Dialogo con Franco Riva su responsabilità e fraternità, giustizia e perdono, a partire dal suo libro “La domanda di Caino”
Etica, filosofia, antropologia: è a queste discipline che forse si dovrebbe affidare la riflessione più necessaria per il nostro tempo, la ricerca di un punto di partenza irrinunciabile che possa orientare la nostra azione in campo sociale, ora che siamo orfani delle ideologie e dei grandi sistemi.
Ripartire dall’umano, dall’etica, dalla letteratura, ripensare i grandi testi, nella speranza di ritrovare la possibilità di un agire comune contro il degrado che quotidianamente sentiamo avanzare: questa esigenza ha trovato conforto nella lettura di un libro pubblicato quest’anno dall’editore Castelvecchi e intitolato La domanda di Caino. Libro impegnativo, ma appassionante e, direi necessario, che ripropone temi fondamentali di un’etica della responsabilità attraverso la lettura di filosofi di diverso orientamento e di grandi testi, dalla Bibbia a Dostoevskj o Cervantes. Il suo autore, Franco Riva, insegna, come professore ordinario all’Università Cattolica di Milano, Etica sociale, Filosofia del dialogo, Antropologia filosofica: forse proprio quel che ci vuole, insomma.
il nostro tempo davvero può essere definito come il tempo di Caino, il tempo in cui la violenza degli uomini sugli altri uomini e l’indifferenza al “sangue del fratello che grida dal suolo” sembrano estendersi e moltiplicarsi
Il titolo propone una figura che purtroppo possiamo considerare emblematica del nostro presente: se altre epoche potevano essere rappresentate da figure come Prometeo, o Faust, o Edipo, il nostro tempo davvero può essere definito come il tempo di Caino, il tempo in cui la violenza degli uomini sugli altri uomini e l’indifferenza al “sangue del fratello che grida dal suolo” sembrano estendersi e moltiplicarsi, anziché arretrare di fronte alla propria stessa oltranza.. Questo libro ci rende però un’idea più complessa e problematica dei temi del male e della fratellanza che a questa figura sono legati.
Grazie al Circolo San Giuseppe, alla Casa della Cultura di Monza e Brianza e alla libreria Area Libri di Seregno abbiamo potuto incontrare Franco Riva giovedì 24 novembre per parlare con lui dei temi che il suo libro affronta. Queste le domande e le sue risposte
Perché Caino? Qual è questa sua domanda “strana”, come lei la definisce, che è però “la domanda delle domande”? Perché essa è così significativa nella riflessione etica?
Se il titolo può suggerire la presenza di un interesse di tipo religioso, la verità è che la domanda di Caino è uno dei testi più antichi in cui compare un tema centrale del discorso etico dei nostri tempi, ovvero il tema della responsabilità. L’episodio è noto: si tratta di un racconto sulle origini dell’umanità, nel libro della Genesi, in cui compare una coppia di fratelli, uno dei quali uccide l’altro. Dio chiede all’assassino, “Dov’è tuo fratello?” e lui, Caino, risponde stranamente con una negazione e una domanda che nella loro formulazione tradizionale, suonano così: “Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?” Ma nel Novecento, impegnandosi in una nuova traduzione della Bibbia, due ebrei, Martin Buber e Franz Rosenzweig, hanno preferito renderla in questo modo: “Non so. Sono responsabile di mio fratello? “. Formulata così, la domanda di Caino non è più evasiva, non è uno sfuggire alla domanda di Dio, ma è un fermarsi a riflettere, un mettere in discussione quello che si sa: Caino non sa cosa voglia dire essere fratelli, ma comincia a chiedersi se non sia qualcosa di più che una semplice faccenda di sangue, un appartenere alla stessa famiglia. O razza, o cultura, perfino alla stessa fede. Nel comparire per la prima volta in un testo, la parola responsabilità viene pronunciata dall’assassino. Caino non sa cosa voglia dire, ma ci lascia in eredità la domanda, che è insieme una domanda su cosa significhi la fraternità. Comincia a farci capire che le due cose forse stanno insieme, fraternità e responsabilità. Ma anche la domanda di Dio è significativa nella sua formulazione: che comincia come l’altra rivolta ad Adamo dopo la colpa, “Dove sei, Adamo? ” (le domande bibliche parlano un linguaggio concreto; e in realtà, poi, la domanda suona come “Dov’è l’uomo”?), e proprio perciò sottolinea lo spostamento dell’attenzione dall’uomo all’altro uomo: prima “dove sei tu?”, poi “dov’è l’altro?”.
