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La questione dei maestri, adulti significativi e dotati di carisma che incrocino il loro destino con quello dei ragazzi, è centrale per chi si occupa di relazione educativa con gli adolescenti. Una porta di accesso più concreta alle modalità attraverso le quali possiamo aiutare un ragazzo a sostenere la battaglia per la costruzione della sua individualità.

 

Per gentile concessione dell'autore e dell'editore Novecento pubblichiamo un intero capitolo di Il miele e l'aceto, libro in cui Lamberto Bertolé (insegnante, presidente della cooperativa Arimo e oggi presidente del Consiglio comunale di Milano) fa un invito, come dice don Gino Rigoldi nell'introduzione «gli adulti devono riprendersi quel senso di responsabilità nei confronti delle nuove generazioni che, a guardare la società italiana degli ultimi anni, è venuto a mancare.»

 

Maestri

 


“Non avere maestro è non avere a chi domandare e, in un senso ancora più profondo, è non avere nessuno davanti a cui porsi delle domande”.
Maria Zambrano

 

Per definizione maestro è colui che conosce tanto a fondo una qualche disciplina da possederla e da poterla insegnare ad altri. Vorrei andare oltre questa definizione e chiamare “maestro” non tanto colui che ha a che fare con conoscenze e discipline, quanto con l’incarnazione di una costellazione di valori e stili di vita e con l'apertura di nuove strade. Maestro è colui che apre una porta, che consente di mettere a fuoco una soglia e quindi di varcarla. L'incontro con il maestro è l'esperienza che rivela un’inedita prospettiva nell’esistenza. È l’occasione preziosa. Ognuno di noi, a un certo punto della sua vita, ne ha sentito un gran bisogno e, purtroppo, non è detto che questo incontro sia avvenuto.

La questione dei maestri, adulti significativi e dotati di carisma che incrocino il loro destino con quello dei ragazzi, è centrale per chi si occupa di relazione educativa con gli adolescenti. È un tema che si intreccia a quello dell’identità e in parte lo anticipa, in quanto consente di declinare meglio il valore e il senso della parola “identità” per un adolescente, e rappresenta una porta di accesso più concreta alle modalità attraverso le quali possiamo aiutare un ragazzo a sostenere la battaglia per la costruzione della sua individualità.

 

La rivelazione di prospettive

Un ragazzo adolescente incontra quotidianamente adulti che si occupano di lui, e ogni giorno si pone la domanda di chi siano, a cosa pensino gli adulti che ha davanti, perché abbiano scelto di fare quello che fanno. È una domanda centrale, perché la qualità della risposta è decisiva per capire quali opportunità hanno gli adolescenti di liberarsi dall’ambiente e dal destino rappresentato dal contesto familiare. Un ragazzo si pone istintivamente la domanda sul valore degli adulti che incontra al di fuori della famiglia. Ha bisogno di calamite esterne, di fattori di rottura che lo portino in altre direzioni, affinché la sua identità possa definirsi, senza venire schiacciata sui modelli preesistenti all’interno della famiglia.

Tutti i ragazzi implicitamente cercano dei maestri. Nel periodo decisivo della crescita verso l’età adulta, le domande rispetto a “chi sono?”, “chi sarò?”, sono ineludibili, invadono i pensieri e le veglie degli adolescenti. Si desidera incontrare figure adulte che non si adagino sulle nostre esigenze e richieste, che non si conformino a quello che siamo ma che al contrario ci stimolino, ci provochino, ci facciano sognare. Spesso poi, nella realtà, arriva la disillusione. Il rischio, a mio parere, è che la disillusione rispetto al mondo degli adulti sia tanto forte da portare i giovani a non sperare nemmeno più di poter incontrare sulla loro strada dei maestri.

Il rischio è che la disillusione rispetto al mondo degli adulti sia tanto forte da portare i giovani a non sperare nemmeno più di poter incontrare sulla loro strada dei maestri.

Pensando alla mia esperienza, posso dire di avere avuto la fortuna di incrociare nella mia vita quattro o cinque persone che hanno plasmato profondamente i miei valori, il mio stile comunicativo e di pensiero, aprendo davanti a me sentieri, possibilità e ambizioni che non immaginavo esistessero.

Quando sono entrato nel mondo della scuola da studente, ero aperto e fiducioso, avevo la grande speranza che in quel luogo avrei fatto degli incontri significativi. Per fare un esempio, il giorno precedente la mia prima lezione di filosofia – non sapevo neanche cosa fosse la filosofia ed ero affascinato da quella parola tanto evocativa, originale – ero molto curioso e carico di aspettative. La speranza non è andata delusa. La mia professoressa di filosofia mi ha introdotto a valori totalmente nuovi e impensati. Arrivavo da una famiglia medio borghese, liberale, un po' conservatrice, lei mi parlava di socialità, di cambiamento, di cosa fosse la sinistra, e così via – erano idee che rispondevano pienamente alla mia identità e le ho scoperte grazie a quell’incontro.

 

Aperti e in attesa, ancora?

Ero aperto e in attesa, come credo siano tutti gli adolescenti e, come loro, in altre occasioni ho sperimentato la disillusione perché di fronte c’erano adulti incapaci di far sorgere domande e diventare punti di riferimento.

Oggi la disillusione dei ragazzi mi sembra più diffusa, soprattutto a scuola, dove arrivano mettendo in conto che non troveranno granché, di sicuro non i modelli di cui hanno bisogno. Esiste una questione generale, forse, che riguarda le aspettative dei ragazzi sul mondo degli adulti. Ho l’impressione che si aspettino sempre meno qualcosa di forte da loro: non li temono più, li rispettano  e li cercano meno e sono anche meno in conflitto con loro. È come se il mondo degli adulti fosse svuotato di carisma, di alterità, di forza agli occhi degli adolescenti. In questa riduzione di ruolo, i giovani investono di meno e si limitano ad aspettarsi dagli adulti funzioni di servizio – che diano una mano, un consiglio, senza più quell’enfasi e anche quella distanza che caratterizzano la fascinazione.

