Nel giorno del ventesimo anniversario della strage di via D’Amelio, Monza sembra aver ricordato con troppo poco slancio che la memoria di certe pagine della storia va rinnovata.
Ieri ricorreva il ventennale di quella domenica 19 luglio 1992, quando scomparve anche Paolo Borsellino, il secondo (dopo Giovanni Falcone) dei giudici che oggi prestano il loro nome illustre a illustri vie e piazze del nostro Paese.
Venti anni. Che avrebbero dovuto far nascere spontaneo l’istinto di cercare su Google cosa avrebbe fatto la propria città per ricordare, dando per scontato che qualche cosa sarebbe stata fatta. O quanto meno, ci si sarebbe aspettati, oltre a qualche sparso annuncio sui giornali, voci, volantini e cartelloni (licenze permettendo), inviti impazziti su facebook: qualunque cosa invogliasse la cittadinanza a partecipare alla commemorazione.
E invece.
Dispiace deviare il discorso dalla nobiltà dell’evento che lo ha generato, ma se chi questo evento lo ha organizzato ha mancato i propri obiettivi, la critica è incontenibile.
I sindacati e Libera hanno dato appuntamento alla cittadinanza in mattinata, davanti al Tribunale. Desolante la mancanza di persone estranee ad associazioni e giornali e assordante il chiacchiericcio di molti partecipanti (che, si ripete, erano sindacalisti o associati). Fuori dai denti: erano in pochi e tra quei pochi che c’erano troppi parlavano dei fatti propri.
Chi lo ha organizzato lo ha fatto con le più sincere motivazioni e si è trovato persino di fronte alle difficoltà di comunicazione pubblicitaria che questa città oppone. E non ha colpe se hanno partecipato in pochi e se addirittura sapevano, in pochi. Ma della pigrizia e delle licenze si è già detto.
Bisogna anche fare autocritica: perché invitare a portare un pensiero in piazza, e sentire da parte loro quelle parole già sentite milioni di volte, non è ciò che si ha voglia di fare in una rovente mattinata di metà luglio. Per chi se lo stesse domandando: sì, nell’aria sono volati i soliti «La mafia è una montagna di merda» e «Non li avete uccisi, le vostre idee camminano sulle nostre gambe».
La sera invece, giovani di età media 21 anni, qualche personalità politica in più e poca gente perché era giovedì. Esatto, giovedì: quella sera alla settimana in cui, d’estate, i negozi a Monza restano aperti fino a sera tarda.
E in quella sera, si è preferito che tutto procedesse come al solito (modificando addirittura poche ore prima anche il luogo di ritrovo del corteo: piazza del Tribunale anziché piazza Carrobiolo, la seconda circondata da negozi, la prima no), anziché chiudere le attività proprio in onore della commemorazione, dando così un segnale o quanto meno far sapere alla cittadinanza che qualcosa di ammirevole stava accadendo. Una volta tanto.
Tra i diversi momenti della giornata, da segnalare gli interventi di Luca Basanisi, studente 24enne in fisica e coordinatore del gruppo giovani di Libera Monza e Brianza: l’unico che abbia cercato di coinvolgere i presenti con un pensiero tutto suo sulle mafie e sull’impegno sociale.
Dell’assessore alle Opere pubbliche Antonio Marrazzo, che si è opposto a un tempo come il nostro dove «sembra che sia tutto concesso».
Del referente di Libera Monza Valerio D’Ippolito, che ha sottolineato la «natura fin troppo territoriale della mafia e della necessità che la lotta ad essa si svolga soprattutto a livello locale», in barba a chi ha sempre sostenuto che al nord le mafie non esistono.
Di Walter Mapelli, sostituto procuratore della Repubblica a Monza che ha espresso il pensiero più proficuo della giornata: «Falcone e Borsellino ci hanno insegnato a uscire dall’ipocrisia della separazione tra magistratura e cittadini: la magistratura vuole e deve essere tra la gente. E, se penso alla condizione in cui vivono oggi molti mafiosi, costretti in cunicoli sotterranei e lontani dall’idea di nababbi che immaginiamo e che appartiene a un’epoca passata, capiamo quanto sia stato incisivo il loro lavoro e che non sono morti invano».
Diciamo la verità: la commemorazione, già dalla parola, è noiosa. Nella mente di chiunque pronunci questa parola balzeranno subitanee le immagini di quelle ore interminabili di lezioni saltate a scuola per partecipare alla commemorazione del 27 gennaio (il giorno della memoria per eccellenza, quello per la Shoah): mai, forse, lezione mancata fu più rimpianta.
La commemorazione è noiosa perché è sempre stata svolta (ancor prima che vissuta) come un obbligo. Quando si parla di “dovere di ricordare”, però, non si fa affatto riferimento a un obbligo. Il dovere, in questo caso, ha a che fare con il senso civico, con il legame profondo alle proprie radici, in definitiva con un bisogno necessario di non dimenticare qualcosa che ci ha visti vulnerabili e quindi attaccabili, e che ci ha fatto perdere qualcosa.
E, anche qualora di obbligo si trattasse, nel caso specifico dei giovani nelle scuole, bisogna mascherarlo, giocarci, camuffarlo, affinché si crei anche in loro quella curiosità e quel bisogno di andare a fondo e di conoscere, per poi sentire il dovere ricordare.
Se è vero che i giovani sono il futuro, viene spontaneo chiedersi se, così facendo, invece non facciamo altro che rinnovare in loro quella noia e quel rifiuto tipici di chi vive come troppo lontani certi eventi e non trova il senso della loro commemorazione.
Questo sarà vero sino a quando il ricordo avverrà nella forma di conferenze condotte e vissute senza entusiasmo, o di proiezione di documentari soporiferi, fino a quando non si faranno fare delle cose a questi giovani: gite, giochi, qualunque cosa susciti in loro una curiosità anche minima, che serve giusto a far scattare l’attenzione. Dopo, sarà più facile tenerli attenti, perché l’argomento da solo farà la sua parte. Ma è lo stimolo iniziale che conta, è la capacità di ricordare noi stessi per primi, con l’orgoglio e l’entusiasmo di chi è cosciente che tutto ciò a qualcosa è servito.
Fino a quando le cose resteranno tali, Monza che non risponde e i giovani che sbadigliano saranno lì a suggerirci che stiamo ricordando male.