Siamo responsabili, individualmente e collettivamente, di tutta la sofferenza degli altri
La domanda di Caino é la domanda delle domande, perché torna in tutti i nostri discorsi sulla responsabilità: torna in Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov, dove Ivan, parlando del dolore innocente, quello inflitto ai bambini, risponde proprio a quella domanda sostenendo, con un forte pathos, che siamo responsabili, individualmente e collettivamente, di tutta la sofferenza degli altri. Se ne ricorda anche Sartre, quando sostiene che l’affermazione di Ivan diventa sempre più vera nel mondo globale, nel quale tutti siamo sempre più coinvolti in tutto (ed erano soltanto gli anni Sessanta!); e c’è qualcosa di simile anche nella sua prefazione all’opera di Franz Fanon dedicata alla condizione dell’Africa e alla sua liberazione, dove Sartre afferma che di fronte all’opera devastante del colonialismo il nostro umanesimo, con le sue carte dei diritti, è nudo, non è che un’ideologia bugiarda. Così anche Jonas parla di responsabilità, nei confronti della terra, e Lévinas riprende il tema della responsabilità verso l’altro. E questi sono solo alcuni esempi.
Caino dunque sembra interrogarsi sulla responsabilità verso il fratello. Ma che dire della sua responsabilità per il male commesso?
Caino dice che non sa, ma mente, finge di non sapere: è di pochi versetti più avanti, e questa è la genialità di un testo antico, la sua ammissione “troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono”. Ma Dio promette di “vendicarsi” sette volte nei confronti di chi tenterà di punire Caino ripagandolo con la sua stessa moneta. È il Dio punitivo, arcaico, di cui parla Ernst Bloch in Ateismo e Cristianesimo, eppure, con questo linguaggio paradossale, quel Dio condanna la vendetta nei confronti di Caino, anche se nello stesso tempo condanna il male che ha commesso. Emerge da questo testo la relazione tra perdono e giustizia, insieme a quella tra il perdono e il male. Per metterla a fuoco è utile forse far ricorso a un episodio che Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, racconta nel suo Il girasole. Internato in un campo di lavoro, viene chiamato da un giovane SS colpito da una granata e morente affinchè, in quanto ebreo, possa perdonarlo in nome delle sue vittime, centinaia di ebrei stipati in un edificio e dati alle fiamme. È tormentato dalle immagini di quell’eccidio, e confessa di aver bisogno di quel perdono perché vuole “morire in pace”. Wiesenthal ascolta tacendo e si allontana, ma sente il bisogno in un secondo tempo di interpellare sulla questione intellettuali di diverse fedi e convinzioni. Le risposte sono di due tipi e in mezzo ci sono posizioni più sfumate. Un cattolico e un marxista, Gabriel Marcel e Herbert Marcuse, danno una risposta simile: in casi come questo, perdonare è diventare complici del male; e un famoso rabbino (Heschel) ricorda che secondo il Talmud neppure Dio può perdonare una colpa commessa nei confronti di un altro che non sia Lui medesimo. Insomma, se noi intendiamo il perdonare come cancellare, dimenticare la colpa, noi commettiamo un’ingiustizia. Ma se pratichiamo la giustizia in termini solo punitivi, come vendetta, allora ha ragione Nietzsche quando dice: “Non mi piace la vostra fredda giustizia, perché dietro l’occhio del giudice io vedo la scure del boia.” Di solito si parla del perdono come di una faccenda privata, dal momento che non si può imporre, come invece la giustizia, che è la risposta pubblica al male commesso. In realtà perdono e giustizia sono molto più vicini: per capire come, faccio ricorso a un proverbio cinese che dice: “Lo stolto non perdona e non dimentica nulla. L’ingenuo perdona e dimentica tutto. Il saggio perdona, ma non dimentica”.
