Dossier: La verità, vi prego, sulla politica. Intervista a Roberto Scanagatti, il primo sindaco post-comunista di Monza. La formazione, le figure di riferimento, la politica che cambia
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nnanzitutto: quanti anni hai, qual è la tua professione e qual è il tuo stato familiare?
Io ho 58 anni, fino a poco tempo fa facevo il dirigente di azienda, ho sempre lavorato in ditte private. Ma non sono, ovviamente, nato dirigente, sono stato prima uno studente lavoratore, poi con la qualifica di perito elettronico a 19 anni sono stato assunto alla Ercole Marelli e nel contempo mi sono iscritto alla Università nella facoltà di Lettere e Filosofia. Era il 1974. E con la Ercole Marelli ho cominciato a girare il mondo. Sono stato in Sudamerica, in Iran, persino nelle isole Molucche. Il mio compito, e della squadra di cui facevo parte, era quello della messa in servizio delle nostre (o meglio dell’Ercole Marelli) centrali elettriche. Dovendo girare il mondo ho sacrificato purtroppo i miei studi universitari. Dopo la Marelli, dove avevo scalato diversi gradini, ho lavorato in numerose altre aziende, in qualità di dirigente. Sono sposato, ho un figlio e sono nonno di un nipotino che ora ha sei anni.
Quando nasce in te la passione per la politica?
Tieni conto che nel 1968 io avevo 14 anni e quel vento, che si scatenò anche in Italia, mi coinvolse non poco. Quando poi andai alla Ercole Marelli vissi molto da vicino, e con grande intensità, il periodo del terrorismo delle Br che in quella fabbrica, non a caso, lasciò un segno profondo il 12/11/1980 con l’uccisione del direttore centrale del personale, Renato Briano.
Quando ti iscrivi al Pci e perché lo hai scelto?
La mia iscrizione risale al 1978. Già da qualche tempo frequentavo la sezione Fratelli Mengoni, di via della Libertà. Però fu una indovinata iniziativa giornalistica a farmi fare il passo decisivo. Si chiamava G15, era la testata di un periodico di carattere politico-culturale, edito dal Pci monzese. Ne fui attratto subito. Scrivere mi è sempre piaciuto e lì potei sfogare quella mia mezza passione. Saltai completamente il periodo della militanza nella Fgci anche se nella organizzazione giovanile comunista avevo molti amici. Facevo parte di un gruppo di giovani iscritti al Pci: ci occupammo subito della Sezione, considerata molto disastrata. Facemmo un bel lavoro. Pensa che arrivammo a mettere in piedi la diffusione domenicale de l’Unità e, a riprova della nostra passione culturale, anche quella di Rinascita, il settimanale del Pci, fondato da Palmiro Togliatti. 40 copie, un record in Brianza.
Chi sono stati i tuoi i tuoi “iniziatori” o hai fatto tutto da solo?
Il più importante e decisivo fu Enrico Berlinguer, grande figura del cambiamento di quell’epoca, un difensore dei diritti civili, un esaltatore dell’impegno, il primo a porre con grande forza la questione morale e la necessità della serietà e del rigore personali. Mi conquistò. A Monza invece i miei iniziatori si chiamavano Franco Antelli, allora direttore amministrativo de l’Unità e Vladimiro Ferrari. Il mitico “Miro” era un iscritto della Mengoni, possedeva una grande carica ideale, si meravigliava di tutto eppure sapeva anche indignarsi, come un neofita. Aveva una testa giovane.
Quando hai assunto il tuo primo ruolo dirigente di Partito?
Nel 1982, come segretario del comitato cittadino. E sono il primo a ricoprire questa carica senza essere funzionario di Partito. Di giorno lavoro in azienda, che non è più l’Ercole Marelli. Nell’ufficio di via Arosio, sede del Partito, ci vado nel pomeriggio e la sera. Di soldi ce ne sono sempre stati pochi. Solo con il lavoro e l’impegno volontari avremmo potuto far quadrare il nostro bilancio.
Come sei riuscito a conciliare passione politica, professione e in seguito anche impegni di famiglia?
