L'incontro con il disegnatore voluto da Novaluna, all'indomani delle sue dimissioni dalla direzione dell'Unità. Fra un po' di amarezza e tante risate il Partito, la satira, il fumetto. Dagli inizi al futuro.
La sua dedica sulla mia copia di “Il romanzo di Bobo” è del 2009. Quelli della Fondazione Fossati (prima che si spostassero a Milano per aprire lo Spazio Wow - Museo del fumetto) quell’anno gli avevano dedicato una personale nella Galleria Civica di via Camperio. Da allora Sergio Staino non metteva piede a Monza. Ci è tornato il 6 aprile scorso invitato da Novaluna e a me è toccato l’onore di intervistarlo.
Essendo, questi, giorni molto complicati per lui direttore dimissionario dell’Unità, ho pensato fosse inevitabile partire proprio da lì con le domande, da quella bellissima prima pagina speciale del 31 marzo, completamente disegnata da lui e in cui ha voluto raccontare in modo diretto e sincero la situazione di quel malconcio quotidiano. Per chi non avesse seguito la questione, riepilogo in estrema sintesi. Il giornale fondato da Gramsci da molti anni non se la passa bene, attraversa una crisi anche peggiore di quella già nera della stampa in generale. Lo scorso anno quello che un tempo è stato l’organo del PCI — e dei partiti che ne sono derivati — aveva chiuso i battenti. Destino paradossale per il giornale della forza politica di maggioranza del paese: toccare il fondo negli anni in cui il PD governa lo Stato, molte regioni e tantissimi comuni. Ma così stanno le cose. Lo scorso autunno è stato l’amato-odiato Renzi a chiedere a Sergio Staino di dirigere l’Unità dopo la parentesi De Angelis e lui, pur tra mille dubbi, ha accettato di traghettare le 16 pagine quotidiane verso un futuro più roseo, anche se ormai non più di proprietà del partito (che oggi detiene solo una quota di minoranza) ma di una società in mano a immobiliaristi.
In una redazione sovradimensionata per i tempi e per le vendite e depauperata del sito – incredibilmente gestito da altri – Staino ha dovuto presto rendere conto alla proprietà delle perdite e rispondere alla richiesta di drastici tagli del personale. Questo racconta quella prima pagina del 31 marzo: il vedersi rimpallare fra l’editore, la famiglia, la redazione. Proprio lo sciopero indetto come reazione dalla redazione ha fatto traboccare il vaso. Sentita venire meno la fiducia dei collaboratori, Staino ha presentato le dimissioni da direttore di un giornale che pure tanto ama e che, ne è convinto, tanto potrebbe ancora dire e fare per il partito e per la comunità progressista tutta.
Ora, lo si capisce dalle parole amare che il disegnatore non lesina, la situazione è sospesa. Probabilmente aspetta un segnale forte, non tanto dalla redazione, non tanto dalla proprietà, quanto dal PD stesso: da quel Renzi che dopo avergli dato ampie garanzie è scomparso, mostrando disinteresse per uno strumento che evidentemente non considera abbastanza smart per le sue abitudini, non abbastanza strategico per un partito che per altro ha fatto a pezzi.
Non era mia intenzione dedicare più tempo del necessario ai suoi rapporti con il partito, ma tirare la briglia e far cambiare direzione al racconto di Staino è pressocchè impossibile. Come nelle sue strisce, l’autobiografia si fonde da sempre con le sorti del PCI, del PDS, dei DS e del PD, anche i suoi appassionanti ricordi sono un tutt’uno con la successione dei direttori dell’Unità, dei segretari e dirigenti che in più di trent’anni ha visto avvicendarsi mentre lui disegnava, impersonando e interpretando le perplessità della “base”, i dubbi, lo sconcerto, lo spaesamento di fronte alle innumerevoli mutazioni di quello che fu il più grande partito di sinistra dell’occidente.
Sua moglie mi aveva avvertito: tienilo a bada altrimenti lui parla all’infinito. Ma come si fa a troncare racconti così vivi, aneddoti e capitoli in cui la risata e l’amarezza si alternano senza scampo? le grandi storie sono così.
