Letteratura, leggenda e storia in un passo del capolavoro di Melville
che cita il gioiello custodito nella cappella di teodolinda del Duomo
Laggiù sull’orlo della tazza sempre colma le acque tiepide si arrossano come vino. La fronte dorata scandaglia l’azzurro. Il sole che si tuffa: si tuffa lentamente nel meriggio, scende giù, e il mio spirito risorge! E’ ormai stanco della collina infinita. E’ dunque troppo greve la corona che porto, questa Corona Ferrea della Lombardia? Eppure scintilla di molte gemme: io che la porto non vedo i suoi lontani splendori, ma sento oscuramente di portare una cosa che abbacina sfolgorando. E’ ferro, lo so, e non oro. Ed è pure spaccato, lo sento: l’orlo rotto mi tortura talmente che mi pare che il cervello pulsi contro il metallo; ma è d’acciaio il mio cranio, di quelli che nella lotta più micidiale non hanno bisogno dell’elmo.
Hermann Melville, Moby Dick, Traduzione di Cesare Pavese, Frassinelli, Torino, 1956, p. 242.
Questo passaggio fantastico del capolavoro della letteratura americana mi ha sempre rimandato con la mente al famoso verso dantesco “Era già l’ora che volge il desio - ai naviganti ...”, anche se i contenuti sono molto diversi, elegiaci in Dante e drammatici in Melville 1.
Del resto, per molti versi Melville sta agli americani come Dante sta agli italiani.
È irrilevante il fatto che Melville abbia commesso errori nel citare la Corona ferrea: che è proprio d’oro, ed è detta “ferrea” perché secondo la leggenda la lamina del cerchio è stata ricavata da uno dei chiodi della Crocifissione. Ma tant’è: la citazione da parte dello scrittore americano resta sorprendente.
E veniamo al nostro mondo piccolo. La Corona Ferrea, simbolo del Regno d’Italia, che ha incoronato personaggi che vanno da Carlo Magno, a Federico Barbarossa, a Napoleone, sta lì, chiusa a doppia mandata, come una reliquia, dimenticata nel suo significato.
E già che il motto (detto anche, in araldica, “impresa”!) della città di Monza parla chiaro: Modoetia Magni est Sedes Italiae Regni!
I suggerimenti per un esperto di comunicazione potrebbero essere infiniti. Ne cito due:
Se Melville ha citato la Corona Ferrea, gli americani potrebbero essere un target straordinario per la promozione turistica di Monza e della Lombardia. Davanti al Duomo di Monza potrebbe esserci una coda permanente di statunitensi in visita in Italia, per i quali Monza diventerebbe una tappa obbligata.
(Mozart ha sostato forse solo una notte a Rovereto, ad ha citato casualmente il vino Marzemino nel Don Giovanni. E’ bastato a quella città per un festival mozartiano che attrae migliaia di persone ogni anno).
Se imperatori e regnanti di tutti i tempi hanno ambito di cingersi il capo della Corona Ferrea, vuol dire che, con disdoro dei leghisti, l’idea di Italia come realtà unitaria risale alla notte dei tempi.
Ci si può chiedere, allora, come mai nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, a nessuno sia venuta in mente di fare qualcosa intorno alla Corona Ferrea.
Forse perché il regno da essa richiamato è considerato un simbolo del dominio sull’Italia di personaggi stranieri. Forse per questo i Savoia, pur onorandola, non hanno rispettato la tradizione degli oltre trenta personaggi storici che si sono cinti la testa di questa corona.
Ma se si riflettesse sul fatto che dai tempi del Sacro Romano Impero, all’idea napoleonica dell’Europa, all’attuale Unione Europea, l’Italia è stata sempre intesa come una entità unitaria, ma facente parte di una realtà istituzionale più vasta (“Il Giardin dello Imperio”), forse si potrebbe quanto meno discutere sui rapporti tra l’Europa, l’Italia e Monza.
Per concludere: si possono coltivare grandi valori culturali, e trarne poi ingenti valori economici.
Oppure perseguire direttamente risultati economici che, essendo l’homo oeconomicus una finzione scientifica, non possono che essere miseri.
Si può cioè essere speculativi, ma non lungimiranti.
Pensando all’Autodromo. E di converso alla Imperial Regia Villa e Parco di Monza.
1 Chi parla è Achab, il capitano della baleniera Pequod, al quale la balena bianca (Moby Dick) ha divorato una gamba. Achab, come Giobbe e Giona, non accetta il disegno imperscutabile che Dio ha concepito per la sua persona. Ma mentre Giobbe e Giona alla fine si convertono, Achab, accecato dalla sete di vendetta, porta sino all’estremo la sua ribellione. Per finire con tutta la sua nave fatto a pezzi dal grande capodoglio, il bianco-oscuro strumento punitivo di Dio, il Leviatano.