Il musicista, produttore e bassista di Litfiba, CSI e Marlene Kuntz si è raccontato in un workshop allo Spazio Arte di Sesto San Giovanni. Ma questa storia comincia nel 1987, sui gradini di una chiesa di Matera
È la sera del 22 luglio del 1987, arriviamo in piazza San Francesco a Matera. Il palco è montato una decina di metri più in là del sagrato e dà le spalle alla chiesa. Abbiamo fatto tardi e il concerto è già iniziato. C’è la bolgia e allora ci sediamo sulla scalinata, ascolteremo da lì dietro. Siamo così snob che non ce ne frega un cazzo di vederli. Vogliamo ascoltarli, noi. È il tour di 17 re, il loro secondo album dopo Decaparecido e dopo l’esordio con Eneide di Kripton (che non abbiamo mai considerato un disco vero). La formazione è quella completa, salvo che alla batteria non c’è Ringo De Palma ma uno che picchia davvero troppo e ci fa piovere schegge di bacchette addosso per tutta la serata. Antonio Aiazzi alle tastiere, Ghigo Renzulli alla chitarra, Piero Pelù alla voce. Gianni Maroccolo al basso. Il più riconoscibile dei bassi rock italiani. Sono i Litfiba. Per noi snob, i veri Litfiba. Perché l’anno dopo pubblicheranno 3 e con quello chiuderanno una trilogia potentissima e irripetuta. La quintessenza della new wave italiana, orgoglio di noi che alle stronzate paninare di quegli anni non abbiamo mai creduto eppure non indossiamo il chiodo, non abbiamo la cresta e non ci buchiamo. Per capire cosa sono a quei tempi i Litfiba può servire rivedere Aprite i vostri occhi, il video del concerto tenuto nello stesso anno al Tenax, un locale della loro città, Firenze.
Renzulli non è molto lontano da quello che vedremo per i decenni successivi. Anche Pelù è il performer a metà fra Iggy Pop e il genio della lampada che ancora oggi pesta le tavole dei palchi. Ma il basso di Maroccolo, quello ascoltatelo per bene perché dal 1990 in poi non farà più parte del suono della band e la differenza sarà abissale.
Questo salto Gianni Maroccolo non lo racconta così. Troppo understatement in quell’uomo per sentirlo dire che senza di lui i Litfiba non sono più stati gli stessi. Quasi trent’anni dopo lo rivediamo allo Spazio Arte di Sesto San Giovanni. È il 19 novembre 2016 e guida un workshop. Invitato da Antonio Siciliano, accolto dal suo manager Enzo Onorato e da una ventina di giovani autori pronti a pendere dalle sue labbra e a raccogliere i suoi consigli. Lui il distacco dai Litfiba lo racconta come una delle tappe di una lunga vita artistica, cominciata da bambino in Sardegna con le lezioni pomeridiane a scuola a seguire tutti i corsi di tutti gli strumenti. Perché per lui la musica è sempre stata una questione di insieme, non di singoli strumenti o singoli artisti.
Antonio Siciliano di Spazio Arte e Enzo Onorato, manager di Gianni Maroccolo
Racconta dei primi gruppi, delle cantine per provare, dell’incontro con Renzulli, di Aiazzi che parla loro di un tipo strano che potrebbe servire come cantante, uno che va in giro col mantello e fa casino alle feste. Racconta di una città sonnolenta che d’improvviso, nel giro di pochi anni, si scopre al centro della scena alternativa italiana perché oltre loro ci suonano i Diaframma e i Neon e molti altri. Racconta della pazienza avuta prima di pubblicare il primo disco. Potrebbero già nell’81, lo fanno solo nell’85: «Mi piacciono le mutazioni, le novità, i cambiamenti e mi piace farne parte, ma non mi fa paura aspettare». Sottolinea spesso la necessità di agire con i tempi giusti, allora a me torna in mente il proverbio africano che dice che solo la pianta che cresce lentamente mette radici profonde. Inevitabile salta fuori il riferimento ai talent. Scorciatoia per il successo, unica fonte per le major discografiche. Dipende da quello che uno vuole fare della propria vita, dice. Se ti interessa il successo, probabilmente i talent sono la tua strada. Se ti interessa lasciare un segno, provare a fare arte, allora forse è meglio seguire altre strade. Più lunghe e contorte, forse. Fa un esempio molto poco rock’n’roll, quello di Paolo Conte, a cui non è mai fregato nulla di apparire. Dai talent crescono piante dalle radici fragili, nascono personaggi effimeri: difficile che sopravvivano alle stagioni e difficile che abbiano un pubblico di quelli che ti seguono per tutta la vita.