“Lo stolto non perdona e non dimentica nulla. L’ingenuo perdona e dimentica tutto. Il saggio perdona, ma non dimentica”
Non dimentica perché il male fa male, la colpa rimane! Il perdono non può funzionare come una lavanderia a gettoni, tornando ogni volta a lavare il male commesso; ma a sua volta la giustizia non può illudersi di combattere il male col male, perché, come diceva Tolstoj, non si spegne il fuoco col fuoco né si asciuga l’acqua con l’acqua. In comune, perdono e giustizia, hanno questo sforzo di combattere la violenza senza usare violenza, e non è vero che la giustizia appartiene solo alle aule dei tribunali e il perdono a qualche cuore amorevole. Tanto l’esigenza di giustizia che l’esigenza di perdono stanno lì dove il male fa male, entrambi hanno a che fare con la forza opposta del male, entrambi devono far ricorso all’iperbole di fronte alla terribile realtà del male, che è tale da richiedere la necessità di ribadire il perdono settanta volte sette. Anche il perdono però condanna, altrimenti davvero diventa complice del male, come la giustizia implacabile diventa ingiusta. Andrò domani a Trento per inaugurare una mostra sulla condizione carceraria, e ho già avuto modo di parlare ai detenuti di San Vittore, dove si può constatare come non sia giustizia infliggere condizioni di vita terribili anche a chi ha sbagliato; ovvero, come si esprime Don Chisciotte quando vede il triste spettacolo di detenuti in catene, condannati ai lavori forzati: “Non è bene che degli uomini per bene trattino degli altri uomini in questo modo.” Altrimenti non ha senso parlare, come è necessario, di recupero, di riabilitazione dei colpevoli.
Inoltre, analogamente, nella storia dei popoli è necessaria quella riconciliazione attraverso cui il Sud Africa del dopo apartheid ha tentato di evitare che le vittime divenissero a loro volta persecutori, come accade invece quasi sempre nella storia…Stiamo parlando di responsabilità e di perdono, ma in verità il suo discorso inizia a partire dal male, non, come si sarebbe fatto un tempo, dal definire il bene. È questo che mi è sembrato particolarmente interessante, per un’etica alla ricerca di un minimo comune denominatore: il male è un fatto indubitabile e riconoscibile, e non è la Ragione o la Legge ad additarlo, ma la sofferenza vera, lo strazio di chi lo patisce. Quali sono i motivi di questo suo approccio?