 

Maestro e padre

Potremmo chiederci che relazione esista tra la figura del maestro e quella del padre. La palese carenza di maestri sulle strade che percorrono istituzionalmente i nostri ragazzi ha qualcosa a che fare con la lamentata assenza della figura del padre? Credo di no. Anche in base alla mia esperienza personale, ho sempre sentito il maestro in alterità al padre – come qualcuno che porta fuori da un contesto noto, controllato, di formazione, di civilizzazione. Non è quell’ingresso nel mondo reale che solitamente viene mediato dai genitori. L'esperienza del maestro ha a che fare con un’uscita imprevista e piena di possibilità di solito non presenti in ambito familiare. Un contatto meno protetto con il mondo al di fuori, una forte esperienza dell'altro.

Maestro può essere l'insegnante, l'educatore, l’allenatore sportivo: quella figura di riferimento esterna che genera un movimento che porta a mettere in discussione anche la figura paterna.

Credo sia molto “sana” quella fase in cui l'adolescente attraversa un conflitto – a volte solo interiore e a volte, invece, assolutamente manifesto –, tra quello che, al di fuori dalla famiglia, rappresenta il maestro, e quello che al suo interno incarna il padre. Quel padre che voglio immaginarmi a capotavola, la sera a cena, ancora saldo nel suo ruolo ma che subisce le prime prove di delegittimazione. Il maestro può anche svolgere una funzione di risarcimento. In presenza di una relazione non positiva con il padre, a fronte di delusioni e mancanze che derivano dalla figura paterna, il maestro si trova a incarnare una funzione sostitutiva inducendo a fare scelte e a trovare strade in autonomia.

Maestro può essere l'insegnante, l'educatore, l’allenatore sportivo: quella figura di riferimento esterna che genera un movimento che porta a mettere in discussione anche la figura paterna. Una corrente tanto forte da generare spesso una proiezione per cui si vorrebbe che il maestro fosse il proprio padre e, viceversa, che il padre fosse anche un po' maestro.

 

Il carisma e il rischio

Ma cos'è il carisma del maestro? E come possiamo cercare di definire quella componente quasi ineffabile che sembra inseparabile dal concetto di maestro? Che cosa è proprio del maestro? Quali le sue qualità, affinché possa davvero aprire soglie davanti a noi, lasciando intravedere possibilità che prima non avevamo considerato?

Perché quell’adulto, uno dei tanti che un ragazzo trova a scuola, in un’associazione, in un centro sportivo, improvvisamente si distingue da tutti gli altri e diventa tanto importante ai suoi occhi da poter essere decisivo per il suo destino e per la strada che sceglierà?

Perché è un adulto che ha fatto e fa delle scelte, perché ha coraggio e orgoglio della sua identità, delle sue convinzioni. Perché è capace di sedurre, anche, e gestisce con autorevolezza le relazioni con i giovani che gli sono affidati. Perché provoca e sfida. Perché pone domande, mette in discussione. Perché ha una sua originalità, un suo anticonformismo. Rappresenta un controcanto rispetto al quotidiano, al prevedibile. Nella fase di ricerca della propria identità, incontrare qualcuno che sia capace di raccontarti, e “cantarti”, in un modo diverso le possibilità che si aprono nella tua vita, è forse quello che ogni ragazzo cerca, di sicuro quello di cui avrebbe bisogno. Un insieme di fattori che determinano l'affidamento che l’adulto provoca nell’immaginario del ragazzo.

Nella fase di ricerca della propria identità, incontrare qualcuno che sia capace di raccontarti, e “cantarti”, in un modo diverso le possibilità che si aprono nella tua vita, è forse quello che ogni ragazzo cerca, di sicuro quello di cui avrebbe bisogno.

Non è difficile rammentare momenti della nostra storia recente in cui la figura del maestro ha assunto anche ruoli preoccupanti, fuori controllo, rappresentando anche una suggestione negativa nei confronti dei ragazzi, un potere che sembrava vincolarne l'autonomia anziché promuoverla. Mi vengono in mente le prime comunità per tossicodipendenti. Chi controlla, chi dà autorevolezza al maestro? La sua figura comporta anche un certo margine di rischio. Le possibilità di manipolazione legate all'influenza ideologica, culturale che il maestro può esercitare con il suo potere è incontrollabile, perché la dinamica che si sviluppa tra maestro e allievo è fatta anche di affidamento e subalternità – fattori che possono impattare anche negativamente sull'autonomia delle scelte di un ragazzo. Sono elementi molto difficili da controllare, occorre prendere atto che il rapporto tra maestro e allievo non è istituzionalizzabile.

Esistono infatti anche “cattivi maestri”, certo, i quali hanno a che fare con un simbolismo negativo che riflette disagio, sfiducia nei confronti delle istituzioni e dello Stato. Penso alla cultura mafiosa, devastante, alimentata anche da certo cinema. Tutte le fasi della storia si sono confrontate con suggestioni e idoli assolutamente nefasti, da stigmatizzare. Ma questi non li chiamerei maestri, piuttosto, appunto, idoli. Non danno risposte al disagio sociale, alla frustrazione, al senso di ingiustizia che si prova di fronte a un mondo squilibrato, con così grandi disuguaglianze e differenze. Il loro influsso, il loro esempio, al contrario di quello di un vero maestro, non consente un cambiamento di paradigma.

Così come si "ammazzano" i padri, a un certo punto si ammazzano anche i propri maestri. La fase di conflitto e di disillusione rispetto al proprio maestro è un elemento necessario. Non esistono maestri a vita. A un maestro se ne sostituisce un altro, secondo il percorso evolutivo del giovane.

Chi incarna questo ruolo, a questo punto, quando la sua funzione viene “superata” per i nuovi bisogni che si producono nella crescita del giovane, può provare una sensazione di tradimento. Occorre vivere questa parte con leggerezza, un po’ come fanno quegli insegnanti che sono consapevoli delle proprie potenzialità e dell'altissima rilevanza che il loro insegnamento ha per gli studenti, i quali, allo stesso tempo, non dimenticano che il loro ruolo è definito nel tempo. Sono consapevoli che un giorno l'incanto si attenuerà, finirà, che usciranno dalla vita reale dei loro allievi e continueranno a vivere nel loro immaginario. È un premio altissimo per il lavoro e per la funzione che hanno svolto. I bravi maestri ne hanno coscienza e non forzano le situazioni, quando sentono che è arrivato il momento del distacco. Come diceva don Milani, “Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere.”

Se penso ai miei maestri, conclusa la fase più intensa della relazione, fatte le mie scelte e presa una strada che mi allontanava da loro, non hanno tuttavia smesso di essere molto presenti dentro di me. Questa è una certezza che alimenta il mio rapporto con gli adolescenti e quello che cerco di rappresentare per loro.

