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A un anno dalla morte, rileggiamo un vecchio saggio di Umberto Eco Il costume di casa: evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta.

Il 19 febbraio 2016, giusto un anno fa, ci lasciava Umberto Eco. In quell’occasione promettemmo che prima o poi avremmo riproposto la lettura di qualche suo saggio. Manteniamo la promessa fatta allora scegliendo oggi un suo saggio del 1972 che si intitola Il costume di casa: evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta.

Si tratta di una raccolta di interventi scritti da Eco negli anni Sessanta su varie riviste e periodici, che tratteggiano bene i contorni di alcune problematiche intellettuali di quel magico decennio. Il testo è quindi una miscellanea di vari interventi, il che rende impossibile in questa sede dare conto di tutto quanto scritto in quasi 500 pagine: si va da un’analisi, ancora attuale, dei servizi del telegiornale; a un’analisi dei discorsi dei politici; passando per un’analisi del fenomeno degli autori a proprie spese, dove Eco riconosce, con onestà intellettuale e senza snobismi, che alcune tra le loro opere potrebbero benissimo trovare spazio nelle collane di case editrici vere e proprie; passando poi al linguaggio pubblicitario, un classico degli interessi di Eco; arrivando all’industria culturale di destra e al fumetto fascista (argomenti, questi ultimi, non più attuali); fino ad arrivare alla nascita del Gruppo 63, una neoavanguardia letteraria di cui Eco fece parte; e finendo con la chiusura di “Quindici”, un periodico di sinistra di cui Eco fu un noto collaboratore: un tema che potrebbe interessare solo una ristretta cerchia di pubblico; quella cioè interessata a ripercorrere, anche minutamente, la storia della cultura italiana degli anni Sessanta.

Qual è dunque il comun denominatore di queste pagine di argomento così variegato?

Eco nell’introduzione cita la “diffidenza” che esse dovrebbero instillare nel lettore quando questi si trova davanti a un fenomeno culturale, cioè quella disposizione d’animo che dovrebbe mantenere di fronte al telegiornale o a un manifesto pubblicitario. Una diffidenza che consentirebbe di leggere dietro, attraverso e di fianco a questi fenomeni.

Nel saggio a farla però da padrone sono le pagine dedicate al caso Braibanti.

Cinquant’anni fa il “caso Braibanti” era un caso giudiziario conosciuto da tutti e non aveva bisogno di particolari presentazioni. Oggi è stato quasi completamente dimenticato, anche se è stato uno dei grandi errori giudiziari del dopoguerra assieme al caso Tortora e al caso Valpreda.

 

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Credendo quindi di fare cosa utile, ripercorro brevemente i fatti. Aldo Braibanti (1922-2014) giovanissimo aderì alla Resistenza e per questo fu arrestato due volte durante la Repubblica di Salò. In seguito abbandonò gli interessi politici e intraprese una carriera di poeta, scrittore e drammaturgo che lo portò a pubblicare alcune opere e a collaborare perfino con Carmelo Bene. Successivamente collaborò a vari progetti artistici con un giovane amico, Giovanni Sanfratello, con cui intratteneva anche una relazione omosessuale. Nel 1964 i genitori di Sanfratello, integralisti cattolici, denunciarono Braibanti per “plagio”: lo accusarono cioè di aver influenzato il figlio a tal punto da tenerlo psicologicamente soggiogato. Sanfratello fu dunque internato in manicomio mentre Braibanti subì un lunghissimo processo che portò, per la prima volta nella storia italiana, un cittadino ad essere condannato per plagio (la norma successivamente venne abolita senza mai essere stata applicata in altri casi).

In difesa di Braibanti scesero in campo i grandi intellettuali dell’epoca: Pasolini, Moravia, Bellocchio e anche Umberto Eco.  Ed è di quest’ultimo che dobbiamo occuparci.

A volte pensiamo a Eco come a un intellettuale che ha trattato tematiche che, seppur importanti, erano del tutto estranee ai problemi concreti: filosofia medievale, semiotica e cultura di massa.

Eco è stato forse l’intellettuale italiano che maggiormente ha saputo portare sul piano concreto le sue grandi conoscenze teoriche.

Nulla di più sbagliato. Eco è stato forse l’intellettuale italiano che maggiormente ha saputo portare sul piano concreto le sue grandi conoscenze teoriche. Una grande lezione che ne ha fatto un punto di riferimento per tutti quelli che hanno compiuto studi che vengono definiti come astratti.

La sua difesa di Braibanti ne è un bellissimo esempio. Con una serrata analisi Umberto Eco analizza infatti “le parole” del processo a Braibanti in un intervento che si intitola “Sotto il nome del plagio”.

Il caso Braibanti – è l’argomentazione di Eco – non è solo un caso giudiziario, ma è anche un caso politico e civile che ha messo in atto meccanismi di pensiero e di comportamento che costituiscono una minaccia permanente per ogni uomo libero. Riflettere sul caso Braibanti significa riflettere su alcuni comportamenti sociali, primo fra tutti l’uso del linguaggio nel sistema giudiziario e psichiatrico.