Perché partire dal male? È quello che dicono alcuni: facile riconoscere il male se sai cos’è il bene! Invece io dico che a fare il male più grande possono essere anche coloro che sono fin troppo convinti di sapere davvero cosa sia il bene, nel senso che sono certi di averlo in mano una volta per tutte, di possederlo, di non sbagliare mai più. Perfino le ideologie e i terrorismi seguono questa logica! Cosa sappiamo noi del bene se non sentiamo il male e l’ingiustizia? Se non sentiamo la sofferenza di chi è povero, di chi è disperato? Non è forse la sensibilità verso il dolore che ci unisce al di là dei tentativi di dare definizioni astratte? Quel che fa specie sono gli sforzi enormi di filosofi, ma anche di teologi, anche delle dittature vecchie e nuove per giustificare il male. Il male non è giustificabile: tentare di farlo vuol dire negarlo, farne uno strumento del bene, e allora giustifichi tutto: giustifichi per esempio la guerra, che prima o poi sarai costretto a fare. Nel Settecento, il filosofo Leibniz scrisse un’opera ponderosa intitolata Teodicea, per giustificare Dio rispetto al male che esiste nel mondo. Il suo è un ragionamento un po’ strano: sostiene che, essendo Dio per definizione perfetto, non poteva creare un mondo altrettanto perfetto, ma dal momento che questo è il mondo creato dalla perfezione divina, è necessariamente il migliore dei mondi possibili, il meno imperfetto di tutti. Questa logica fu fatta a pezzi da Voltaire ragionando sul terremoto di Lisbona, e Schopenauer poi la rifiutò radicalmente con la teoria contraria del nostro mondo, immerso nel dolore, come il peggiore di tutti i mondi possibili: non si tratta di negare il male o di attribuirgli un senso, ma solo di combatterlo. Il male non è un errore, uno sbaglio in cui si incorre per ignoranza, come sosteneva Socrate: è stato Kierkegaard a rimproverargli questo intellettualismo che si sforza di ridurre il male ad una svista. Sappiamo bene, invece, che il male si fa anche volontariamente, non solo per ignoranza del bene: non si limita a capitarci, è un dato di fatto positivo, conseguenza delle nostre scelte, non un puro negativo. La disoccupazione ad esempio non dipende da errori o sviste, da contingenze casuali, ma da precise politiche economiche. Le crisi economiche non ci capitano come i raffreddori.
Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993
In realtà, è per giustificare noi stessi che cerchiamo di giustificare il male, escludendo l’altro nella sua sofferenza, ed escludendo noi dalla responsabilità in quella sofferenza. Adorno e Horkheimer, due studiosi di area marxista, dicono a proposito della promozione della solidarietà, tipo quella che si attiva in occasione di sciagure collettive o anche solo nell’approssimarsi delle feste: “L’insistenza sul buon cuore è il modo con cui una società confessa il dolore che procura”. Vale a dire che rischiamo tutti l’ipocrisia!
La conoscenza del bene, come dice Martin Buber in Immagini del bene e del male, non si dà che nell’antitesi, ovvero solo nella consapevolezza del male: che va sentita nella sua concretezza. Se mi colloco nella torre inespugnabile del bene, cosa posso sapere del male? Anzi, forse quanto più noi cerchiamo di pensare il male, di definirlo, di trovargli una ragione, forse “è il male che sta pensando noi”, come paradossalmente dice Jean Baudrillard, parlando del terrorismo sulla scena del mondo globalizzato nel libro Il patto di lucidità o l’intelligenza del male. E Lèvinas parla a sua volta di tutta la sofferenza inutile che provochiamo. Giustificando il male, ci chiediamo in realtà quanta sofferenza possiamo tollerare: quanti posti di lavoro possiamo permetterci di calcolare in perdita, quanto possiamo vivere in una città tumorale? Come possiamo dire a chi soffre l’ingiustizia che questa è spiegabile e dunque tollerabile? O sminuire il dolore con “Cosa vuoi che sia?” Dice Jean Luc Nancy che nel Novecento abbiamo imparato tre cose: che il nostro non è più il tempo di giustificare Dio o di giustificare il male, che il male non è un difetto, una mancanza, e che esso si è incarnato proprio nel Novecento, nell’orrore intollerabile dello sterminio. Insomma, per citare ancora Lèvinas, “la giustificazione del dolore del prossimo è l’origine di ogni immoralità”. Partire dal bene? No, dal male, per non essere immorali, perfino ipocriti.
“La giustificazione del dolore del prossimo è l’origine di ogni immoralità”
Non si può non concordare! Ma per proseguire: il male, Lei dice, si fa anche in nome della stessa fraternità. A proposito della quale Lei distingue opportunamente tra miti, come quello di Caino, e mitologie, come quella della Rivoluzione Francese, valorizzando la ricchezza dei primi e denunciando l’illusorietà delle seconde. Che dire insomma a proposito di male e fraternità?