 

Maestro e insegnante

La relazione tra maestro e insegnante, inteso quest'ultimo nel suo ruolo più istituzionale, è simile a quella che esiste tra educazione e istruzione. L'atto educativo fonda l'atto della conoscenza, crea la possibilità dell'istruzione.

Il mondo della scuola negli ultimi decenni ha subito una profonda trasformazione. Il corpo insegnante del nostro paese non ha più quel riconoscimento sociale che aveva un tempo, questo è sotto gli occhi di tutti, ma quello che più mi colpisce è la diffusa mancanza di autostima tra i professori. La loro auto-svalutazione impressiona ancora di più della svalutazione che riserva loro il mondo esterno. Una persona convinta della propria funzione, anche al di là del riconoscimento pubblico o sociale, può dedicarsi con passione, determinazione, orgoglio al proprio lavoro. Se penso ai contesti scolastici che ho frequentato, rivedo in alcuni dei miei colleghi sintomi di una profonda auto-svalutazione, evidente già a partire dai loro abiti, così desueti, così spenti. Solo una parte degli insegnanti, mi costa ammetterlo, erano palesemente coscienti e motivati dalla missione culturale e educativa loro affidata. Una minoranza spesso non abbastanza consapevole dello spazio e del ruolo che potrebbe giocare per accendere passione e motivazioni tra i colleghi disillusi, e non tanto facendo leva sul sapere, sul livello delle conoscenze, quanto “contagiandoli” con la loro capacità di cogliere quell'occasione unica di confronto e di crescita condivisa, che rappresenta il cuore dell'esperienza scolastica.

La disistima porta a un disinvestimento su di sé, sul proprio ruolo, ad evitare di ingaggiare relazioni forti e autorevoli. Certo, il gesto educativo è un presupposto dell'azione formativa, ma perché avvenga occorrono consapevolezza e intenzionalità. Vedo sempre più uno schiacciamento del ruolo dell'insegnante nell'adempimento di una funzione che si limita alla trasmissione e alla valutazione di meri contenuti. Ogni insegnante è un potenziale maestro, ma lo può diventare solo attraverso uno smarcamento decisivo rispetto ai suoi obblighi formali.

I maestri possono anche essere inconsapevoli del loro ruolo. In genere, poi, sono coscienti dei propri limiti, anche di quelli della propria conoscenza. Nel “sapere di non sapere” vedo una profonda sicurezza di sé, un’idea forte della profondità e del valore della conoscenza. Il maestro si espone, dà sicurezza a partire dalla propria conoscenza, che intreccia inseparabilmente saperi astratti ed esperienza di vita, ma non illude, perché la sua relazione con le persone che gli stanno attorno è senza schermo. Non sta più dietro aduna tenda, come ai tempi di Pitagora. Il maestro agisce nella relazione, si sporca le mani, si espone a un rispecchiamento.

 

Una scintilla nella cenere

I ragazzi hanno bisogno di maestri, abbiamo detto, ma non si può diventarlo, ai loro occhi, se nella vita non si sono fatte scelte importanti, se non si hanno passioni da mettere in campo, una concezione e un pensiero preciso rispetto al mondo: un'opzione forte, un punto di vista non neutro, non distaccato. Chi ha un rapporto poco inquieto con la propria esperienza non può svolgere questo ruolo.

Una scintilla nella cenere, basta anche solo far cadere una scintilla. Una scintilla che deriva da una passione per un'arte, per una disciplina, per un'attività. Una scintilla che toccando il cuore dei ragazzi troverà il suo tempo per svilupparsi.

Ho recentemente incontrato un insegnante di storia dell'arte, diventato ormai un amico. Sono andato a casa sua e sono rimasto colpito dal constatare quanto l'arte sia centrale nella sua vita. Ho visto suoi quadri e sue opere ovunque. La sua passione e il modo in cui la coltiva sono talmente forti che il suo sogno, quella parte di sogno che compone la sua personalità, trapela in ogni sua relazione. La sua ricerca nel campo dell'arte è una cosa che trasmette a chiunque entri in rapporto con lui. Ha energia, passione, e un'opzione forte sul mondo, che trasmette senza forzature ma con determinazione ai suoi studenti. Può farlo perché in lui esiste una formidabile scintilla che lo mantiene alla ricerca del suo puer, della parte di sé legata al sogno.

Una scintilla nella cenere, basta anche solo far cadere una scintilla. Una scintilla che deriva da una passione per un'arte, per una disciplina, per un'attività. Una scintilla che toccando il cuore dei ragazzi troverà il suo tempo per svilupparsi.

La passione che caratterizza il maestro, trasferita nell'allievo apre il desiderio di futuro.

 

Una scuola che sia maestra

È uno di quegli insegnanti che, nonostante la politica abbia disinvestito sulla scuola, nonostante le mille inutili riforme, hanno tenuto viva questa istituzione. Questo è potuto accadere perché nella scuola esiste un corpo docente sano, forte. Questo è indubitabile. Voglio citare la cultura antimafiosa, uno dei tanti possibili esempi, che è stata promossa in molte scuole d'Italia, lo è stata indipendentemente da indirizzi e linee ministeriali. È avvenuto dal "basso" degli insegnanti, dal passa parola. I docenti si sono fatti promotori di incontri con testimoni, all'interno degli istituti, e così facendo hanno costruito un tessuto antimafioso molto saldo nel nostro paese.

La scuola è stata davvero tenuta insieme da quella spina dorsale che sono gli insegnanti.

La scuola è stata davvero tenuta insieme da quella spina dorsale che sono gli insegnanti. Questo ci dice che esistono grandi possibilità. Che si potrebbe fare molto di più con un forte investimento non solo in riferimento al riconoscimento economico, ma anche sulla selezione in ingresso e sulla supervisione, per non lasciarli soli. La mia impressione, infatti, è che gli insegnanti nelle sfide decisive che devono affrontare, vengano lasciati sostanzialmente soli. Occorre un grande investimento che porti a una rinnovata consapevolezza del loro compito primario, un sostegno continuativo nella gestione delle loro funzioni, e forse anche qualche meccanismo che consenta possibilità di uscita dal mondo scolastico per coloro che capiscono di non avere quella vocazione.

