Oneiros Teatro
Associazione Culturale
Presenta
Anime Selvatiche
Liberamente tratto da Henrik Ibsen: Elaborazione drammaturgica:
Casa di bambola, Quando noi morti ci destiamo, Gloria Geoni
La Donna del mare, Casa Rosmer, Hedda Gabler Alessandro Wagner
Ispirato a Lou-Andreas Salomè: Figure di donne
Regia: Gloria Geoni Alessandro Wagner
Luci: Giorgio Menegardo
Personaggi e Interpreti:
L’Anitra Selvatica: Rosi Tortorella
Nora: Adriana Dell’Arte
Irene: Ornella Rossetto
Ellida: Nicoletta Vitelli
Rebekka: Patrizia Sinatra
Hedda: Ilaria Balucani
Fortemente ispirato all’interpretazione psicanalitica di Lou-Andreas Salomè: mette a confronto sei figure di donne dell’opera matura di Ibsen. L’anitra selvatica, considerata come l’emblema della natura più profonda e libera, è la vera protagonista nella poetica fiaba che avvolge il dramma di cinque personaggi femminili. In ogni essere umano, crediamo, si celi, talvolta molto nel profondo dell’animo, l’anitra selvatica. Col passare del tempo molti credono di dimenticarla dentro di loro, non l’ascoltano più, la scordano, e vivono la loro vita senza slanci, spinte, aneliti che li possano far andare avanti, seguendo la propria vera natura. Però, può succedere che uno strano accidente, un avvenimento, una tempesta improvvisa, un enorme dolore, risvegli l’anitra selvatica assopita, l’anima addormentata. Non resta quindi che ascoltarla, seguirla o semplicemente restare malinconicamente fermi, dolcemente indifferenti al suo richiamo. Ci sarà chi d’improvviso muterà repentinamente il corso della propria vita o incoscientemente o alla ricerca di una matura indipendenza che possa condurre a una libertà responsabile verso il mondo circostante. Oppure chi lentamente muterà anche solo lo spirito che anima le cose che continua a fare nello stesso modo. Oppure chi non riuscirà a continuare a vivere e soccomberà a questo richiamo irresistibile. Dov’ è la vostra Anima Selvatica?
C’era una volta una soffitta. Le pareti basse scendevano oblique verso il pavimento di legno e la luce filtrava a fatica dagli abbaini coperti di ragnatele e dalle fessure del tetto. Perché in quella soffitta gli uomini tenevano prigionieri animali di tutti i tipi e li disabituavano, con l'educazione e la disciplina alla loro libera vita naturale. In un angolo semibuio c'era una cesta che ospitava la più nobile fra tutte quelle creature private della loro libertà: un' anitra selvatica, cioè un "vero selvatico". Non solo pareva la più nobile fra tutte quelle creature, ma anche quella più da compiangere. Perché se i suoi compagni potevano adattarsi magari volentieri a quel paradiso artificiale – un uccello selvatico in una soffitta: non è necessariamente una tragedia?
A questa domanda si possono dare alcune risposte, cinque storie diverse.
Forse l'anitra è stata tolta dal nido materno e messa tra gli animali domestici quando era ancora un uccellino implume e indifeso. Totalmente ignara della sua vera natura e della sua origine, viziata da costanti riguardi e preferenze, si diverte innocentemente nella sua soffitta, come in una grande e allegra stanza dei giochi. Quel che lì vede e trova non da.certo l'impressione di un mondo reale ai suoi limpidi occhi di uccello selvatico. Diventa a poco a poco capace di volare. Ma giunge, ahimè, la stagione in cui le tempeste scuotono l'abbaino, in cui un colpo di vento di inaspettata violenza finisce per spalancarlo, e improvvisamente alla piccola anitra selvatica si rivela la vista della terra e del cielo. Con le prime fluttuanti onde di luce che sorgono libere sopra di lei, qualcosa sorge anche in lei, come un ricordare, un riconoscere, come l'alito e il profumo di una patria, che si stende remota al di sopra di tutte le soffitte e le prigioni. Ancora non sa dove sia la sua patria, sa solo che non può essere lì, glielo dice un irresistibile istinto, una violenta nostalgia, che la costringe a spalancare le sue giovani ali, allora si libra verso l’ignoto, l’infinito, per scambiare la grande stanza dei giochi con il Tutto.