Non è stato facile ma ce l’ho fatta. E nell’80 mi sposo. Metto su famiglia. E continuo a tenere separati l’impegno politico da quello del mio lavoro. Lo faccio anche per una questione di libertà, mia si intende. Eppure le proposte per scalare graduatorie di Partito non mi sono certo mancate. Pur avendo il massimo rispetto per i funzionari di partito (all’epoca veramente mal pagati), quelle proposte le ho sempre respinte. Per me la politica non è mai stata un mestiere. E mi vanto di non avere mai preso un giorno di aspettativa da consigliere comunale. Usavo al massimo le mie ferie. E si badi bene che allora il Comitato cittadino del Pci non era poca cosa: contava 2500 iscritti all’incirca, 12 Sezioni e 4 cellule di fabbrica.
Non hai mai avuto momenti di crisi, di sfiducia, la voglia di smettere?
Certamente li ho avuti, soprattutto dopo qualche sconfitta elettorale che non ti aspettavi perché credevi di aver fatto tutto il possibile. Io ho imparato a non esaltarmi mai per le vittorie e non abbattermi dopo le sconfitte. È una sorta di atteggiamento laico. Altrimenti la voglia di smettere, che anch’io qualche volta ho avuto, rischia di avere il sopravvento.
La tua attività di amministratore pubblico, sia pure nelle file della minoranza risale al?
Al 1987, avevo 33 anni. Vado in consiglio comunale per la prima volta e lascio la direzione del Comitato Cittadino. Sindaco era Rosella Panzeri. Da allora il consiglio comunale non l’ho più lasciato.
Consigliere comunale, poi vicesindaco e assessore al bilancio, quindi assessore addirittura prestato al Comune di Sesto San Giovanni, quindi sindaco di Monza e vice presidente dell’Anci della Lombardia: la tua ascesa è stata costante. Dimentico forse qualcosa?
No, da precisare solo che nel ‘92 dopo la valanga di voti alla Lega Nord, tutto cambia. In tanti lasciano ed io mi trovo nel ruolo di capogruppo e in quella veste opero sino al 2002 quando, con la Giunta Faglia, divento vice sindaco sino al 2007. A Sesto San Giovanni vado per 9 mesi chiamato dal mio carissimo amico, Giorgio Oldrini, allora sindaco.
Durante questo lungo percorso ti sei sentito mai, anche per un solo momento, non all’altezza della situazione nella quale operavi? Non hai mai avuto paura di sbagliare?
Certamente. Soprattutto oggi con tutti i problemi che ci stanno di fronte e con l’impossibilità di spendere soldi che peraltro abbiamo. Una situazione da far tremare i polsi. Io posso avere tanti difetti e li riconosco tutti ma ho anche una qualità, alla quale tengo molto e che mi è stata insegnata fin dai miei primi passi in politica. Ti faccio una confessione. Quando ho deciso di presentarmi alle primarie mi è capitato di guardarmi allo specchio e di chiedermi se, una volta eletto, sarei stato veramente in grado di fare il sindaco di questa città. E non ho mai scordato che all’epoca in cui ero segretario del comitato cittadino del Pci, mi capitò di dover chiedere ad un bravissimo compagno, competente e colto, di entrare in lista per le elezioni del rinnovo di un Consiglio di Quartiere. Che non è certamente il massimo. E quello seriamente mi disse: “Ma tu, Roberto, credi veramente che io sia all’altezza di rappresentare il Partito in quella assemblea?”. Non si trattava di modestia ma della sincera manifestazione di un grande senso di responsabilità. Certo, la paura di sbagliare è sempre presente anche se la mia attuale squadra di assessori e di collaboratori mi dà tanta sicurezza.
Chi ti è stato particolarmente vicino nella tua crescita di amministratore pubblico?
I compagni a cui ho prima accennato. Su tutti Franco Antelli (fu lui, quando era capogruppo e lo è stato sino al 1992, ad assegnarmi il compito di occuparmi dei bilanci) e Vladimiro Ferrari, un vero e proprio monumento di passione politica unita ad un grande senso di responsabilità. Ricordo ancora quel che una volta mi confidò: “Ma lo sai Roberto che quando schiaccio il bottone per prendere la parola in Consiglio comunale, mi prende l’angoscia ed un tremito. Come quando pronunciai il mio primo discorso tanti anni fa”. Questo era il Miro che ha aiutato molto la mia crescita politica. Con Antelli ho imparato parecchio di amministrazione. E devo confessare che tale crescita mi è anche servita nella mia attività professionale.
Hai mai dovuto riprendere i libri in mano per studiare?
Documenti tanti e anche libri. Non mi è mai piaciuto improvvisare: la situazione è così difficile che bisogna studiarla bene per essere sempre il più possibile convincenti, e quindi informati bene su un sacco di cose. Andare a senso o per rapide semplificazioni non è possibile. Di strada se ne fa poca.