Gli studenti di un liceo nell'arco di un paio settimane conoscono tutti gli insegnanti, e in due settimane hanno già capito tutto di loro. Sanno con assoluta certezza chi ha stoffa e crede nel proprio lavoro, chi è lì malgrado tutto, chi è in burn out, e così via. Hanno uno sguardo clinico, e la situazione facilita il loro giudizio, perché un insegnante quando entra in classe è nudo, viene messo a nudo. Questo, a ben guardare, vale non solo per i ragazzi del liceo ma anche per quelli delle medie e delle elementari. Ogni volta che parlo con dei bambini e mi faccio raccontare come va la scuola, mi fanno un quadro realista, lucido, a volte impietoso, dei loro maestri. Sanno chi vale e chi non vale.

Se i bambini e gli adolescenti in pochi giorni riescono a “valutare” chi hanno di fronte, non è possibile che l’intero sistema sia ancora bloccato sulla questione della valutazione degli insegnanti, che resta un tabù. Se la scuola deve essere al servizio dei suoi studenti, e non dei suoi insegnanti, è fondamentale e necessario trovare dispositivi che consentano di non dare questa grandissima responsabilità di contatto e relazione con i ragazzi a persone che non possono sostenerla. Non è solo una questione di responsabilità ma anche di non perdere un’occasione: mettere un adulto, che non sia la persona giusta al posto giusto, per 200 ore all'anno davanti a 30 studenti, magari in cinque classi, quindi a contatto con 150 studenti, è un’occasione che quei ragazzi perdono. È terribile, visto poi che esistono persone motivatissime che non riescono ad entrare nel mondo della scuola.

Non possiamo non porci il problema della differenza di genere nel mondo della scuola. Per ragioni storiche e sociali, oggi il corpo docente è composto in gran parte da donne, le statistiche più recenti del Ministero dell’Istruzione indicano un’incidenza che sfiora l’80%. Questa femminilizzazione del luogo dell’apprendimento, limita le possibilità di rispecchiamento degli studenti maschi.

In questo contesto, io penso che un ulteriore elemento di criticità del sistema scolastico sia rappresentato dalla scuola media inferiore. Andrebbe ripensato il suo senso. Al suo interno ho conosciuto persone che si spendono come eroi per non far perdere ai ragazzi la loro grande possibilità di accedere alla formazione superiore, a fronte di bullismo, disorganizzazione, mancanza di risorse e di un corpo insegnante, in certe situazioni di frontiera, completamente assente.

A questo punto, potremmo chiederci: cosa può fare la società per favorire la presenza dei maestri innanzitutto nella scuola ma, in generale, nelle situazioni in cui i giovani si trovano a contatto con gli adulti?

Nell'abilitazione all'insegnamento non ci si occupa di valutare le competenze relazionali.

Credo che il nodo della questione sia quello che spesso sottolinea Don Gino Rigoldi nei suoi interventi. Per assumere un ruolo educativo o formativo, si richiedono in ingresso tante competenze formali, tanti titoli, ma non si esige dagli adulti capacità di relazione con i ragazzi. Nell'abilitazione all'insegnamento non ci si occupa di valutare le competenze relazionali. Non vedo investimenti sulla capacità di relazionarsi e, più in generale, mancano investimenti strategici sulla funzione educativa nella nostra società. Per quel retaggio culturale familistico che ancora caratterizza il nostro Paese, spesso tendiamo a delegare all'esterno della famiglia, ai contesti formativi, solo un compito di trasmissione di conoscenze e quello accessorio di "occupazione del tempo" , ma non la funzione educativa. Avremmo invece bisogno di adulti che svolgano con un mandato chiaro, consapevolezza e competenza proprio questa funzione, soprattutto in quelle parti della società in cui esistono meno occasioni e opportunità.

 

I maestri nella società

Fino a una generazione fa, l’uscita dal proprio ambiente era facilitata dalla presenza di figure pubbliche simboliche. Per molte generazioni anche la società e la politica è stata infatti un luogo in cui incontrare maestri. La nostra storia repubblicana è fatta di personalità che si sono spese e sacrificate per la collettività. Se penso alla mia esperienza, ritorno con i ricordi al '92, al '93, alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Tantissimi ragazzi andavano alle manifestazioni innalzando le fotografie di Falcone e Borsellino, leggevano i loro libri. Questo riferimento per dire che in quegli anni il mondo pubblico, e la stessa politica, offrivano figure importanti, tanto da poter diventare punti di riferimento per un ragazzo. La società, in quel momento, aveva ancora al suo interno veri e propri maestri. Erano figure non vicine, con un portato simbolico molto potente. Oggi, e vorrei che l'attualità presto mi smentisse, mi sembra si stia creando un vuoto. Se isoliamo personalità che possono essere un riferimento anche ideale, maestri che non stanno nella relazione quotidiana ma che delineano con le loro posizioni un orizzonte di crescita e di confronto, rischiamo di ritrovarci con un cielo più vuoto. Diventa difficile orientarsi, avere prospettive. Credo che le nuove generazioni abbiano bisogno di poter contare su un cielo stellato, magari con altre stelle rispetto a quelle che hanno appassionato noi, ma comunque stellato.

Il maestro è una persona che insinua il dubbio, che fa nascere il sogno di uscire dalla propria vita abituale, da una prospettiva limitata al grande formicaio dell'anonimato.

Il maestro è una persona che insinua il dubbio, che fa nascere il sogno di uscire dalla propria vita abituale, da una prospettiva limitata al grande formicaio dell'anonimato. Spinge a lasciare un segno nella storia. Il maestro è uno che ha provato a cambiare la storia e dice che, forse, la storia si può davvero cambiare. Mette in te questo piccolo tarlo. Fa in modo che tu ti interroghi, ti chieda chi sei e cosa puoi fare nella storia degli uomini. Quale sia il tuo posto. È la domanda che ha mosso chi, in grande o in piccolo, ha fatto qualcosa per la società, a partire da una domanda di senso verso la propria esistenza. Non occorre essere pazzi visionari o avere un ego smisurato, per porsi questa domanda, perché ciascuno di noi ha un posto nella storia. Incontrare personalità che siano riuscite a incrociare la storia con la propria esperienza, facendo scelte, incarnando ideali, rappresentando mondi possibili, diventa un fattore evolutivo potentissimo per un ragazzo, che è l'essere più di tutti aperto al possibile e al fascino dei grandi ideali.

