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«Sono i materiali a chiamarsi tra di loro e a decidere con chi stare vicino. A me resta il compito di lasciarmi guidare e accostarli». Intervista dell'artista biellese nella sua casa di Netro

 

Pensavo che Betty Zola abitasse a Monza o in Brianza. L' avevo visto in primavera a una sua mostra in Via dei Mille e poi in foto di iniziative e inaugurazioni di mostre in giro, spesso in compagnia degli artisti Alberto Casiraghy e Nicola Frangione. Quando alla rivista Vorrei abbiamo deciso di intervistarla e l'ho contattata al telefono, abbiamo scoperto che abita a Netro, un paesino di mille anime vicino a Biella. È stata una sorpresa.

In trasferta nella pedemontana biellese

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Sentiero nel bosco a Netro

 

Raggiungiamo Netro in due ore di viaggio. Per arrivarci dobbiamo uscire dall'autostrada Milano-Torino e percorrere la Sp230 diretta a Biella. Aggiriamo Biella sulla periferia sinistra (città fantasma della lana?) e poi sulla periferia nord (città fantasma del mobile?). Dopo Occhieppo, si delinea un paesaggio a noi più famigliare, molto simile a quello che si può trovare in Brianza tra Sirtori e Santa Maria Hoè. Netro è un paese antico, con una storia industriale interessante, ma piccolo, tanto che Betty Zola, che ci sta aspettando, ci individua subito. Senza la sua guida non saremmo riusciti a raggiungere la sua casa: si trova in collina, percorrendo una strada sterrata dentro un bosco. Il luogo è davvero bello. Si intravede il paesaggio incantevole delle colline a est e parte della pianura biellese. La casa d'epoca, ristrutturata mantenendo le mura e l'aspetto il più possibile originale, è protetta da tre castagni secolari che la coprono come grandi ombrelli.

Betty Zola nasce a Biella il 12 aprile del 1971. È il lunedì di pasquetta e piove. Le infermiere del reparto maternità vorrebbero chiamarla Pasqualina: è un nome classico, ancorché un banale assecondare le usanze tradizionaliste in voga. Prevale la volontà di sua mamma che invece vuole rendere omaggio a Bette Davis, attrice americana a lei cara. Ma in Italia la tradizione è ancora molto forte. Così, all'anagrafe della chiesa viene registrato dal prete il nome di battesimo Elisabetta e non Betty, ritenuto troppo anglofono. La mamma accetta la mediazione, perché peraltro gli piaceva pure l'attrice Elizabeth Taylor, anch'essa americana.

Betty è sensibile ed emotiva. Non ama parlare di se. Non gli piace mettersi al centro dell'attenzione. Nemmeno è a suo agio nel farsi registrare la voce dallo smartphone per l'intervista. Gli spiego che nella mia attività di giornalismo mi occupo principalmente di territorio. Sono presidente di un'associazione ambientalista brianzola. I temi dell'arte, trattati in questa serie di interviste, sono osservati da un punto di vista ambientalista. Noi siamo un frutto della terra: anche se ci muoviamo e possiamo elevarci, apparteniamo completamente ad essa. Il nostro essere è comunque condizionato dalla terra. Lo sono per via mediata anche le espressioni artistiche. Durante l'intervista proveremo ad esplorare prevalentemente le relazioni tra l'artista e il suo territorio, il suo intersecarsi nei piani della dimensione spaziale territoriale. Poi tenteremo di individuare un sentiero: il percorso evolutivo della sua particolare forma di arte, intesa come strumento comunicativo.

 

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Castagno secolare - foto di Betty Zola

 

La tecnica utilizzata è presa da un modello della stimata coppia di filosofi post-strutturalisti francesi, Gilles Deleuze e Felix Guattari: “Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare contrade a venire” (Rizoma, Mille piani - 1980). In questo incontro ci si relaziona in dinamiche di scambio esperienziale, si procede con una “doppia cattura” direbbe Gilles Deleuze. Non è necessario indagare e nemmeno lambire i piani delicati delle relazioni personali, degli affetti intimi. Del resto quei sentimenti si possono percepire assai di più osservando la sua arte, intercettando, tra gli interspazi delle forme e dei colori, o nelle installazioni arrugginite, le vibrazioni dei suoi dolori, a volte nascosti altre volte scoperti, delle sue paure, dei suoi modi di amare e di gioire. L'arte serve anche per questo: per esprimere quanto è incomunicabile per limitatezza e ambiguità dalle convenzioni del linguaggio. Ma lei ha già capito. E allora si parte.

