20170125 primo levi

In occasione della Giornata della Memoria, rileggiamo un prezioso distillato di quarant’anni di riflessioni sulla Shoah da parte di un suo acuto testimone

Il 27 gennaio prossimo, come accade ormai da qualche anno a questa parte, si commemoreranno coloro che sono stati internati nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Nonostante gli ebrei non siano stati il solo gruppo ad essere stato internato nei lager nazisti, un comune sentire ha fatto sì che “la giornata della memoria” venga intesa in primo luogo come una giornata commemorativa delle persecuzioni subite dagli ebrei sotto il regime nazista.

Intendiamoci, fin qui niente di male. Certo, in realtà il 27 gennaio sarebbe giusto ricordare anche gli zingari, gli omosessuali, i Testimoni di Geova, gli internati militari e i reclusi per ragioni politiche (addirittura, per quanto riguarda l’Italia, il numero di internati nei lager nazisti di queste due ultime categorie è stato di gran lunga superiore a quello degli ebrei italiani internati), ma non è di questo che vi voglio parlare.

Se dovessi infatti scegliere una data che mostri lo stato pietoso in cui versa il giornalismo italiano, sceglierei proprio il 27 gennaio, giorno in cui dilagano la sciatteria dei servizi copiati dall’anno precedente e la retorica più trita.

Un ottimo saggio da utilizzare come antidoto contro la retorica (che è l’anticamera dell’oblio) e contro la sciatteria (che porta a inverosimili semplificazioni che a loro volta sono il fertile terreno su cui possono prosperare le tesi negazioniste) è stato scritto nel 1986 da Primo Levi, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, e si intitola I sommersi e i salvati.

Primo Levi non ha bisogno di particolari presentazioni: giovane partigiano ebreo aderente alle formazioni di Giustizia e Libertà, venne arrestato e deportato in Polonia in uno dei sottocampi di Auschwitz. Scampò miracolosamente alla morte e nel dopoguerra intraprese la carriera professionale in un’azienda chimica fino a diventarne il direttore. Contemporaneamente, pur con qualche difficoltà iniziale, intraprese anche la carriera di scrittore diventando uno degli autori italiani del Novecento più tradotti all’estero. Universalmente noto è il suo libro Se questo è un uomo.

I sommersi e i salvati è un breve testo, 190 pagine circa, scritto in una prosa tersa.

È una lettura preliminare da fare, secondo me, rispetto a testi più lunghi e più tecnici, come possono essere per esempio le storie dei lager o le storie della persecuzione nazista degli ebrei.

I Sommersi e i salvati si occupa infatti di questioni che vengono raramente trattate da saggi di quel tipo, come per esempio: i limiti della nostra conoscenza dei fatti; la complessa situazione dei collaborazionisti; le deformazioni retoriche che impediscono di comprendere la vera natura degli eventi e gli stereotipi che si sono consolidati nei decenni.

La prima parte dei Sommersi e i salvati ricorda per esempio certe pagine di Kant in cui si ragiona in merito a quali siano i limiti della nostra conoscenza.

Non sappiamo tutto del mondo concentrazionario, e molte fonti oggettive sono andate perdute irrimediabilmente: gli spaventosi eventi bellici hanno comportato la distruzione di moltissimo materiale documentario, mentre i tedeschi in ritirata hanno tentato di distruggere le camere a gas, in parte riuscendovi. Inoltre nel dopoguerra i carnefici e i loro complici hanno spesso distrutto altro materiale che avrebbe potuto comprometterli.

Se questa è la situazione dei documenti e delle prove, anche le testimonianze oculari sono lacunose. Quelle dei carnefici sono poche perché essi hanno quasi tutti comprensibilmente negato ogni addebito, mentre senz’altro più numerose sono le testimonianza delle vittime. Ma non è solo questa sproporzione a fare la differenza.

Levi ci invita infatti a riflettere sul fatto che le testimonianze delle vittime provengano in gran parte da persone che nei lager godevano di una qualche forma di privilegio (Primo Levi stesso per esempio lavorava in un laboratorio chimico del lager, e fu questa circostanza a salvargli la vita). Chi ha toccato il fondo non è tornato per raccontare: “La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte”.

Ogni tipo di discorso sui lager ha dunque chiari limiti oggettivi ed è irrimediabilmente parziale.

Dopo questa fondamentale osservazione preliminare, I sommersi e i salvati passa poi a occuparsi di una questione delicatissima. Un discorso che solo un ex recluso come è stato Primo Levi poteva coraggiosamente fare. 

Nei lager sono state infatti registrate – anche se è una cosa di cui si parla poco – varie forme di collaborazionismo da parte dei detenuti, anche ebrei, nei confronti delle autorità naziste. Il caso più clamoroso fu quello dei reclusi addetti ai forni crematori, ma non fu l’unico: pensiamo per esempio anche ai Kapò (prigionieri di rango un po’ elevato rispetto agli altri che si trasformavano in aguzzini).

Primo Levi ci invita a essere prudenti nei giudizi in merito al comportamento di queste persone, ricordandoci che erano sottoposti a pressioni ambientali immense, e queste forme di collaborazionismo consentivano di ottenere un pasto migliore, che in quelle condizioni poteva voler dire sopravvivere settimane, se non mesi, in più. E Primo Levi riconosce che “è retorico e falso sostenere che [nei lager] abbiamo sempre e tutti seguito il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici”.