Oggi l'impoverimento è evidente, come se fosse all'opera un grande tritasassi che sta facendo piazza pulita di tutto, a eccezione di alcuni miti intoccabili. Pur con le loro contraddizioni, tante figure della nostra storia recente a mio parere restano dei maestri a cui guardare.

Il sacrificio personale, almeno potenzialmente, mi sembra una componente imprescindibile della figura del maestro. Nel maestro, nella sua determinazione, si percepisce la possibilità del sacrificio: credere a un valore, a una passione, a un'idea, anche al prezzo della propria vita. Parlo in questo caso di figure storiche. Il loro esempio scuote da un orizzonte più individualista, dal piccolo corso del quotidiano.

 

Aver soggezione. Rompere il cerchio

La figura del maestro richiama il tema del mito ma anche quello della riverenza. Il maestro è qualcuno verso cui si prova anche una certa riverenza. E questo non vale solo in riferimento alle grandi personalità pubbliche, cui ci possiamo ispirare, ma anche in rapporto a quelle grandi persone che possiamo incontrare nel piccolo delle relazioni che si sviluppano ogni giorno nei contesti educativi. Nei confronti del maestro è giocoforza provare un po' di deferenza.

Se pensiamo alla storia con la esse minuscola, quella che si sviluppa nel quotidiano delle nostre esistenze, non meno impegnativa dell'altra, la persona che nel quartiere, nell’associazione, nella scuola che frequentiamo è diventata ai nostri occhi un maestro –a un altro livello, certo,  rispetto alle figure pubbliche cui mi riferivo sopra –, è di sicuro un uomo che nella sua esistenza ha tracciato un percorso originale.

L'azione di un maestro su un ragazzo è quella che rompe il cerchio dell'individualismo e di un orizzonte miope e quotidiano. Ha un effetto di rottura. Se non vuole cambiare il mondo un ragazzo di quindici anni, chi altri può volerlo? Sul manuale di un monastero buddista ho letto un pensiero che mi ha molto colpito, più o meno diceva: è difficilissimo proporre oggi ai giovani di sognare, perché sembra che tutto sia già accaduto. Noi potevamo sognare di andare sulla Luna, ma oggi che questo è già successo, cosa possiamo sognare? Noi rischiamo di condannare i giovani a una dimensione priva di sogni importanti, a una vita fatta di realismo, di cose raggiungibili, a portata di mano, in grado di soddisfare tutto l'universo dei loro bisogni. Un'affermazione volutamente paradossale e riduttiva, perché non tiene conto dei grandi bisogni di senso e di interrogazione che ognuno ha, sempre e comunque, in ogni epoca, in rapporto al mondo e alla storia, soprattutto i giovani.

Dire questo, pensando alle grandi sofferenze o ai limiti che vivono molti ragazzi in certi nostri quartieri e in tante parti del mondo, non significa affermare una visione elitaria. L’urgenza di senso riguarda anche quelle moltitudini di giovani costretti da orizzonti molto ristretti, con pochissime occasioni e possibilità, i quali hanno anzitutto bisogni legati a mancanze di risorse materiali e di servizi. Questo è certo l'obiettivo primario, sopravvivere e vivere, mai disgiunto però dall'altro più grande, relativo al loro diritto di potersi confrontare con la storia e con il cambiamento.

 

Oltre la retorica della crisi

Negli ultimi dieci anni si è prodotto un fattore retorico nuovo. Quello della crisi. Certamente la situazione contingente presenta elementi che la giustificano. Una retorica che può essere tanto forte proprio in quanto basata su un fatto incontrovertibile: oggi il mondo offre apparentemente meno opportunità e possibilità. Ma questa retorica alimenta la disillusione, e la disillusione spegne le energie, generando un circolo vizioso senza vie d'uscita. Penso ai ragazzi di quinta liceo. Verso febbraio, marzo, mi capita di chiedere loro cosa pensano di fare l'anno successivo. In genere a questa domanda colgo imbarazzo, gli sguardi si voltano da un'altra parte. Quando toccava a me di scegliere, la mia difficoltà era opposta: troppe erano le cose che avrei voluto fare, e farne una non mi avrebbe consentito di fare le altre. Poi qualcuno mi ha insegnato che crescere significa tagliare. Scarti possibilità, decidi, e la cosa che rimane potrà crescere e svilupparsi, liberata da una marea di possibilità che la soffocavano. Adesso invece nella maggior parte dei miei studenti vedo l'ansia dell'uscita dal grembo protettivo della scuola superiore. Questa difficoltà viene alimentata, appunto, dall'enfasi posta sulla retorica della crisi. Le difficoltà sono evidenti, non si scappa. Oggi il meccanismo per cui i figli guadagnavano più dei padri si è rotto bruscamente. I problemi dell'economia ribaltano il punto di vista rispetto a una decina di anni fa. La possibilità che oggi un figlio possa comprare la casa ai genitori è quasi fantascientifica, ma abbiamo vissuto un periodo in cui questo accadeva.

Adesso invece nella maggior parte dei miei studenti vedo l'ansia dell'uscita dal grembo protettivo della scuola superiore. Questa difficoltà viene alimentata, appunto, dall'enfasi posta sulla retorica della crisi.

Eppure di fronte ai giovani bisogna mettere possibilità e non limiti. Il maestro è appunto colui che genera visione, fa vedere quello che non c'è ma che potrebbe esserci. Le persone dotate di visione sono quelle che di fronte a un prato ti fanno vedere un bellissimo giardino, un edificio oppure un bosco o una distesa di acqua. La capacità di produrre visione, una visione che entri in consonanza con le aspettative e i desideri di chi ascolta, è un grande dono. Forse è un bisogno che non si esaurisce mai, quello di incontrare qualcuno che l'abbia.

 

Comportamenti e credibilità

Con i ragazzi non basta parlare, occorre anche fare. La credibilità si acquisisce sul campo. Il maestro è questo, credibilità. Le sue parole di un adulto acquisiscono valore, vengono ascoltate in un altro modo se dietro di loro si riconosce uno spessore, un fondamento di vissuto: di esperienza. Per acquisire autorevolezza occorre essere persone che vivono con un proprio stile, che tracciano una direzione precisa all'interno dei contesti in cui si trovano a vivere.