L'arte e il territorio

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Betty Zola presso Atelier A

 

Betty, quando ha iniziato a vivere la tua arte?
Da sempre. Il papà dipingeva per passione. Perché la sua professione era di specialista in meccanica: era un esperto carburatorista. Suonava anche la tromba, era particolarmente bravo a suonare el deguello, l'inno messicano dei morti. Avrebbe potuto suonare per l'orchestra filarmonica di Roma che lo aveva conosciuto e invitato, ma ha preferito fare il carburatorista.

Hai cominciato a dipingere per questo?
Papà dipingeva in modo tradizionale, su tela. Per me l'approccio è avvenuto con l'uso del cartoncino, quello delle confezioni delle calze di nylon. È stata una scoperta. Lui dipingeva su tela e io disegnavo e dipingevo a olio sul cartoncino.

Cosa disegnavi?
Tante Pantera Rosa. Evidentemente perché in quel periodo la vedevo spesso in Tv.

Il simbolo di Biella è l'orso, dicono che siamo anche noi degli orsi, perché siamo chiusi e forse è vero

Vivere a Biella ti ha dato soddisfazioni?
Essendoci nata, è nel contempo la città che più amo e che più odio. È tagliata fuori da tutto, come tutti i paesi pedemontani: non abbiamo un'autostrada, il servizio dei treni è scadente, di conseguenza la mobilità si basa sull'uso dell'auto privata. Il simbolo di Biella è l'orso, dicono che siamo anche noi degli orsi, perché siamo chiusi, forse è vero.

Avete flussi turistici? Ci sono attrattive turistiche?
Esiste un turismo di emigrati. Sono i discendenti di quelle persone che si erano trasferite in Francia 70-80 anni fa per trovare lavoro e avevano abbandonato le loro case. Qui a Netro alcune famiglie sono poi tornate a risiedere nelle loro vecchie case. Tante altre case sono diventate di proprietà dei nipoti degli emigranti che ci vengono in vacanza.

Ma il fenomeno migratorio era esteso a tutto il Biellese?
Soprattutto nella fascia collinare. Biella ha un'antica tradizione produttiva, addirittura a partire dal medioevo, periodo in cui si diffusero le prime produzioni di filati di lana. Quando ero ragazza si trovava facilmente lavoro. Negli anni '80 l'industria tessile aveva raggiunto un alto livello di diffusione e c'era lavoro per tutti. Oggi le attività sono state in gran parte delocalizzate all'estero, in Romania e in altri paesi dell'est.

Anche tu hai lavorato nell'industria?
Ho iniziato a 13 anni. Ho lavorato a Occhieppo, poco fuori da Biella. Il primo posto di lavoro è stato in una fabbrica dove si dividevano le stoffe. C'erano molte fabbriche per il confezionamento di vestiti.

La tua passione per la stoffa, dopo quella della carta, ha un legame con la vocazione tessile del territorio di Biella?
Probabilmente si. La lana qui nel territorio è parte integrante della nostra cultura. Amo cucire e quando ho tempo, creo abiti per le mie amiche e per me.

L'arte e Betty

 

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Industria tessile a Biella

 

La carta per me è da sempre un'attrazione particolare: ne colleziono in tutte le forme

Quando hai iniziato a creare arte?
È avvenuto in più fasi. Nel 2000 c'è stata la prima svolta: ho acquistato un libro di arte e tecnica della cartapesta di Juliet Bawden. È stata una rivelazione scoprire quante cose si possono realizzare con la carta. Davvero non immaginavo tutti questi possibili utilizzi. La carta per me è da sempre un'attrazione particolare: ne colleziono in tutte le forme fin dai tempi in cui cominciai a utilizzare i cartoncini delle calze. Nel corso del tempo, senza rendermene conto, mi sono ritrovata in casa una collezione sterminata: pigne di ogni genere di carta. Carte da pacchi, carte da uffici, carte carbone, carte usate e nuove.

