L’attuale situazione generale e il contesto nel quale si inserisce l’attività delle 70.000 imprese della Provincia di Monza e Brianza (che userò come osservatorio per questa riflessione) offre uno scenario che deve essere valutato con rinnovate attenzioni dal PRC.
L’analisi mi è stata sollecitata da quella che è stata la composizione della lista Comunista, Socialista e Ambientalista con la quale abbiamo ottenuto un ottimo risultato nella cattolicissima Brianza alle ultime elezioni: lavoratori autonomi, liberi professionisti, consulenti, commercianti, artigiani e piccoli imprenditori. Si può tranquillamente affermare che tra le 12.500 persone che ci hanno votato i lavoratori dipendenti sono solo una parte, l’altra non meno importante, è composta da donne e uomini (molti giovani) che hanno scelto per amore o per forza di dedicarsi ad attività “in proprio”.
Appare chiaro quanto il popolo delle cosiddette partite iva, che ha una composizione variegata quanto precaria, sia una moltitudine che opera nel campo di un profit, quasi sempre pulito e che lo fa in completa solitudine.
Non è raro, che questi lavoratori abbiano una spiccata predisposizione alle relazioni con soggetto pubblici e privati improntate su percorsi che potremmo definire etici, responsabili e sostenibili. Lo fanno perché sono “bravi” ancor prima che “buoni” e sanno che oggi per competere - se non simpatizzi con chi falsa le regole del gioco in senso criminale – devi assumere la qualità, l’attenzione all’ambiente e la sicurezza come biglietti da visita da esibire sui mercati globali.
La moltitudine “indipendente” (tra questi spicca l’area del cosiddetto terziario avanzato, dei servizi, dei lavori intellettuali) non gode di posizioni di rendita né presso i le lobby di potere delle associazioni imprenditoriali, né presso la famiglia della “grande” cooperazione, ma neppure (purtroppo) presso i sindacati che non hanno una dimensione reale di questo spaccato della società. La massa “autonoma” vede le Istituzioni come il luogo di compensazione di una macchina burocratica che li opprime e le parti sociali come una parte del “carrozzone” assistito e protetto.
Si sentono soli di fronte a ritardi nei pagamenti insopportabili, che limitano la liquidità e quindi la possibilità di fare fronte alle necessità quotidiane. Si sentono vittime di meccanismi assurdi di cui si rende protagonista una Pubblica amministrazione che non facilita i rapporti territoriali e chiede tanto senza nulla dare in cambio. Si trovano a combattere con un sistema bancario che “apre l’obrello quando c’è il sole” ma è sordo alle richieste di quanti assillati dai debiti sono costretti a chiudere.
Il PRC non può più permettersi di appoggiare solo politiche di natura assistenziale, pur necessarie in tempi di difficoltà, ma che rischiano di entrare più in competizione con le azioni caritatatevoli della curia che di risolvere in modo duraturo i problemi di chi rischia di precipitare nell’indigenza. Rifondazione non può esimersi da pensare a prospettive nuove per quella platea sempre più ampia di lavoratrici e lavoratori che espulsi dalle fabbriche cercano nuovi percorsi per collocarsi e che spesso si tuffano nel mare in burrasca di un’attività di micro-impresa “destinata a soccombere alla crisi.
Il nostro Partito non può non ritenere parte del suo popolo, tale quantità di persone esposta a percorsi borderline con l’illegalità e le sirene delle mafie, degli strozzini; con la tentazione costante di scorciatoie che cerchino soluzioni ai problemi tramite risposte che alimentano l’incultura dell’evasione fiscale.
Oggi cominciano ad affiorare ambiti di autonvocazione di queste soggettività all’interno dei quali anche noi dobbiamo avere un ruolo attivo per evitare che prevalga una deriva genericamente ribellistica, che spesso coltiva il germe del razzismo e dell’egoismo.
Dobbiamo essere una sponda credibile e dobbiamo farlo con proposte concrete che rappresentino una reale alternativa ai corporativismi alimentati dalla Lega Nord. Messaggi chiari e rinnovati anche nella forma, per questa gente che si oppone alla rottamazione di sé stessi e che mal accolglie i prepensionamenti forzati.
Imperativo assoluto dovra essere l’attenzione sia ai processi locali e che agfli sviluppi globali. L’internazionalizzazione va vista come un’opportunità anche contro la delocalizzazione; l’attivazione di percorsi formativi e gli investimenti sulla ricerca dovranno essere assunti come perte integrante dei nostri programmi.
Dobbiamo essere motore di nuovo lavoro, attraverso progetti di sviluppo sostenibile e alternativi a quelli che hanno creato devastazione ambientale. Bisogna favorire nuove intese territoriali, dove le parti sociali rinnovino il proprio ruolo in chiave propositiva in modo da essere percepiti come soggetti attivi.
Quindi, mutualismo, economia verde, bioarchitettura, edilizia sociale saranno le parole d’ordine per un mercato veramente equo e solidale.

Un Nuova Economia alla quale chiamiamo a collaborare il popolo delle partite iva e al quale ci impegnamo in 7 punti mirati di programma politico:
1. Migliore l’accesso al credito
2. Sburocratizzazione dei rapporti con la Pubblica amministrazione
3. Proporre sgravi fiscali per chi non chiude, non licenzia, non delocalizza e dà lavoro stabile
4. Formazione e ricerca
5. Sicurezza sui posti di lavoro come marchio di qualità
6. Lotta alla concorrenza sleale e alle infiltrazioni mafiose
7. adozione di reti solidaristiche fondate su progetti etici e bilanci trasparenti

Un impegno particolare dovremo riservare alla piccola impresa femminile, alle donne che anche in questo campo sommano impegno lavorativo ad impegno famigliare.
Indagare senza preconcetti la cosiddetta questione settentrionale ci servirà per conoscere meglio l’Italia, per capire meglio cosa è avvenuto che ha prodotto l’involuzione culturale che a volte sembra sovrastarci.
Cerchiamo di capire che volto hanno queste donne e questi uomini, “micro imprenditori” che lavorano da soli o spalla a spalla con pochi collaboratori con i quali, di questi tempi, condividono poche gioie e tanti dolori.
Facciamo inchiesta sulle piccolissime imprese (in Brianza la stragrande maggioranza) dove il sindacato non entra, dove il rapporto col padrone è di tipo paternalistico, dove puoi finire sulla strada da un giorno all’altro senza nessun preavviso.
Appropriamoci, di uno spazio che non è mai stato, neppur parzialmente, nostro. Allora, troveremo il terzista che lavora con tutta la famiglia nel sottoscala, che ha comprato la macchina utensile per vivere all’ombra di una multinazionale e che ora è come se si fosse comprata una croce. Parliamogli senza tatticismi o bizantinismi, usiamo il linguaggio della gente comune e non quello del ceto politico. Facciamolo all’estremo nord, che è purtroppo la metafora di un Paese che va a destra, e facciamolo nel resto d’Italia sapendo trovare i linguaggi adatti ai diversi luoghi, alle diverse categorie sociali diversamente distribuite sui territori, ma così unificate dalla crisi.
Facciamolo anche nei confronti del lavoro autonomo, proprio noi che dell’autonomia di pensiero abbiamo fatto una bandiera; cerchiamo con questi mondi un patto per il progresso, senza esitazioni o tentennamenti, forti delle nostre idee.
Se ci riusciremo, dimostreremo che la Rifondazione di un pensiero Comunista è anche questo.

Vincenzo Ascrizzi