L'adolescente ha bisogno di adulti che abbiano posizioni coerenti. Dietro la diffidenza, perfino il tabù che gran parte del mondo degli adulti ha nei confronti della parola "maestro", c'è anche la paura nei confronti di personalità forti, mentre i ragazzi hanno bisogno di posizioni radicali, assolute. Stimano l'insegnante originale, anche un po' matto, un po' fuori dal mondo, che magari vive in un modo poco credibile, ma convinto e appassionato. La sua determinazione fa acquisire fascino al suo campo di interesse, alla sua disciplina. Questo non ha come conseguenza immediata un desiderio di immedesimazione o rispecchiamento, però la stima che ne deriva è sicura.

Si prova rispetto per personalità che pongono domande, provocano stupore, e dimostrano coerenza tra quello che dicono e come vivono e si comportano.

 

Il bisogno di stima degli adulti

Il corrispettivo di tutto questo è rappresentato dal bisogno degli adulti di essere stimati. Chi opera all'interno di un contesto educativo ha bisogni affettivi, desidera essere stimato. È paradossale vedere, con uno sguardo esterno, come a volte gli adulti fanno l'esatto opposto rispetto a quello che porterebbe loro riconoscimento. Adulti che fanno sconti e si conformano ai bisogni superficiali dei ragazzi, che non dicono di no per avere approvazione e consenso, senza pensare che in questo modo ottengono un riconoscimento solo strumentale.

 

Oltre lo specchio

Il maestro me l'immagino con uno sguardo un po' sornione, vede ma dissimula il suo sguardo, si muove apparentemente senza curarsi degli altri, ma con la coda dell'occhio osserva che ci sia qualcuno che lo segua. Va avanti, va per la sua strada, ma sente che qualcuno è sui suoi passi. Ha consapevolezza del proprio ruolo.

Ci sono insegnanti che fanno lezione come se avessero di fronte uno specchio. Non vedono gli allievi. Mettono in scena un'esibizione di contenuti senza capire che chi ascolta ha una percezione totalmente differente dalla loro. Il maestro, al contrario, quando si rivolge agli allievi, infrange questo specchio.

Dietro allo specchio c’è un gruppo fatto di singoli con le loro idiosincrasie. Bisogna anche saper gestire l'imprevisto: l'imprevisto domanda, dell’interruzione, della provocazione, di una qualunque cosa che improvvisamente può avvenire. Spesso è una sfida, se si rimane dietro allo specchio non la si coglie. Viene messa alla prova la capacità dell'adulto di rispondere. Un buon insegnante, un maestro, sa affrontare questa sfida, evita di girare la testa dall'altra parte. È uno degli altri banchi di prova del lavoro educativo e formativo. Non è necessario rispondere subito, necessaria è l’intenzionalità della decisione presa.

 

La valutazione di un maestro

Quello della valutazione è un tema importante. Anche in riferimento a questo la figura del maestro si distingue nettamente per le sue modalità di azione e di relazione. Perché anche il maestro valuta e, non teme di farlo, ma la sua valutazione si pone su un livello differente rispetto a quello dei giudizi formali.

Per entrare nella questione, voglio partire da quello che accade nella scuola. Sono convinto che una delle componenti più importanti del lavoro di insegnante sia la valutazione. Il docente non deve solo trasmettere competenze, fornire esperienze di apprendimento o educative, ma anche valutare. Vedo un mondo di insegnanti e anche di educatori che fanno molta fatica in questo. Vivono con sofferenza la valutazione. Tra i miei colleghi mi è capitato spesso di sentire frasi come questa: "Se non dovessi dare voti, se non dovessi fare gli scrutini, se non dovessi interrogare, sarebbe un lavoro fantastico". Io penso invece che la valutazione sia un passaggio fondamentale. Tutti noi viviamo in un intreccio di valutazioni. Autovalutazioni e valutazioni che arrivano dall'esterno. In continuazione riceviamo e produciamo giudizi. A volte consciamente, a volte inconsciamente – esiste inoltre un elemento inconscio di autovalutazione che ci condiziona molto.

Non si cresce senza la frustrazione, e anche la depressione, prodotta da una valutazione negativa, perché la valutazione negativa consente di comprendere i propri limiti, di darsi obiettivi, di confrontarsi con la realtà e di trovare strategie.

Un'esperienza strutturata di valutazione come quella che avviene nella scuola, in cui si usano addirittura dei numeri da zero a dieci, in cui c'è un giudizio di sintesi finale, un sì o no, promosso o bocciato, è una possibilità unica, in cui il mondo degli adulti si prende, con trasparenza, la responsabilità di dare una valutazione a un ragazzo. È un’importante occasione di crescita: il ragazzo si confronta con la realtà e non solo con la propria autovalutazione. Ha di fronte a sé un adulto che si prende la responsabilità di dirgli: "Questo che hai fatto vale 8, vale 2". Non si cresce senza la frustrazione, e anche la depressione, prodotta da una valutazione negativa, perché la valutazione negativa consente di comprendere i propri limiti, di darsi obiettivi, di confrontarsi con la realtà e di trovare strategie. La paura di valutare e anche l'incompetenza nel valutare, perché non si viene formati alla valutazione, è uno dei punti deboli del nostro sistema educativo e formativo. Si ha paura di dire di no. Invece dire di no,dire: “Non ci siamo!”, è un dovere da parte di chi deve valutare. Il giudizio è un diritto della persona valutata. Il buonismo del sei politico, che oggi ha preso altre forme, a mio giudizio è una grande occasione persa per aiutare i ragazzi a diventare più consci dei loro limiti e delle possibilità di superarli.

Per far comprendere meglio quello che intendo, sposto la questione sul piano del diritto minorile, facendo l'esempio della“messa alla prova”, quel meccanismo giuridico per cui, a fronte di un percorso in cui il giovane autore di reato si impegna a svolgere una serie di attività che attestino il suo recupero educativo, il reato stesso può essere cancellato. Oppure, al contrario, confermato, se il giudice valuterà negativamente il quanto fatto dal giovane. Credo, appunto, che se al termine di un percorso di “messa alla prova” non ci si prende la responsabilità di dire che è andata male, sia anche questa un'occasione evolutiva persa. Nel momento in cui nascondo la realtà a un ragazzo, e mi prendo la responsabilità di non valutare, non faccio più fino in fondo il mio mestiere educativo e formativo. Perdo l'occasione di rappresentare la realtà a un adolescente, che ne ha un grande bisogno. La realtà poi arriva da sola. Il futuro e la realtà, con le loro durezze,prima o poi arrivano, non possono essere procrastinati all'infinito. Se i ragazzi non giungono pronti a questo momento, consapevoli delle loro capacità, competenze, possibilità, rischiano uno scontro molto duro. Un fallimento con scarsi margini di recupero. Invece l'abitudine a crescere nel confronto e nella valutazione, nel fare i conti con i propri limiti prepara, con più strumenti e competenze, a misurarsi con il mondo reale.

