La notizia dell’intenzione della Glaxo di chiudere il centro di ricerca di Verona è stata per me un piccolo colpo al cuore.
Ricordo che a metà degli anni trenta, avevo quattro o cinque anni, circolava per casa un opuscolo pubblicitario intitolato “Il Bambino Glaxo”. Pensavo a questo bambino con una certa angoscia, lo vedevo, oltre che grasso, un po’ gonfio, deforme. Ma ora è tra i buffi e piacevoli ricordi della mia infanzia.
Da adulto, passato da Roma alla Lombardia, e avendo un mio figlio messo su famiglia a Padova, ho frequenti occasioni di percorrere l’autostrada Milano-Venezia. Nel percorso, Verona si annuncia con una grande costruzione su cui fino a qualche anno fa era scritto “Glaxo, Centro di Ricerca” o pressappoco. Poi l’insegna è stata cambiata in “Glaxo-SmithKline”. Cosa che non mi sembrava di buon auspicio, ma che mi sono spiegato con le inevitabili razionalizzazioni (!) delle multinazionali, causa ed effetto delle tante fusioni e acquisizioni degli ultimi tempi.
Perché questo mio affetto apparentemente irragionevole per la Glaxo? Perché mi sembrava un simbolo permanente della attrattività dell’Italia, perché pensavo che Verona ne fosse un esempio, dovuto non solo alla felice posizione geografica, ma anche alla bellezza artistica e naturale del luogo e alle reminiscenze shakespeariane.
Se il Centro di ricerca Glaxo di Verona chiude, per me è una conferma dolorosa del degrado inesorabile del nostro Paese. Che sta perdendo non solo la sua attrattività economica, ma anche quella culturale, artistica e naturale, quella che spingeva gli stranieri, in tempi ormai remoti, a intraprendere l’irrinunciabile “Viaggio in Italia”.
Io non smetto di sperare in un rinascimento, ma non vedo ancora la luce in fondo al tunnel.
La Glaxo e l'Italia
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- Di Giacomo Correale Santacroce