Il distacco dai Litfiba Maroccolo lo racconta proprio come la naturale, seppur sofferta, conseguenza di un mutamento (eccolo): la condivisione non c’è più, lui se ne tira fuori. Anche se non sa cosa farà, anche se il disco dal vivo Pirata ha appena fatto il botto vendendo 250.000 copie. Lui se ne tira fuori. Dipende da cosa ti aspetti dalla tua vita, lui si aspetta di dare un senso al suo essere musicista.
Racconta della telefonata di Ferretti e Zamboni che lo vogliono come produttore del nuovo disco dei CCCP, l’altra band imprescindibile di quegli anni. Così lontana dai Litfiba: separata sì da poche decine di chilometri di Appennini, ma da migliaia di chilometri di attitudine punk. È il 1990. Lui si porta dietro Francesco Magnelli e Giorgio Canali. Registrano in un posto che si chiama Villa Pirondini ma che in realtà è fatiscente e potrebbe venir giù da un momento all’altro. Invece sta in piedi, Luigi Ghirri la fotografa e loro in venti giorni hanno già materiale per un doppio album. Il più bello dei CCCP: Epica Etica Etnica Pathos. Ferretti scopre il controcanto, Zamboni non è più il solo suono del gruppo. Irruente, arriva però un altro mutamento, imprevisto, sorprendente. Una notte uno scazzo furioso sancisce la fine dei CCCP. Quello sarà il nuovo e ultimo album allo stesso tempo.
Una delle foto di Luigi Ghirri per la copertina di Epica Etica Etnica Pathos dei CCCP
Sarà che si è fatto tardi, sarà che ci sono i musicisti smaniosi di fare ascoltare i loro lavori, il resto del racconto di questa lunga vita artistica sfuma velocemente. Manca il pezzo a cui personalmente sono più legato, quello dei miei amatissimi CSI. Si parla più della sua controparte produttiva — il CPI Consorzio Produttori Indipendenti — perché lui che non si considera di certo un bassista, ma che non sa se preferire l’essere musicista o l’essere produttore, da sempre forgia il suono di tante altre band, soprattutto se sono al debutto. Vado a memoria e dico Timoria ma soprattutto Marlene Kuntz. Con il Consorzio fa quello che né le major né la maggior parte delle etichette indipendenti fanno mai: scova gruppi, li studia e poi li produce davvero, pagando lo studio, la stampa, il video, anche la sala per provare i concerti. Un approccio che il mercato, il famigerato mercato, non concepisce. Il mercato dice che si va su gruppi che somigliano a qualcosa che ha già successo, non si investe nulla, al più si distribuisce.
Cominciano gli ascolti, il giovane ragazzo di Andria porge la chiavetta USB e fa ascoltare i pezzi registrati con i suoi amici rimasti in Puglia. Poi tre barbuti milanesi e ancora altri. Da quattro ore ascolto l’uomo che ha suonato il basso nei dischi che ho consumato negli ultimi trent’anni. Lui non lo sa, non può saperlo, che quell’uomo infreddolito che ora prende appunti, quasi trent’anni prima era seduto sulle scale di una chiesa di Matera, che decine di volte lo ha fissato scorrere le dita sulle quattro corde, che centinaia di altre ha sentito il cuore battere allo stesso tempo, ha ballato, ha riso, ha urlato, ha pianto grazie e per colpa delle canzoni a cui lui ha donato quel suono e quel basso così riconoscibile.
Lascio Spazio Arte durante una pausa degli ascolti. Me ne vado. Sicuro che rivedrò Maroccolo molto presto. Sarebbe anche tempo di mettere su una nuova band, vorrei dirgli. Ma non ce n’è bisogno. So che ci penserà lui. Così vanno le cose, così devono andare.
PS Questo pezzo andava scritto così, di getto. Poco dopo il workshop. Son sicuro di aver dimenticato passaggi ben più importanti di quelli riportati, ma andava fatto a caldo. Spero non ti dispiaccia.