Gli adulti non devono avere paura di valutare,tenendo sempre presente che non valutano le persone ma le prestazioni. Si valutano processi, compiti: interrogazioni, esercizi, una messa alla prova, cose che un ragazzo ha fatto, non si giudica lui nel suo complesso. Il tabù della valutazione deve essere superato.

Il maestro, in questa direzione, è una persona, al contrario, che sa valutare,sa dire: "No, su questa cosa non ci sei, devi lavorarci ancora". La sua valutazione, considerando anche il carisma che lo contraddistingue, senz'altro mette in soggezione, in crisi, ma è una crisi utile, costruttiva.

Gli adulti in genere hanno paura dei momenti di frustrazione e di ritiro dei ragazzi, come di solito avviene di fronte a una disillusione. Un genitore vede il figlio in quel momento di difficoltà e spaesamento e subito vorrebbe intervenire. In realtà momenti di solitudine e di confronto con la frustrazione, sono fondamentali per la crescita della personalità.

Bisogna insegnare ai ragazzi a tollerare le frustrazioni, che sono uno spazio,un tempo,un’occasione di vuoto in cui possono trovare da se stessi nuove strategie e motivazioni.

 

La forza per reagire

La capacità di reagire ai fallimenti con determinazione, credo abbia origine molto prima dell'adolescenza. Mi ha sempre molto colpito l'enfasi di certi genitori nel confermare le abilità straordinarie dei propri bambini, anche di fronte a prove mediocri: “Bravissimo, eccezionale”. Questa esagerazione, o mancata percezione della realtà, supera i limiti comprensibili dell'amore genitoriale e diventa quasi un atteggiamento patologico. Ingigantire la fiducia in se stesso di un bambino, significa limitare le sue capacità di tollerare in futuro la frustrazione. La mutazione avvenuta negli ultimi anni nella relazione con i figli, così come la descrive Gustavo Pietropolli Charmet, i quali non sono più piccoli esseri da civilizzare, da normalizzare – i figli di Edipo –, bensì figli di Narciso: incontaminati, puri, che richiedono accudimento, esseri naturalmente capaci di comunicare, di mettersi in relazione con noi, seducenti ma fragili, che richiedono protezione dalle insidie del mondo.

Come in una piramide rovesciata, una pletora di adulti si concentra oggi su questi pochissimi bimbi

Come in una piramide rovesciata, una pletora di adulti si concentra oggi su questi pochissimi bimbi, che sono il centro dell'attenzione, circondati da oggetti e cose che non fanno che confermarli nella loro importanza, una situazione rovesciata rispetto a quella di un tempo, quando i bambini dovevano sgomitare per attrarre l'attenzione dei pochi adulti che erano loro vicini.

Il maestro, al contrario, non incensa l'allievo ma mette alla prova continuamente le sue capacità. Non lo protegge dalla coscienza di sé che si produce nella sfida ai propri limiti. Lo incoraggia in questa sfida. Il maestro a differenza anche degli adulti un po' pedanti e petulanti che non riconoscono mai il valore di un ragazzo, è capace di individuare e riconoscere in un giovane talenti e meriti. Penso ai ragazzi che fanno fatica a scuola, che non posseggono i codici adatti, le abilità e gli strumenti adeguati per trovare una conferma sociale del mondo scolastico. In altri contesti possono invece incontrare qualcuno, appunto un maestro, capace di intravedere in loro doti, capacità, di valorizzarli e farli crescere.

Questa dote è il reciproco della sincerità nelle valutazioni negative: saper promuovere, dare fiducia ma con molta onestà, senza nascondere mai la realtà, facendo, quando è il caso, un gesto di grande apertura e investimento nei confronti dell'allievo.

 

I piccoli gesti che aiutano ad avere carisma

I ragazzi giudicano in continuazione gli adulti con cui hanno a che fare. Mi sono accorto per esperienza personale di come guardino, osservano, colgano di continuo cose di te. Mi è accaduto in comunità. Ho scoperto che i ragazzi conoscevano alcune mie abitudini, quasi dei tic, cose minime, ad esempio il modo in cui sbucciavo una mela,sembra incredibile, oppure sapevano interpretare un certo mio comportamento, ad esempio il fatto che un certa maniera di rispondere, per me apparentemente neutra, corrispondesse invece a un particolare umore. Cose banali, quotidiane, danno però l'idea che nella loro apparente esuberanza e distanza, i ragazzi in realtà osservano di continuo e vogliono capire, cercano di studiarti e di conoscerti.

Facendo leva su questo, un adulto può acquisire carisma e ruolo ai loro occhi, avendo cura anche di piccole cose, di gesti minimi.

Ho ricordato l'episodio delle mele perché io ho sempre preso in giro il modo in cui mio padre sceglieva e mangiava una mela. Nella cesta di quelle che aveva raccolto in campagna, cominciava da quelle mezze marce. Di conseguenza, aveva il piatto sempre strapieno di bucce. Sembrava che ne avesse mangiate una decina, mentre alla fine la parte salva che aveva mangiato era davvero poca cosa. Io l'ho sempre preso in giro per questo suo comportamento, sostenendo che avrebbe dovuto scegliere quelle al punto giusto della loro maturazione, perché con quel suo sistema alla fine le mele buone avevano il tempo di andare a male. Un giorno, in comunità, quando un ragazzo ha fatto la stessa osservazione guardando il mio piatto, mi sono reso conto che stavo facendo esattamente la stessa cosa che rimproveravo a mio padre.