Per quale motivo?
Non sapevo esattamente perché. Mi piaceva d'istinto. Collezionavo ogni tipo di carta, ma non avevo un'idea di cosa farne. Semplicemente la collezionavo. Della carta mi piace tutto: l'odore è la cosa che più adoro, ma è anche forte il piacere tattile e visivo. Andavo a cercarla nei mercatini dell'antiquariato. Già quando avevo 14 anni venivo a Milano a comprare libri alla Fiera di Sinigallia. Spendevo somme consistenti (per le mie tasche) per acquistare libri gialli della Longanesi, quelli proibiti, con le pagine ingiallite dal tempo. Li portavano signori anziani in carretti tirati a mano.

Cosa ti piaceva di questi libri?
Il profumo. Quando tornavo a casa mi sentivo ricca. Li conservo ancora. Come anche la carta da ufficio di mia zia di quando lavorava come segretaria alla Fiat. Dopo la scoperta del libro di Juliet Bawden ho capito quale era la mia vocazione. Avevo alcune boccette di inchiostro, di una marca di china terribile da utilizzare, ho cominciato a usarle. Ho scoperto tante inimmaginabili caratteristiche della carta.

Quali?
Quando la tingi è differente l'effetto che si ottiene da un lato piuttosto che dall'altro. A secondo della colla che si usa, cambiano radicalmente gli effetti. Se si usa il Vinavil o Metylan, anche con lo stesso inchiostro, cambiano i risultati. Persino delle volte mi è capitato di completare un lavoro e poi accorgermi, una volta girato, che lo spettacolo era dietro, dove non avevo messo mano!

Mi piace questa essenza anarchica del processo creativo. Tutte le volte si realizza un risultato unico

C'è una componete di casualità nei lavori?
Sì ed è bellissimo. Mi piace questa essenza anarchica del processo creativo. Tutte le volte si realizza un risultato unico. Quando si lavora la carta, non si riesce a replicare un lavoro precedente: basta una goccia di acqua in meno, una quantità diversa di colore, perché magari non ci si ricorda esattamente, oppure una diversa posizione del supporto e tutto cambia.

I lavori non si possono replicare in alcun modo?
Ci sono degli accorgimenti, per esempio in quell'angolo ho appeso in modo separato, attaccati con mollette, gruppi di carte con lo stesso bagno: così si riesce ad avere maggiori possibilità di ripetere gli effetti. Ma, a dire il vero, questo non è molto interessante, perché è fantastica l'idea della creazione unica e irripetibile e non il risultato scontato. Quando comincio a lavorare non parto mai con un progetto o con un disegno preciso. Guardo una carta e lei mi mi guida. Sono i materiali a chiamarsi tra di loro. Sono loro a decidere con chi stare vicino. A me resta il compito di lasciarmi guidare e accostarli. Finché, a un certo punto, ti accorgi che il lavoro è finito.

E questo come lo capisci?
In quel momento che non ti chiede più nulla. Ti accorgi che aggiungere qualsiasi altra cosa sarebbe di troppo. È un po' simile alla sensazione che si avverte quando ci si sente sazi e si smette di mangiare. Poi ti allontani, lo guardi e lui ti dice come si chiama. Questo qui davanti a noi si è voluto chiamare: Va tutto bene.

Difatti, si vede felicità, amore, ma nel filo spinato si legge che c'è una violenza incredibile.
Si, con l'arte posso dire cose che altrimenti non saprei come spiegare. Altre volte preferisco usare un velo, in questo caso una garza, per celare. Perché non sempre ci si può mostrare a tutti come si è. Sia perché ci deve anche difendere, se si è vulnerabili, sia per rispetto degli altri. Non sempre li si possono investire con i nostri problemi, annoiarli con le nostre miserie. In questa parte arrugginita c'è il tempo che passa, le cose negative che devi mandar giù e quelle che fai mandare giù. Poi tutti i lavori li riporto nei libri: oltre a fotografarli ho preso l'abitudine di disegnarli in quaderni.

