Il video dell'incontro con l'attore a Monza per il Teatro Manzoni. Lo spettacolo con le canzoni del cantautore genovese e il richiamo agli Scritti corsari di Pasolini. Un piatto con qualche ingrediente di troppo
C’è un problema nel teatro impegnato. È che a volte accade che autori di buona volontà, vogliosi di non fermarsi all’intrattenimento ma di rivendicare un ruolo civile per sé e per il proprio lavoro, saltino in groppa all’impegno per correre e scorrere nelle terre delle ingiustizie, delle violazioni dei diritti umani e degli attacchi all’ambiente, della malapolitica e dei lati oscuri della società per denunciarne l’esistenza. Ovviamente il problema non è questo: l’arte civile ha una storia, una funzione e una tradizione nobilissime. Diventa problema quando quel correre e scorrere sembra non avere senso certo, quando il bel cavallo dell’impegno non viene addomesticato e vaga di qua e di là, abbeverandosi ora al pozzo all’indignazione, ora alla fontana della satira, ora nel barile della protesta ora dalla damigiana dei padri nobili dell’impegno civile italiano, ma senza trovare senso compiuto. Mettendo insieme troppe strade, troppi temi, troppe situazioni. Finendo col girare e girare e girare senza individuare una direzione (neppure ostinata e contraria), o una ragione. Neppure quella del viaggio: viaggiare.
Abbiamo visto inciampare fior di autori e attori in questo equivoco: mettere nel calderone troppi ingredienti non vuol dire arricchire di sapori la tavola, significa disperderne il gusto. Ultimo in ordine di tempo a vagare su un palco rincorrendo tanti, troppi temi è Neri Marcoré, interprete di “Quello che non ho” con la drammaturgia e la regia di Giorgio Gallione. Non fosse bastato tirare in ballo due giganti come Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini, in un’ora e mezza si riesce a infilare dieci fra le meravigliose canzoni del più grande dei nostri cantautori e poi a passare dalle spaventose isole artificiali nate dall’accumulo di plastica negli oceani alle infernali miniere di coltan, il minerale indispensabile per gli smartphone, in cui lavorano come schiavi anche i bambini del Congo. E poi ancora le discriminazioni contro i rom e altro.
Troppo. Davvero troppo. Tanto da fare fatica a capire quale sia il nesso fra una sfiga e l’altra, se non quello delle “malefatte” dell’uomo sull’ambiente e sull’uomo stesso. Un po’ come quando si avvia una discussione con un malmostoso che un mugugno, un lamento, una imprecazione la troverà su qualsiasi argomento: proveremo a parlare di calcio, di donne, di politica, del tempo, del lavoro, della salute, della famiglia… nulla avrà scampo, tutto fa schifo negli occhi del malmostoso. Il che può essere vero (e sulle questioni poste non c’è dubbio che l’uomo faccia schifo). E poi? Basta fare un elenco delle disgrazie di cui siamo capaci per dare un senso ad un lavoro teatrale?
Leggi il testo di Khorakhané di Fabrizio De André
Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario
Jugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio [*]
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina [**]
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
Čvava sero po tute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.
kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti. [***]
NOTE
[*] La principale festa Rom, il 6 maggio.
[**] Tenda mobile
[***] In lingua romanes-khorakhané:
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l'aria azzurra
diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali.
Certo la magnificienza di Khorakhané (in cui risplende la voce di Giua) o l’incanto del richiamo alle lucciole invocate da Pasolini sono carezze sull’anima, ma riescono a riassettare tasselli così sconnessi? Neppure la bravura dell’attore Marcoré basta a tenere in piedi un edificio così poco solido: in bilico fra il didascalico e il pedagogico, fra il moralista e l’indignato. Forse sarebbe stato più efficace restringendo il campo. Tornando alla metafora delle scorribande nelle terre delle disgrazie: forse sarebbe stato più utile fare meno chilometri in superficie ma appofondirne almeno una, anche una soltanto. Il rischio della confusione è sempre in agguato, anche con l’impegno.
Il corso di critica teatrale del Manzoni
con i ragazzi delle superiori di Monza
Il nuovo corso del Teatro Manzoni di Monza oltre al rinnovamento delle stagioni ha portato anche altre novità, non ultima un corso di critica teatrale valido come alternanza scuola-lavoro per circa quaranta studenti di alcuni istituti medi superiori della città. A guidare i ragazzi è Valeria Ottolenghi, critico e giornalista per la Gazzetta di Parma e Artribune, che da alcune settimane li “allena” ad assistere agli spettacoli e poi a scriverne. Un percorso che si arricchisce anche degli incontri con gli artisti ospiti del teatro. All’ultimo, con Neri Marcoré, abbiamo voluto partecipare per vedere come si sta formando questa nidiata di critici. Abbiamo visto giovani curiosi cimentarsi con domande sulla scelta del titolo, sulle aspettative dagli e degli spettatori, sul perché del riferimento a Pasolini e De André. Marcoré ha risposto scegliendo con cura le parole, senza boria, con l’attenzione che merita chi si avvicina al mondo teatrale, analogico per eccellenza, in un contesto storico in cui il digitale dilaga.