Un’altra volta un ragazzo mi ha fatto capire che osservava il modo in cui salivo le scale in comunità. Era uno che sembrava assolutamente distaccato, quasi vivesse in un'altra dimensione. Un giorno si è avvicinato e mi ha detto che la mia camminata sulle scale gli dava sicurezza. Gli ho chiesto di descrivermela, e lui mi ha spiegato che camminavo con la schiena dritta. Sono sicuro che quella non fosse la mia camminata naturale. Era il modo in cui cercavo di camminare in quel contesto, in quel ruolo, perché a casa, per esempio, non salgo le scale a quella maniera. In certe situazioni si attiva come un sesto senso,quasi per istinto, un’intuizione legata al saper fare,non una cosa pensata deliberatamente. Da quel ragazzo ho ricevuto involontariamente un rispecchiamento e un insegnamento: la gestualità, i piccoli riti, certi atteggiamenti apparentemente trascurabili,contribuiscono a costruire un'aura intorno a una figura adulta, agli occhi di un adolescente.

A scuola, sospendendo la parte più didattica e di contenuto, molte volte mi è capitato di fare discorsi educativi, utilizzando immagini e ragionamenti volutamente provocatori. Mi ha molto colpito, anni dopo, rivedendo alcuni miei studenti, scoprire che il mio repertorio di aneddoti era assolutamente presente nei loro ricordi, in alcuni di loro quasi scolpito. Si ricordavano cose che avevo detto per sfidarli, facendo anche un po' l'istrione. Episodi come questi caratterizzano l'identità di un insegnante agli occhi dei ragazzi. Sono quel genere di aneddoti che anche noi abbiamo messo insieme e ripercorso con i nostri compagni, pensando ai professori che abbiamo avuto. Contribuiscono a costruire un profilo carismatico e una personalità. Si può giocare su questi fattori, credo sia una ricetta decisiva per un insegnante.

 

Senza maestri

Potremmo, a questo punto, chiederci: si può crescere senza maestri? Cosa può fare un ragazzo che, pur cercandoli, non ne incontri sulla sua strada?

Si può crescere senza maestri? Cosa può fare un ragazzo che, pur cercandoli, non ne incontri sulla sua strada?

Credo che senza maestri si rischi il disorientamento e il campo troppo aperto delle possibilità: non si ha l’opportunità di vedere tracciare un solco che possa guidare la nostra crescita. L'incontro con il maestro può consentirci di deviare la nostra rotta verso mete che ci appartengono profondamente. Se questo non accade, spesso ci si trova in una grande pianura, dove tutto è piatto, tutto si equivale. Questa grande pianura è il prodotto del nostro disorientamento. Se non abbiamo fatto un'esperienza capace di renderci appetibile,eccitante, stimolante l'obiettivo di un dato percorso, della scelta di un contesto di vita, di lavoro, di relazioni, rischiamo di trovarci nel disorientamento. Si entra in un deserto in cui tutto si equivale, in cui non ci sono altezze che ispirino una direzione. Un orizzonte senza cielo. Senza una stella polare.

 

Avere stelle all’orizzonte

Il relativismo dei valori che caratterizza la nostra società, ci regala la consapevolezza che non esiste un valore assoluto bensì un conflitto di valori. Credo si tratti di gestire questo conflitto, di capire quali siano le priorità in certi momenti rispetto ad altre. Bisogna evitare che questo conflitto di valori venga messo in secondo piano, venga offuscato da un orizzonte opaco. Occorre poter contare sempre su un contesto di riferimento. Punti cardinali che ci consentano di capire dove siamo e in quale direzione ci muoviamo. Quando non troviamo qualcosa per cui valga la pena impegnarsi, che dia un senso alle nostre scelte, alle nostre fatiche, diventa molto difficile trovare la forza permettersi in gioco.

Sì, l'assenza di maestri produce questo disorientamento. E qui il termine "maestri" deve essere inteso in senso molto allargato: non solo persone fisiche ma anche esperienze, incontri culturali, intellettuali.

 

L’ozio e la fatica

Uno dei delitti più grandi, tra virgolette, che possano compiere gli adolescenti è quello di perdere tempo. Quel tempo infinito che molti di loro passano senza coltivare se stessi, tempo che potrebbero impiegare per imparare qualcosa. Lo dico senza demonizzare l'ozio, che è a suo modo uno spazio necessario per la crescita, per la creatività. Parlo di quel vuoto continuativo e devastante in cui molti ragazzi si immergono senza porsi un limite. Per questo è decisivo avere o meno l'occasione di conoscere qualcuno che faccia nascere in loro l'energia e le motivazioni per acquisire anche un'etica della fatica.

L'adolescente vive le cose in modo tanto forte che, paradossalmente, a volte dà l'impressione che dietro il disorientamento, dietro la perdita di tempo, esista anche un senso di colpa, un desiderio di autopunizione per il tempo perso. È come se una macchina impantanata continuasse a girare a vuoto, imprigionandosi nel fango dal quale sta cercando di uscire, senza riuscire a trovare un aggancio per sbloccarsi e procedere oltre.

 

Essere curiosi di loro

I ragazzi devono percepire la curiosità dell'adulto rispetto al loro mondo e alle loro scelte. È difficile trovare adulti curiosi. È come se non ci fosse una reale contaminazione tra adulti e ragazzi. L'adulto offre il suo campo di conoscenze, di competenze ai ragazzi, svolge la sua funzione di fronte a un pubblico in genere un po' passivo, che a volte fatica a interagire. C'è poca disponibilità ad incrociarsi, ad aprirsi davvero con gli adolescenti. Si fanno poche domande, si cerca poco di capire e di conoscerli. Spesso gli adulti provano un rifiuto di quello che interessa ai giovani, ne vedono e ne sottolineano solo la pochezza. Tra le abilità che possono consentire a un adulto di svolgere una funzione di maestro, nei confronti di un ragazzo, credo sia fondamentale quello di saper essere curioso, di farlo sentire, perché per mostrarsi curiosi occorre esserlo davvero : essere aperti, solo così si può capire quello che succede nel mondo degli adolescenti, comprendere quali abitudini, quali nuovi riti siano al centro della loro vita. E perché questo accada, l'adulto deve sentirsi sicuro nel suo ruolo e nella sua alterità, altrimenti non può arrivare a contaminarsi, aprendosi alla curiosità.

Un ragazzo non può non percepire la curiosità come una forma profonda di attenzione nei suoi confronti.

 

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Lamberto Bertolé
IL MIELE E L'ACETO
La sfida educativa dell'adolescenza

Prefazione di don Gino Rigoldi

Prezzo copertina 14,00 € 
Pagine 224 
Isbn 978-88-99316-06-8
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