Partiamo dai fatti. Per due settimane, in Italia, si è tornati a
parlare di cinema. Sui giornali, nei luoghi della cultura e del
confronto politico, per strada, nei bar. Per un momento, con la nuda
realtà del loro film, Garrone e Sorrentino hanno restituito il cinema
italiano ad una dimensione apertamente sociale, culturale nel senso più
ampio della parola. E questo sia detto con buona pace della crisi
sempiterna, dei festival troppo patinati e dei critici da orticello.
Ora, io non so dire quanto di questo fenomeno fosse fumo commerciale
uscito dagli alambicchi del marketing, ma mi è capitato personalmente
di camminare per strada, parlando di Gomorra con un'amica dagli occhi
oceanici, e incrociare dall'altro lato del marciapiedi due sconosciuti
che discutevano del Divo.
Amici che lavorano in multisala diversi mi raccontavano ancora
settimana scorsa di sale piene fino all'ultima poltrona, e io stesso ho
assistito a proiezioni in cineteca con persone disposte a restare in
piedi pur di entrare.
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Del resto, lo stesso libro di Saviano era riuscito a filtrare
attraverso le cerniere tribali che articolano la società, fino a
connotarsi come evento culturale nazionale. Il carattere aggregante e
collettivo dimostrato da questi oggetti mi spinge a deviare dagli
orizzonti del consumo, per concentrarmi piuttosto su quel che di loro
si può dire in quanto prodotti specifici dell'industria culturale. È
evidente fin da un primissimo acchito che siamo di fronte a qualcosa di
non totalmente previsto. Un saggio-inchiesta sui traffici economici
della camorra e un film italiano che non parla d'amore si collocano in
leggera controtendenza rispetto ai canoni del nazional-popolare. Per il
Divo potremmo – al limite – invocare l'effetto Travaglio e la temperie
di qualunquismo antipolitico che si aggira per il Paese. Ma Gomorra?
Cerchiamo di andare a fondo.
Quello che abbiamo di fronte non è un film neorealista. Non è un
documentario. Non è nemmeno un film di pura finzione. Molti ne hanno
discusso come di un'opera di denuncia, erede della tradizione dei Rosi
e dei Petri. Un'opzione legittima, ma inadatta a cogliere la natura
intrinsecamente ambigua di Gomorra. L'aggettivo non è scelto a caso: in
più di un'intervista Garrone ha preso le distanze da chi gli attribuiva
intenzioni moraliste, ribadendo piuttosto la volontà di mostrare
l'ambiguità, i confini incerti che separano legalità e illegalità in un
sistema chiuso come quello che racconta.
Ora, io credo che sia proprio questa qualità ambigua ciò che avvince e
fa problema in questo film. Garrone e i suoi hanno lavorato quasi a
canovaccio, portando sul set un abbozzo di soggetto e poco più, per
lasciare che fossero gli attori del luogo a improvvisare le battute, a
immedesimarsi nei loro personaggi.
Toccafondo – l'aiuto regista – in un incontro in Cineteca ha ricordato
come Gorrone fermasse l'azione non appena la tecnica fosse troppo
visibile, lamentandosene: «no, fermi. Così non va: state recitando». Il
regista – ha raccontato ancora Toccafondo – lavorava come operatore,
seguendo la scena nel suo svolgersi e costruendo una sorta di
drammaturgia in macchina, senza dirigere l'azione che – anzi - pareva
svolgersi da sé.
Intorno alla troupe, poi, c'era sempre un capannello di gente del
luogo, intenta a commentare, consigliare, discutere sulla
verosimiglianza o l'efficacia delle scene.
Certo, a rischiare questo gioco delle parti erano pur sempre attori
professionisti, d'accordo. Garrone lo ha sottolineato più volte e si
capisce: il punto è cruciale. Ma di che professionisti parliamo?
Aspiranti attori di teatro, piccoli operatori di spettacolo, tutti
comunque fortemente legati a quel contesto.
A quella realtà ambigua, in cui la contiguità con il sistema è
genetica, generalizzata, e non si vede perché gli attori dovrebbero
fare eccezione.
Uno degli l'interpreti, un ragazzino che nell'episodio di Totò lascia
le vele come “scissionista”, era in lizza per il ruolo da protagonista:
ma rinunciò, per non interpretare – lui davvero legato agli
scissionisti - la parte di un fedele dei Di Lauro.
Uno dei boss che ordinano l'uccisione di Marco e Ciro, nell'episodio
casalese del film, è davvero un boss camorrista, che ha accettato di
interpretare la parte di sé stesso per «dare visibilità al clan».
La sequenza in cui i due amici scherzano sulla spiaggia, cantando sopra
un pezzo neomelodico al juke-box, è stata del tutto imprevista. La
troupe si trovava sul posto per girare la sequenza della sparatoria
finale, nell'attesa che la luce fosse quella giusta, e i due attori
hanno improvvisato.
Ma l'intera sequanza ha rischiato di non esserci nel montaggio finale,
perché l'autore di quella canzone non poteva concedere i diritti: è
latitante da tre anni. Alla fine si è scoperto che casualmente uno
degli attori di un altro episodio è un suo intimo amico, e la firma è
arrivata in tempo.
Racconto questi aneddoti (che ho raccolto dalla voce dello stesso
Garrone) per dire che proprio la contiguità geografica della produzione
con quella materia sociale e umana ha generato il portentoso effetto di
realtà che tutti hanno riconosciuto, nel suo impatto durissimo e
impietoso.
Ma questo impatto è stato ottenuto al prezzo di limitare il filtro
degli autori – e quindi la possibilità stessa di una critica
consapevole - ad una drammaturgia dell'esistente. Vorrei sbagliarmi, ma
quello che sento in Gomorra è la messa in forma – per così dire – di
una complessa auto-rappresentazione, ottenuta per e in grazia del
sistema stesso, che ha concesso gli spazi, le storie, gli uomini: una
sciarada mediale che per chi vive quella realtà alienata temo appaia
più simile alla celebrazione dei propri riti e miti, che non a una
qualche presa di coscienza.