Successivamente I Sommersi e i salvati passa a occuparsi della ben nota questione se i tedeschi avessero saputo o meno dell’esistenza dei lager.

Il contributo di Primo Levi alla questione è imperniato sull’osservazione che i lager non erano mondi nettamente separati dal resto del territorio, ma erano strettamente legati alle zone in cui sorgevano. Tutti i reclusi erano costretti a lavorare per aziende che si servivano della manodopera a costo zero che essi rappresentavano. I lavori erano compiuti sotto la supervisione di tecnici di tali aziende. Gli scambi tra interno ed esterno dei lager erano dunque molto più numerosi di quanto non si ritenga di solito.

I lager erano talmente legati alla zona dove sorgevano che fu possibile – Levi ne fu testimone – che un internato riuscisse ad abbonarsi, e poi a ricevere regolarmente tutti i giorni, il “Völkischer Beobachter”, cioè il quotidiano ufficiale del Partito Nazista, grazie all’accordo con un abitante della zona.

Dipendenti delle aziende e abitanti della zona, d’accordo. Ma non solo. C’erano anche i tedeschi addetti al rastrellamento, quelli addetti al trasporto e quelli addetti alla sorveglianza degli ebrei.

Levi ricorda poi di aver trovato negli archivi nel lager poco dopo la liberazione migliaia di moduli che famiglie tedesche avevano compilato per prendere possesso del vestiario sequestrato agli ebrei.

Levi infine ricorda anche che l’azienda che progettò e costruì i forni crematori (azienda che fu attiva ancora per molti anni dopo la fine della guerra) non poteva essere all’oscuro del loro utilizzo.

I tedeschi dunque sapevano dell’esistenza dei lager. Lo sapevano, e lo sapevano in tantissimi, ma per convenienza, pigrizia, viltà, interesse o cinismo fecero finta di non vedere.

Se i colpevoli hanno di certo alimentato dopo la guerra la leggenda dei “tedeschi che non sapevano”, anche altre fonti hanno contribuito, talvolta involontariamente, a diffondere ricostruzioni degli eventi non filologicamente corrette.

Il cinema è una di queste fonti.

Un esempio banale: il termine “Kapò” in realtà non fu praticamente mai usato nei lager, ma fu una costruzione successiva diffusa dal film Kapò di Pontecorvo del 1959 (nei lager esisteva tutto un gergo, una lingua vera e propria, che dopo la guerra divenne anche oggetto di studi da parte di linguisti).

Un altro esempio, questa volta meno banale: spesso si assiste a ricostruzioni delle liberazioni dei campi corredate da esplosioni di gioia degli internati, e pensate per esempio al film La vita è bella  (girato molti anni dopo la morte di Levi).

Ciò in realtà non accadde mai. Si tratta di un consolidato stereotipo. E gli stereotipi a proposito della Shoah sono moltissimi.

Levi ne smonta tutta una serie che ha sentito enunciare in decenni di incontri con i lettori e con gli studenti. Tali stereotipi erano (e sono) frutto di una visione distorta degli eventi incapace di cogliere la complessità delle vicende storiche e la complessità della variabili allora presenti, in favore invece ancora una volta di una visione astratta e semplificata.

“Perché non siete fuggiti?” e “Perché non vi siete ribellati?” sono le domande più comuni che gli sono state rivolte. Levi ha buon gioco nel dimostrare come la visione di un prigioniero integro, nel pieno possesso cioè del suo vigore fisico e morale sia un’invenzione schematica che non tiene conto della realtà dei fatti, che era invece fatta di uomini fortemente denutriti, malvestiti, che spesso non parlavano la lingua locale, che calzavano zoccoli di legno in un campo dai recinto elettrificato con torrette di guardia dotate di mitragliatrici e vigilato da cani addestrati, in aree poi dove l’antisemitismo della popolazione era molto presente. Le evasioni furono pertanto poche, pochissime quelle che riuscirono. Le ribellioni di massa si possono contare sulle dita di una mano: nessuna fu vincente.

Un altro stereotipo è: “Perché non siete scappati prima?”. Con il senno del poi è facile ragionare così. Viaggiare negli anni Trenta, con le frontiere sostanzialmente chiuse, non era facile. In ogni caso qui Levi riconosce che segni premonitori dell’Olocausto c’erano stati, ma tante, tantissime persone, preferirono non vederli perché all’epoca emigrare era una scelta enorme, senza ritorno (che tuttavia molti fecero o furono costretti a compiere). Ma Levi ci invita a guardare al presente: anche oggi spirano forti venti di guerra. Un giorno qualcuno potrebbe chiederci: “perché non ve ne siete andati prima in Australia?”.

primo levi i sommersi e i salvati einaudiNell’ultimo capitolo, Levi racconta infine delle lettere che ha ricevuto dalla Germania dopo la pubblicazione in quel paese del suo romanzo Se questo è un uomo. C’è un encomiabile tentativo di capire le posizioni altrui, ma anche l’amara constatazione che le lettere di pentimento gli sono state scritte dagli innocenti, non dai colpevoli.

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 197 pp., 11,00 euro

 

Gli autori di Vorrei
Juri Casati
Juri Casati

Classe 1975, lavora in un'Agenzia per il Lavoro. Laureato in Filosofia, è autore di numerosi racconti di genere horror, gotico, fantastico e fantascientifico. Coltiva interessi in ambito storico e di filosofia della scienza

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