de
A vent’anni dalla caduta del Muro
Riceviamo e pubblichiamo
Quando penso al Muro di Berlino non posso non tornare a un’estate del 1988. Avevo 11 anni. Attraversavo la terra di nessuno tra i due muri (ce n’era uno molto più “serio” alcune decine di metri indietro verso Berlino Est, fortificato, con filo spinato e torrette). Pensavo a queste persone divise (e non sapevo ancora che la bellissima Futura di Dalla era nata così). Pensavo all’enormità della Storia con la s maiuscola sulle loro teste e sulle loro vite. E la sentivo pesare anche sulla mia di ragazzino. Tanto che quella è la prima volta in cui so di aver pensato che sarei finito. Più che morto, finito. Che un giorno io non ci sarei più stato. E il mondo invece si. E con lui quel muro che mi sembrava uno di quei segni forti del mondo, come la tour Eiffel, la statua della libertà e cose simili. Ironia della sorte, o meglio della storia, il muro sarebbe crollato di li a un anno. E nell’impeto che lo travolse abbiamo tutti sentito risuonare il desiderio di libertà, di un mondo migliore che superasse l’incubo della minaccia atomica e la rigida morsa dell’equilibrio armato che aveva trovato il mondo dopo due guerre mondiali. Una pace armata di un’umanità al tempo stesso sconvolta dal punto raggiunto dalla banalità del male durante la guerra, e tuttavia schizofrenica tra spinte di redenzione e cupa accettazione dei blocchi confezionati ad Yalta. Io ragazzino di una famiglia della sinistra libertaria, che aveva creduto nel ’68 e tifato per i ragazzi della rivoluzione di Praga come per quelli di quella dei garofani a Lisbona, che mi aveva cresciuto con il rifiuto tanto dei Pinochet che degli Ceausescu, tanto degli Hitler che degli Stalin, e che tifava per Gorbaciov e per la sua Perestrojka e per Padre Jerzy Popieluszko e Solidarnosc, io con nel cuore il gelo della terra di nessuno nel centro di Berlino ed il fascino fantascientifico di Alexander Platz in questo anniversario che rischia di diventare ancora strumento di nuovi muri non posso non pensare ai ragazzi di Berlino di allora, alla loro gioventù oppressa dalla cappa e dal grigiore di una DDR che era il massimo esempio di quanto può diventare brutale e disumana l’uguaglianza senza la libertà. Ma insieme a loro non posso non pensare a tutti quei ragazzi a cui crollava il sogno, l’ideale di un mondo più giusto in cui dare a ognuno secondo il suo bisogno e chiedere a ognuno secondo le sue capacità, e in cui permettere ad ogni talento, ad ogni uomo di realizzarsi al pieno delle proprie inclinazioni. E non pensare oggi ai figli di quei ragazzi dell’est, alle loro vite catapultate insieme alle nostre nei “sogni indotti”del consumismo, ai viaggi disperati di tanti ragazzi e ragazze verso le promesse del nostro successo facile, e alla deriva nazionalista e nera che soffia sull’Europa proprio da est. E ad un Papa polacco che ricordava “le esigenze da cui il socialismo reale aveva preso le mosse, cioè lo sfruttamento a cui un inumano capitalismo aveva sottoposto il proletariato”, a Riga nel settembre 1993. Wojtyla, che più di chiunque aveva contribuito a combattere e battere quella costruzione priva di anima e di libertà, già vedeva un nuovo nemico, forse più pericoloso, quel consumismo che è la moderna fonte dell'alienazione e deformazione antropologica e valoriale. Dopo venti anni c’è ancora molto di cui gioire, a partire proprio da come Berlino ha saputo ridisegnarsi e ripensarsi, una delle città in cui architettonicamente e socialmente memoria e futuro vanno a braccetto e la cui capacità attrattiva per le nuove generazioni è fortissima. Ma più che lanciarsi in festeggiamenti a volte con il sapore di una sterile rivalsa forse occorrerebbe riflettere su che fine ha fatto quel desiderio, quel sogno di libertà che percorreva l’Europa delle cortine infrante e come riprendere in mano la lotta di quei ragazzi per una libertà piena di tutti gli uomini senza differenze di credo, ceto, razza, orientamento sessuale. I muri da abbattere di fronte a noi sono ancora molti.