L'arte della ruggine

 

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Chiodi - Foto di Francesa Radicula

 

Gli oggetti a un certo punto si rompono, vengono abbandonati e si arrugginiscono. Non servono più

Nei tuoi lavori si nota un passaggio avvenuto dalla carta al tessuto e poi alla ruggine, che è legata al metallo. Si può considerare un terzo elemento?
Effettivamente si è aggiunto di recente. Insieme alla seta. La ruggine è il passaggio del tempo, come lo sono le rughe su un viso che però gli danno il carattere. La trovo bellissima. Gli oggetti a un certo punto si rompono, vengono abbandonati e si arrugginiscono. Non servono più. La stessa cosa avviene alle persone. Gli anziani che vengono abbandonati nei ricoveri, non servono più.

La ruggine potrebbe essere un'ingratitudine del tempo?
Volendo, sì. Se si tiene a un oggetto, lo si cura, lo si mette al riparo, lo si mantiene sano al posto giusto. Anche se poi nel passaggio del tempo la ruggine è naturale e non si può eliminarla.

La ruggine dunque toglie?
Dipende dall'umore: alcune volte la vedo appunto come un passaggio del tempo, come un decadere naturale degli oggetti in uso quotidiano, quegli oggetti che sono vissuti e diventano malconci proprio per il loro uso. Altre volte la vedo negli oggetti mollati senza cura da qualche parte. Ci possono essere diverse chiavi di lettura. Probabilmente a secondo degli stati d'animo che prevalgono ogni giorno. Si dice che l'artista un giorno si suiciderebbe e l'altro pure.

 

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Betty Zola e Alberto Casiraghy

 

Perché è in conflitto con il suo ego e tenta di annientarlo?
Forse è così. Negli artisti apprezzo l'umiltà. Il mettersi al servizio di un qualcosa di grande. Ma questa qualità non si trova ovunque. È molto presente nel gruppo che frequenta lo studio di Alberto Casiraghy da voi in Brianza. Mi piace molto, ci sono belle persone.

Come sei entrata nel giro delle esposizioni?
Nel 2000 mi ha chiamata un gallerista di Pisa. All'inizio l'inesperienza mi ha portato a commettere errori. Quel gallerista mi ha fatto addirittura pagare per esporre. Con questa “lezione” ho capito il funzionamento di alcune gallerie. Ho esposto in mostre a Biella e in altre città. Poi ho iniziato a esporre a Milano e a Monza. Ora vengo talmente spesso da voi da poter dire di essere diventata brianzola. Spero di acquisire anche l'accento brianzolo o quantomeno mi basterebbe non avere quello piemontese.

Non ti piace?
Non lo sopporto. Non mi piace la cadenza. Non so se ce l'ho. Forse voi la sentite un poco?

No, non si sente.

 

L'arte e i colori

 

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Francisco Goya - Visione fantastica: “Asmodea” o “Asmodée” – dalle pitture nere della quinta del sordo, cm. 123 x 265, Basilea, Knstmuseum

 

Il nero è la vita, la lavagna in cui scrivere

Nei tuoi lavori c'è una grande prevalenza del nero. Cos'è il nero per te?
È la vita, la lavagna su cui scrivere. Il nero è percettivo e si associa alla notte, quando si sentono meglio i rumori: ci sono meno distrazioni e si presta maggiore attenzione al vedere. Si sente tutto di più. Il nero è il colore della seduzione. Lo uso quando mi sento felice.

Ma la vita non dovrebbe essere il bianco?
Nuuuu! Il bianco è l'ospedale! La sofferenza. In ospedale è tutto bianco: i dottori sono vestiti di bianco e tu dipendi da loro, sono loro a decidere. È una camicia di forza. Ci si ritrova in una situazione in cui si vorrebbe reagire ma non si può. Il bianco mi spaventa. Nel guardaroba è presente in pochissimi capi e quel poco che c'è l'ho relegato in un piccolo ripiano, ben separato da tutti gli altri colori. Non deve contaminare.

