scansionano gli intervalli e danno ritmo alla lettura (e questo è l’unico valore che le maestre di un tempo assegnavano per esempio alla virgola).
L’essere contemporaneamente al servizio dell’occhio e al servizio dell’orecchio crea quella confusione che ogni tanto si prova quando si deve utilizzare la punteggiatura. Il problema vero e proprio è dunque che uno stesso segno, per esempio la virgola, assolve a più funzioni.
Le riflessioni più interessanti contenute nel saggio riguardano proprio la virgola.
Sì, tutti sappiamo come si usa il punto di domanda e quando usare il punto esclamativo, ma l’uso della virgola risulta spesso ostico. Non ci sono regole certe che valgono in qualsiasi contesto. Peraltro sono possibili usi diversi, talvolta contrastanti, della punteggiatura rispetto a un paradigma fissato convenzionalmente a seconda del testo che si sta scrivendo. Ma alcune prassi sono più stabili di altre.
Un lungo capitolo del saggio tratta dunque i seguenti problemi: in quali casi si può o non si può (e in quali si deve o non si deve) mettere la virgola davanti alla congiunzione “e”; come comportarsi con “ma”, “né”, “sia”, “o”; quando si può mettere una virgola tra soggetto e verbo; qual è la differenza tra virgola e punto e virgola; e altre questioncine minori come per esempio il rapporto tra virgola e pronomi e dove mettere la virgola quando nel testo compaiono sintagmi temporali a inizio frase.
Si tratta di informazioni utilissime per chi scrive, anche se non lo fa per lavoro.
Ma non sono solo pagine preziose per i professionisti o i cultori della parola scritta.
In anni come questi di mail e messaggini – pensateci: non si è mai scritto tanto come oggi, e mai con questa superficialità – la punteggiatura è infatti diventato un aspetto importante delle relazioni umane.
Un uso scorretto della punteggiatura, magari in una mail inviata al nostro capo, può per esempio generare malintesi pericolosi che possono avere spiacevoli ripercussioni. L’autrice in questo senso ci invita a ricordare le origini del detto “per un punto Martin perse la cappa”.
Martino doveva scrivere una bella epigrafe per la porta del suo convento – PORTA PATENS ESTO. NULLI CLAUDATUR HONESTO – ma per sbaglio mise il punto fermo dopo NULLI. Pertanto, invece di dire che la porta doveva rimanere aperta e non chiudersi davanti a nessuna persona onesta, Martino scrisse che la porta non sarebbe stata aperta a nessuno, e che anzi sarebbe rimasta chiusa per chi era onesto.
Fine della carriera di Martino.
Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Editori Laterza, 2011, 158 pp.