A Libritudine 2016 Massimo Zamboni e Alberto Casiraghy. Con modi, linguaggi e strumenti differenti elogiano entrambi la lentezza
L’edizione 2016 di Libritudine ha avuto un calendario così fitto da rendere addirittura difficile seguire tutto. Una difficoltà divertente, di quelle che vorremmo affrontare più spesso. Con la sua felice formula di festival diffuso, ha portato a Lissone autori, musicisti e artisti di grande interesse. Fra i tanti, vogliamo appuntare due dei momenti più intensi della rassegna, le serate con Massimo Zamboni e Alberto Casiraghy.
Il primo ha una storia molto lunga di musicista, nata con le inquietudini del gruppo punk italiano, anzi emiliano, per eccellenza: i CCCP Fedeli alla linea. Ha attraversato anche una fase di grande visibilità quando, alla fine degli anni Novanta, i CSI (il Consorzio Suonatori Indipendenti che seguì allo scioglimento della band filosovietica) dopo Ko de mondo e Linea gotica pubblicarono l’album T.R.E. Tabula Rasa Elettrificata e fecero il botto, arrivando al primo posto della classifica di vendita (e allora i dischi si vendevano ancora). Ne seguì un tour per la penisola in palazzetti dello sport stracolmi di vecchi e nuovi fan. Persino Jovanotti li volle in apertura di alcune sue date. Una popolarità mai più riscontrata, né prima né poi, anche perché quella leggendaria formazione nata dalle ceneri dei CCCP (Zamboni e Ferretti) e dalla diaspora dei Litfiba (Maroccolo, Magnelli, Canali) non resse allo stress e, di fatto, si sciolse di lì a poco, pur pubblicando ancora alcuni album, fra live e raccolte. Ai CSI negli anni sono succedute diverse formazioni, con diverse combinazioni degli stessi musicisti (PGR, PGGGR) fino a quando - di fatto - quel filo rosso si è definitivamente spezzato e ognuno è andato per conto proprio, con alterne fortune. In tempi recenti ci sono state anche delle reunion, mai complete in verità perché alle rimpatriate è sempre mancata la voce e la personalità di Giovanni Lindo Ferretti, probabilmente il personaggio più controverso, amato e odiato della scena rock italiana. Al suo posto è arrivata Angela Baraldi, alle prese con una seconda vita da musicista dopo un lontano esordio nel giro bolognese di Lucio Dalla e una parentesi da attrice nel Quo vadis baby? di Gabriele Salvatores. Fra una reunion e l’altra Massimo Zamboni ha scritto colonne sonore, pubblicato album da solo, con la Baraldi e con Nada, ha continuato a suonare live e ha anche scritto molto. Il primo libro firmato uscì proprio a ridosso dello scioglimento dei CSI, si intitolava In mongolia in retromarcia ed era composto da due parti, una scritta da Ferretti e l’altra da lui. Era il resoconto di quel viaggio di vent’anni fa in Mongolia da cui nacquero, anche, sia l’album TRE che il film Sul 45° parallelo diretto da Davide Ferrario. Sono arrivati poi altri volumi: Emilia parabolica, Il mio primo dopoguerra, Prove tecniche di resurrezione e L'eco di uno sparo.
Massimo Zamboni a Libritudine 2016
A Libritudine Zamboni ha portato un reading - tratto dalla sua ultima creatura, Anime galleggianti, dalla pianura al mare tagliando per i campi edito da La nave di Teseo - in cui, dopo la presentazione/intervista curata da Fulvio Panzeri, ha alternato filmati, letture e canzoni intorno ad un altro viaggio, molto meno esotico di quello in Mongolia ma altrettanto straniante, se non di più. Lo scorso anno ha infatti percorso il canale del Tartaro (collega Mantova al delta del Po) su una zattera in compagnia di Vasco Brondi, anche lui musicista sotto il nome di Le luci della centrale elettrica. Durante la serata sono affiorati molti riferimenti, dallo scrittore Gianni Celati al fotografo Luigi Ghirri, da Pier Vittorio Tondelli a quello, non dichiarato ma evidente, a Neil Young e al suo modo lirico e doloroso di suonare la chitarra. Un racconto senza accadimenti, senza cambi di scena. Un viaggio introspettivo alla ricerca di un altro modo di muoversi, di cercare, di guardare e comunicare. Lento. Di quella lentezza che non è ritardo ma respiro profondo.
Fa uno strano effetto vedere e ascoltare l’uomo che ha suonato la chitarra nel gruppo più sorprendente e irrequieto degli ultimi 40 anni musicali italiani, far propri i toni pacati e rilassati di chi vuole mostrare un approccio alternativo alla vita. Distante dall’ansia della tecnologia o della carriera o delle relazioni folgoranti e folgorate. Un approccio molto simile a quello che, alcuni giorni dopo, abbiamo visto nel bellissimo film di Silvio Soldini Il fiume ha sempre ragione, in cui sono mostrati alcuni momenti delle giornate di Alberto Casiraghy. Nella sua casa di Osnago, colui che sta dietro al nome Pulcinoelefante accoglie i suoi amici, artisti e pittori, per realizzare artigianalmente le piccole tirature di libri preziosi, stampati con una macchina scampata alla rottamazione tanti anni fa: su carta di cotone, impreziositi da litografie, disegni, monili. Poesie, aforismi, pensieri sparsi (ne scrivevamo tre anni fa) confezionati manualmente, ricchi di magnifiche minime imperfezioni, fra una risata e un ricordo; con il frusciare delle mani sulla carta come colonna sonora, il rincorrersi dei caratteri mobili fino a comporre i versi da imprimere e lo sguardo assetato di chi - come chi scrive - apprezza il piacere erotico dei libri, delle pagine da sfogliare, delle parole che danno anima alla nostra stessa esistenza.
Alberto Casiraghy e Elio Talarico (assessore alla cultura di Lissone)
Grazie al film del regista di Pane e tulipani, di Un’anima divisa in due e di Agata nella tempesta, abbiamo anche potuto conoscere un compagno d’armi di Casiraghy. Josef Weiss è uno stampatore e rilegatore di Mendrisio, al contrario di quanto fa il nostro amico di Osnago, non scrive: la sua arte è tutta nella cura sublime del lavoro. Lo vediamo accarezzare volumi antichi da riportare in buono stato, per preservarli dal tempo. Lo vediamo calibrare i millimetri di spazi e vuoti e colore con cui modellare l’equilibrio grafico delle pagine, rincorrere il rigore visivo che ha reso leggendaria la grafica della sua terra.
Sono - Zamboni, Casiraghy e Weiss - figure che potremmo facilmente scambiare per freak fuori dal tempo: non si affannano per abusare dell’ultimo social network in voga (ma li usano), non si preoccupano di aggiungere il proprio parere all’inutile chiacchiericcio intorno all’hashtag del giorno, non sono delle start up innova-smart-social-virtual-fuffose. Sono invece persone vere, che fanno con meravigliosa cura il proprio lavoro. Con un amore grande e profondo. Talmente grande e profondo da far sentire noi, dannati succubi dell’ansia, i veri, dannati freak fuori dal mondo.