Un uomo – Braibanti – è accusato da altri uomini mediante “parole”. Queste parole si riferiscono a dei fatti, e gli inquirenti cercano di appurare questi fatti.

Da qui in poi l’argomentazione si fa ancor più sottile. Per poter utilizzare delle parole in un processo, esse andrebbero attentamente controllate per stabilire:

a) se alle parole che denotano fatti corrispondano fatti che di solito sono denotati da quelle parole e

b) se per caso queste parole non carichino sui fatti denotati un peso emotivo che altre parole, perfettamente utilizzabili al posto loro, invece non comporterebbero.

I verbali redatti dalla Polizia e le relazioni degli psichiatri incaricati di studiare il caso non facevano altro che riprendere e citare pari pari il testo della denuncia

Eco quindi, rileggendo tutte le testimonianze riportate negli atti del processo, con perizia filologica dimostra in primo luogo che i vari verbali redatti dalla Polizia e le relazioni degli psichiatri incaricati di studiare il caso non facevano altro che riprendere e citare pari pari il testo della denuncia dei famigliari del Sanfratello.

Non solo. Eco, grazie alle sue competenze in campo linguistico, ravvisa anche come questi scritti contengano parole caricate a livello emotivo in modo negativo. Gli inquirenti e gli psichiatri non avrebbero fatto dunque il ben che minimo sforzo di spogliare i termini verbali dal loro alone emotivo. E qui si apre una lunga digressione che illustra per molte pagine questo tipo di atteggiamento.

Il Braibanti viene per esempio descritto come noto frequentatore di “gente con la barba”, le sue abitudini vengono descritte nei verbali come “strane” e la sua cultura viene descritta come “esistenzialistica”.

I verbali sono a tratti involontariamente comici: uno scambia la psicoanalisi di Freud con un fantascientifico controllo dei pensieri; un altro si esprime – ribadiamo: in un verbale! – attraverso metafore; in un altro si citano delle “sigarette estere” come se fossero un afrodisiaco; un altro definisce come scandaloso un rapporto sessuale che Braibanti avrebbe avuto con un uomo di colore; in un altro si elencano i libri in possesso del Braibanti come se il loro possesso fosse una colpa; in un altro ancora si enumerano minutamente gli oggetti e gli oggettini, di nessuna rilevanza penale, ritrovati in un cassetto del Braibanti che, così elencati, sembrano davvero sospetti (e giustamente Eco fa notare che se tutti noi subissimo una perquisizione di questo tipo, chissà che cosa salterebbe fuori dai nostri cassetti).

Il Sanfratello venne invece portato da uno psichiatra dietro l’altro, e tutti confermano come il suo desiderio di abbandonare gli studi e di vivere con Braibanti fosse esclusivamente dovuto alla follia, il che lo aveva reso una facile preda del Braibanti. Le relazioni degli psichiatri alludono costantemente poi a una indiscutibile malattia.

Eco, nel suo intervento, riporta anche lunghi brani tratti dalle deposizioni e dalle lettere del Sanfratello, e la differenza qualitativa rispetto alle deposizioni e relazioni altrui è palpabile.

Molto umana, lucida ed equilibrata è per esempio la deposizione del Sanfratello che semplicemente chiedeva di vivere la propria vita come gli pareva. Dal manicomio scrisse appelli a tutti dichiarando che non era pazzo, ma non fu creduto da nessuno. In manicomio gli fu perfino prescritto di non leggere libri scritti da meno di un secolo (incredibile, ma accadde).

Era proprio un’altra epoca. Il ‘68 non c’era ancora stato. Basaglia era ancora uno sconosciuto psichiatra a Gorizia e mancavano oltre quindici anni alla riforma del sistema manicomiale che avrebbe portato il suo nome. Il movimento omosessuale italiano addirittura non esisteva nemmeno.

Dunque, secondo Eco, Braibanti è stato condannato a causa dell’uso connotativo di certe parole. Detto in altri termini: certe sue azioni non condannabili sono state indicate con parole denigratorie e ciò ha instillato e rinforzato il convincimento che il plagio fosse stato commesso davvero. I fatti alla fine, letti gli atti, non esistevano neanche più. Nessuno si era preso la briga di appurarli: esistevano solo una montagna di parole. Punto e stop.

Quello di Eco è un intervento interessante anche oggi che il reato di plagio non esiste più perché ci ricorda che le perizie psichiatriche e i verbali di Polizia a volte in buonafede, a volte perché gravati da preconcetti, a volte perché soggetti a pressioni ambientali – sono solo insiemi di parole e non di fatti, possono essere scritti in modo non obiettivo e possono quindi produrre conseguenze nefaste.

Una sana diffidenza è l’antidoto per questi veleni.

Umberto Eco, Il costume di casa: evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni Sessanta, Bompiani, 482 pp., 2012, 10,90 euro.

 

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Gli autori di Vorrei
Juri Casati
Juri Casati

Classe 1975, lavora in un'Agenzia per il Lavoro. Laureato in Filosofia, è autore di numerosi racconti di genere horror, gotico, fantastico e fantascientifico. Coltiva interessi in ambito storico e di filosofia della scienza

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