Foto di Elisabetta Raimondi
Eppure almeno in parte sono riuscito a porgere le domande che mi ero appuntato, scavando nei suoi 75 anni anni e scovando alcuni dei momenti più importanti di Sergio Staino. Il debutto su Linus soprattutto, nell’ottobre del 1979. Era un insegnante alle prese con una situazione familiare complicata allora, e quella di pubblicare storie umoristiche era una aspirazione non proprio scontata in un uomo quasi arrivato ai quaranta. Le tavole inviate in redazione, la chiamata di un entusiasta Oreste del Buono che lo rintraccia in vacanza a Parigi, il boom, la vita che cambia. Bobo, che è inequivocabilmente lui, che diventa simbolo per tantissimi compagni che ci si riconoscono e che porta l’ironia fra le rigide fila di un partito fin troppo serioso. Un successo che alla metà degli anni Ottanta lo porta a dar vita da direttore al supplemento Tango, palestra per autori storici (i nomi di sempre della satira di alta qualità italiana, Ellekappa, Altan, Vauro…) e per nuove firme, come lo stesso Michele Serra che qualche anno più tardi dirigerà l’erede Cuore.
Gli ho chiesto del Paperino di Carl Barks, di quel personaggio che molti continuano a sottovalutare (così come molti continuano a sottovalutare il fumetto tutto, vedi alla voce Giovanna Melandri) e Staino ha raccontato di cosa quel Paperino rappresenta: la versione disegnata della middle class americana alle prese con le difficoltà di vivere, qualcosa di “rivoluzionario” per un linguaggio (la narrativa disegnata) fino ad allora abituato all’esotismo, alla fantascienza, al fantasy.
Gli ho chiesto se non è accanimento terapeutico questo eterno ricorrere a sottoscrizioni, appelli e collette per giornali che proprio non riescono più a stare in piedi (e penso anche al Manifesto) e lui ha detto che quello che possono fare per l’approfondimento e il confronto i giornali politici, niente altro può farlo.
Gli ho chiesto della annosa questione dei limiti della satira e lui ha confermato che no, nel giusto contesto la satira non può avere limiti se non quelli del codice penale. Non può averne neanche quando non piace, non interessa, disgusta. Gli ho chiesto se si è mai bocciato una vignetta e ha raccontato di quando, invece, accettò di usare “citrulli” al posto di “coglioni” per accontentare Furio Colombo che quella parola in prima pagina non riusciva proprio a digerirla (e Ellekappa che poi gli chiede: “Ma non avresti fatto meglio a scrivere coglioni?”).
Foto di Elisabetta Raimondi
Due ore intense, piene di sorrisi e risate, sono scappate via come la china dalla punta di un pennarello. Avrei dovuto chiedergli ancora molte cose, tipo chi considera suo simile fra gli autori più giovani, tipo un ricordo del mio amatissimo Andrea Pazienza, tipo di come abbia fatto a partecipare a Drive in, tipo — infine — di come possa oggi un ragazzo appassionarsi di politica. Io, in quegli anni Ottanta, lo feci proprio grazie a Tango. Grazie a quei disegni così divertenti eppure mai stupidi, mai banali, così distanti dal qualunquismo in voga oggi. Disegni intrisi di spirito critico nei confronti dei partiti e della politica, eppure grondanti di passione: per i partiti e per la politica. Allora imparavamo dalle nostre letture, dai nostri ascolti e dalle nostre visioni di ventenni provinciali che si poteva anche pensare a guardare lontano, che si poteva sperare e impegnarsi per grandi principi e ideali senza sentirsi stupidi. Imparavamo che era — è — possibile parlare al plurale. Intorno il mondo stava precipitando nell’individualismo, stava dilagando la più grande religione mai vista sulla terra (quella del dio denaro che tutto giustifica) ma noi andavamo in edicola a comprare l’Unità e il Manifesto.
“È stato un tempo il mondo giovane e forte”. Sarebbe ora che ritorni ad esserlo. Servono esempi però, non prediche. E la politica oggi è piena di predicatori e imbonitori, ma scarsissima di buoni esempi. Questo lo chiederò la prossima volta che incrocio Staino e Bobo.