E il rosso?
Non lo vedo seducente. Lo uso, anche se non molto, però per me rappresenta il sacrificio. È il sangue, il Cristo crocifisso, un pulsare di un qualcosa che hai dentro e per cui daresti tutto senza riserve. È vita, è forza, ma non ci vedo il sesso.

 

L'arte nella discarica

 

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Betty Zola a Monza

 

Ci vado e mi metto a cercare le catene arrugginite. Pezzi di botte. Legni con una scritta o tarlati al punto gusto da affascinarmi

Qui nello studio c'è un'infinità di materiali di ogni tipo. Dove li trovi?
In discarica. Ho cominciato a frequentarla alla ricerca di materiali da utilizzare. Portavo a casa tutto quello che mi sembrava interessante: i materiali arrugginiti, le cornici con i vetri anche rotti, materiali di ogni genere che buttano. È impressionante vedere quante cose vengono buttate: dal cestino di paglia, alla bomboniera, al vecchio lampadario mezzo rotto, a vecchi specchi anch'essi rotti, alle lavatrici, ai mobili. Si trova di tutto. Molte cose sono ancora funzionanti e belle, altre sono messe male. Ci vado e mi metto a cercare le catene arrugginite. Pezzi di botte. Legni con una scritta o tarlati al punto gusto da affascinarmi. Molle di materasso. Tempo fa ho trovato delle molle meravigliose e le ho utilizzate per una installazione con vecchie federe. Su queste c'erano cifre ricamate a mano dalla mamma di una mia amica, Elvira, una donna a cui volevo un bene dell'anima. Ora è morta. Ho pensato di mettere quelle molle tutte contorte i modo da farle spuntare prepotentemente fuori dalle federe, come un passato che ti buca il cervello, un qualcosa che si espone. Mi piacerebbe fare una specie di tappeto con tutte queste cose. Quando vedo oggetti così mi entusiasmo. Eppure si sono meravigliati perché prendevo quelle molle vecchie e arrugginite. Non capivano che mi interessavano proprio perché erano così. Fossero state nuove, da un materassaio, non mi avrebbero interessato.

Chi si meravigliava, i custodi della discarica?
Già! A un certo punto mi hanno diffidata ad entrare. Pensavano che avessi un traffico losco, che ci guadagnassi qualcosa.

Forse temevano che trovassi oggetti preziosi a loro insaputa?
Mah! Non ho mica capito il motivo, sai. Cose preziose sono difficili da trovare in discarica. Però, effettivamente per me i pezzi di ruggine sono preziosi. Sono preziosissimi. Per loro no. Ancora adesso non si capacitano.

Hanno mai visto una tua installazione?
Un muro sarebbe più interessato di loro. Non capirebbero. Forse, se vedessero che uso ne faccio, non mi farebbero più entrare. Gli ho detto di essere un'artista ed è stato controproducente. Se gli avessi detto che le catene mi sarebbero servite per il paiolo della polenta o, non so, per legare la capra: allora apriti cielo! Sarebbe stato per loro un uso accettabile e sarei rientrata nella loro classificazione di normalità.

 

Il sito di Betty

Altri servizi su Betty:
Le sacre inquietudini di Betty Zola – di Donato Di Poce
Betty Zola - Inquietudini  A cura di Felice Terrabuio, presentazione di Vittorio Raschetti

 

Gli autori di Vorrei
Pino Timpani

"Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare contrade a venire." (Gilles Deleuze & Felix Guattari: Rizoma, Mille piani - 1980)
Pur essendo nato in Calabria, fui trapiantato a Monza nel 1968 e qui brianzolato nel corso di molti anni. Sono impegnato in politica e nell'associazionismo ambientalista brianzolo, presidente dell'Associazione per i Parchi del Vimercatese e dell' Associazione Culturale Vorrei. Ho lavorato dal 1979 fino al 2014 alla Delchi di Villasanta, industria manifatturiera fondata nel 1908 e acquistata dalla multinazionale Carrier nel 1984 (Orwell qui non c'entra nulla). Nell'adolescenza, in gioventù e poi nell'età adulta, sono stato appassionato cultore della letteratura di Italo Calvino e di James Ballard.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.