Ci sono due grandi frasi sulla fraternità: la domanda di Caino “Non so. Sono responsabile di mio fratello?” e il motto, ricamato in lettere d’oro sulle bandiere della Rivoluzione Francese durante il Terrore: “Fraternità o morte”. È molto interessante per me questo passaggio. Nel mito delle origini, Caino è l’assassino del fratello, ma almeno apre al dubbio, si pone una domanda, mentre nel volere la fraternità ad ogni costo, nel volere obbligare ad essere tutti fratelli nello stesso modo, si annida il male, specie se si pretende che i fratelli siano uguali a noi, fatti con lo stampino ... “La fraternità, dice Dostoevskj, è la pietra d’inciampo dell’Occidente”. Ci sono coloro che dicono che oggi la fraternità è un tema dimenticato in favore della libertà e dell’uguaglianza, e così alcune filosofie del diritto tentano di recuperarlo, mentre qualcuno obietta che è un bene che esso rimanga in secondo piano, perché se si risveglia rischia di diventare nuovamente “Fraternità o morte”. Per Caino il fratricidio è l’inizio, dopo il quale interviene il mettere in discussione la fraternità senza responsabilità. Troppo sicuri di che cosa voglia dire essere fratelli, si può arrivare invece a prescrivere il fratricidio per chi rifiuta la fraternità. È questo il lato tragico della storia, dove fraternità e morte continuano a rincorrersi.
Tornando alla responsabilità: se la condizione di un’etica che si proponga di non far prevalere il male è la responsabilità verso l’Altro, come evitare la fuga da questa responsabilità in un’epoca in cui dall’Altro e dalla sua sofferenza siamo circondati e quasi soverchiati? Non è eccessivo il richiamo di Dostoevskij al dovere di sentire su di noi la responsabilità di ogni sofferenza?
Dalla responsabilità non si può fuggire, se non incorrendo nelle logiche contrarie. Caratteristica della responsabilità è che quanto più noi cerchiamo di astenercene, tanto più essa ci torna indietro come un boomerang. Anzi, siamo tanto più responsabili, quanto più cediamo ad altri la nostra responsabilità. Non è che i fascismi e i nazismi siano venuti da sé, sono usciti da elezioni democratiche! E anche votare turandosi il naso è un modo di aggirare la propria responsabilità: che ci ritorna addosso quando ormai siamo diventati complici, proprio nel tentativo di dismetterla. Ma, dici, il male è tanto, l’ingiustizia è forte: e che alternativa hai, se nel momento in cui tu cedi diventi automaticamente responsabile? E responsabile nel modo rovesciato, nel paradosso di una responsabilità irresponsabile! Non è questo ciò di cui ci lamentiamo tutti i giorni, quando vediamo persone che fanno scelte che non hanno senso? Il tornante della responsabilità è in-aggirabile. Niente è eccessivo quando si parla di responsabilità: certo poi non porto da solo tutto il peso del mondo, la responsabilità è condivisa.
Infine vorrei chiedere: ma dunque, che differenza c’è tra questa etica e quella kantiana? Non vieta anch’essa a priori di reificare l’altro uomo, e non vanta anch’essa un primato rispetto all’ontologia? È la mia attenzione verso l’altro che può aprirmi alla trascendenza, non viceversa. A quel che sostiene Ivan Karamazov, che se Dio non esiste tutto è possibile, io non voglio credere. Anche Lévinas mi sembra dica, come Kant, che non perché si crede in Dio si diviene soggetti morali, ma semmai al contrario. È così? Anche questo mi sembra importante se si vuol trovare un minimo comune denominatore per un’etica condivisa tra laici e credenti.