Cambiamo registro: non ti sei mai chiesto come questa città “paolotta” sia arrivata ad avere un sindaco ex o post comunista?
Confesso che il termine “paolotto” mi dà un poco fastidio. Io sono monzese dalla nascita, sono di sinistra ma non per questo mi sento estraneo agli usi e costumi di questa comunità. Antelli e Ferrari mi hanno insegnato che essere di sinistra non significa essere altra cosa rispetto a questa città. E poi da sindaco io sto scoprendo che in questa città, cosiddetta paolotta, c’è tanta solidarietà. Poco fa ho tenuto una conferenza stampa su una iniziativa che abbiamo in programma il 7 aprile e che abbiamo chiamato “Pulizie di primavera”. Siamo a Pasqua in molte famiglie tali pulizie sono una tradizione. Noi vogliamo farle a livello della città, dove ogni tanto c’è qualcuno che si muove, il Rotary, alcuni ordini professionali, associazioni, consigli di quartiere. Bene, noi vogliamo concentrarle tutte in una operazione unica. Noi ci mettiamo il cappello. E la città ha capito. Pensavamo ad una ventina di iniziative e invece ne potremo contare 52 con l’impegno di 1200 persone. Se chiedi, questa città risponde. L’importante è che i cittadini ti sentano come uno di loro e che dalla mattina alla sera operi per risolvere problemi. Ecco perché un sindaco ex o post comunista non mena scandalo. I tempi sono cambiati.
Hai forse nel tuo animo qualche nostalgia?
Del Pci intendi? Certo, mi manca quel senso di appartenenza forte che c’era allora e che in un certo senso poteva anche tradursi in un limite. Non ho certamente nostalgia del centralismo democratico, ce l’ho invece per un un Partito che aveva una linea chiara, sapeva darsi regole e le faceva rispettare. Infine ho nastalgia dell’orgoglio di essere stato protagonista, in che misura non importa, di un grande processo di rinnovamento del paese.
Come è cambiata, per te, la politica monzese e non oggi rispetto al passato?
È tutto un altro film quello che stiamo girando. Quasi tutto è cambiato, soprattutto dopo il 1992. Io sono convinto che la nostra attuale crisi affondi le radici in Tangentopoli, fenomeno di malaffare con il quale non si sono fatti mai i conti sino in fondo. Non li hanno fatti i Partiti dei tangentari e non li abbiamo fatti nemmeno noi. E oggi ne paghiamo le conseguenze.
Ricordi ancora il tuo primo giorno in consiglio comunale e il tuo primo intervento in aula?
Con precisione non lo ricordo. Dovrei andare in archivio e consultare i verbali dell’epoca. Ma certamente ho affrontato, con un testo diligentemente scritto e poi letto in aula, con tanta preoccupazione, il tema di un bilancio. La consegna di Franco Antelli era molto precisa: toccava a me parlarne.
Ultima domanda fuori tema ma importante: come ti difendi dalla accusa degli ambientalisti di perseguire la strategia del cemento delle Giunte precedenti?
L’accusa d’essere un cementificatore la rifiuto, non posso accettarla. C’è tutta la mia storia a dimostrare il contrario. Il mondo ambientalista monzese è molto vasto, ha impiegato un paio di decenni a costruire una sua credibilità. Attenti a non sprecarla. Quando sento che anche nella riqualificazione delle aree dismesse ci sarebbero elementi speculativi, mi cadono le braccia. È una accusa gratuita che mi offende e offende la mia squadra. Temo ci sia una dose di strumentalizzazione politica che non so da quale parte porti.
Abbiamo finito. Ma prima di salutarci mi puoi indicare, in maniera secca, un obiettivo di sinistra che ti sta a cuore?
Certamente. Per me è Il lavoro. Che è oggi la madre di tutte le emergenze, per usare le parole della presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini.
Considerazione finale dell’autore di questa intervista. Nessuno nasce “imparato”. Tu ci puoi mettere intelligenza e passione ma non basta. La scuola politica di Roberto Scanagatti è stata di prim’ordine e si sente. Ecco perché è necessario fornire anche alle giovani generazioni occasioni analoghe. L’antipolitica si batte con una buona politica (che è un’arte, non una maledizione) ma essa deve essere prima di tutto insegnata, letta, scritta e studiata. Come appunto si fa a scuola.