Ho già accennato al fatto che, nonostante il titolo del mio libro (che è stato scelto dall’editore tra i vari titoli delle sue tre parti e che indubbiamente ha una sua efficacia) faccia riferimento al testo biblico, la mia prospettiva è “laica”, di un’umanità condivisa, e i tanti riferimenti filosofici diversi lo avranno dimostrato. Ma anche l’ebreo Lévinas, quando sostiene che la Bibbia è il “libro dei libri”, non lo fa per un suo carattere di rivelazione divina in senso magico e soprannaturalistico, ma che anzi lo è per la sua capacità di esprimere l’umanità dell’umano dal momento che annuncia a chiare lettere il tema della responsabilità verso l’altro. La nostra umanità (e la nostra trascendenza) iniziano infatti dentro la responsabilità: lo spazio dell’incontro con la trascendenza resta lo spazio dell’umano. Così rispondo positivamente alla sua domanda: l’etica unisce. Quanto al confronto tra Kant e Lévinas, usiamo pure, per capire, le formule in cui di solito si riassume la loro etica: “Agisci in modo tale da trattare la persona, in te e negli altri, sempre come fine e mai come mezzo”, dice Kant. E chi non può essere d’accordo? Lévinas, invece, dice così: “La responsabilità per l’altro mi incombe prima ancora di saperlo”. Sono simili queste due formule? Beh, da un certo punto di vista sì: entrambe sottolineano il tema del dovere e quello della responsabilità, il rifiuto di trattare gli altri come strumenti. La differenza sta nel fatto che Kant parte dall’io, mentre Lévinas parte dall’altro. E questo permette di parlare in termini non equivoci della trascendenza come semplice “c’è dell’altro”. Il pensiero dell’altro come primo pensiero spinge in Lévinas ancora più avanti l’impegno morale, dove io non sto più al centro : “L’io si deve detronizzare”, è un re che ha usurpato il trono; deve spostarsi verso un comando, che è un rispondere all’altro.
“Io vuol dire: eccomi”! Ci sono in quanto rispondo.
Sì, ma se una vita è vissuta, è sempre un rispondere a qualcosa, a una persona, a una professione, a un impegno. Un altro aspetto della sua domanda è quello della relazione tra libertà e trascendenza. Si può dire che tutto è possibile se Dio non c’è solo se si intende la libertà esclusivamente come libertà di scelta. Tanti nostri discorsi sulla libertà sono fatti secondo uno schema liberista: quello del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, secondo il quale la mia libertà ha un limite solo dove comincia la libertà dell’altro. Per questo, dice lui, “la società può imporre sacrifici”. Così presto finisce una idea di libertà alla quale sembrava dovessimo essere tanto grati!? Perché l’altro deve limitare la “mia” libertà? Così posso sentirmi libero solo di difendere continuamente la mia libertà dall’altro, come se essa fosse un osso e io un cane mastino… Ben diversa è la prospettiva di libertà che si apre nella responsabilità verso l’altro, che mi costituisce come soggetto, anziché limitarmi.
Tornando sul problema del male, è possibile distinguere tra un male assoluto, come quello rappresentato dal nazismo, e uno relativo? Ovvero: non sempre il male è così riconoscibile quando si deve valutare una scelta, ad esempio, tra il risanamento aziendale e la salvaguardia dell’occupazione, o tra questa e la salvaguardia dell’ambiente.
Non è possibile definire in astratto il bene e il male, ma partire dall’ingiustizia che altri subirebbero mi può orientare nelle scelte. Se la mia azione non tiene conto delle conseguenze dolorose che può avere sugli altri, non posso presentarla come fatta a fin di bene. Intorno al male c’è uno sforzo di dissimulazione potente. Nel poema di Goethe, Faust si presenta come “lo spirito che continuamente nega”. Sempre il male tende a giustificarsi e la manipolazione tipica dei regimi è basata proprio sulla dissimulazione e la giustificazione del male attraverso le menzogne della propaganda, che possiamo imparare a riconoscere.