Ma forse è l’anitra selvatica stessa a cercare di proposito la morte nell' angusta prigione. Forse non è valso a niente che si sia abituata a vivere in quel luogo, o che addirittura vi sia volata spontaneamente. Questa volta è un uccello audace e temerario che si è lasciato sedurre dall'idea di imporre il proprio dominio su creature deboli e addomesticate. Il suo piano ha un successo che va di là di ogni aspettativa. Gli animali domestici sono a tal punto intimiditi dalla sua superiorità, che presto tutti finiscono per piegarsi e sottomettersi. Dello scompiglio e del sovvertimento dell' ordine tradizionale che questo necessariamente comporta, l'anitra selvatica non mostra la minima preoccupazione: la sua è la legge del più forte. Ma i compagni più deboli invece si vendicano di lei. Certo non con la violenza e l'ostilità, di cui l'anitra selvatica sa avvalersi meglio di loro, ma con l'amore e l'amicizia con cui 1'avvincono sempre più strettamente a sé. Ed è così che lasciano che il pericolo nascosto compia la sua opera: il pericolo dell'influenza del domestico sul selvatico, il contagio della debolezza sulla forza. Pian piano, furtiva, come un ladro nella notte, incomincia a insinuarsi nel suo essere una coscienza da animale domestico. Emerge lentamente dall'umida penombra della soffitta un inconsistente spettro sinistro che snerva e fa rabbrividire. L’anitra selvatica si è "nobilitata", come dicono gli uomini, ma a lei, creatura selvaggia nata in libertà, pare soltanto di essere diventata triste e malata, debole e misera. Può dunque accadere che un giorno gli uomini, le aprano una finestra del tetto senza che lei osi volare. Sanno di poter lasciare aperte le porte della sua prigione, perché più forte di ogni vincolo esterno è la catena che ha dentro, ormai prigioniera del potere della docilità. Ma troppo presto hanno esultato, perché un' anitra selvatica finisce per riappropriarsi della libertà, anche se è una libertà diversa da quella che aveva sognato. Mentre se ne sta lì appollaiata, appoggiata con nostalgia alla finestra aperta, viene colta da un confuso smarrimento. E' inesorabilmente presa dalle vertigini ... si sporge ancora un po', e poi sempre più, finché precipita sul selciato del cortile.
Ma forse ci sarebbe una soluzione, se l’anitra selvatica non si estraniasse dai suoi domestici compagni , se fosse volata in quel rifugio sotto il tetto spinta da necessità e inesperienza, con mite timore. Non appena si avvede che con quel suo volo si sarebbe irrevocabilmente condannata alla prigionia è colta da un immenso dolore - selvaggio e violento - per la libertà perduta. Non fa che svolazzare da una parete all' altra, vagando smarrita e sbattendo le ali tremanti. Gli uomini tentano invano di mitigare la sua nostalgia offrendole e concedendole tutto ciò che potrebbe conciliarla con la sua permanenza fra loro. Ma lei quasi non se ne accorge, non arriva a vedere quanto è curata, coccolata, perché continua a vivere in mezzo a loro come un'estranea, chiusa nel suo isolamento.-Dominata unicamente dal pensiero della sua prigionia, è così distante dagli altri nel suo dolore e nella sua desolazione, che non si rende conto di quel che le accade intorno. I suoi padroni e i compagni sono stregati dalla sua natura selvaggia ma lei resta tormentata dal suo struggente anelito per l'irraggiungibile. Uomini e animali non possono stare inermi a guardarla lentamente morire di quell'incessante, inguaribile nostalgia: più grande ancora del loro desiderio di trattenerla e stringerne i legami è il loro amore per la povera prigioniera. Così decidono di dirle addio e con tristezza, ma senza esitazione, le aprono la finestra. Accade l'incredibile, l'incomprensibile: l’anitra selvatica, libera di farlo, non vola via. E neppure si getta giù. E' come se un maleficio le cadesse di colpo di dosso, non appena le è concesso di muovere liberamente le ali. Poiché era solo il terrore della prigionia a spingerla alla rivolta. La paura di una creatura nata libera, che mai può adattarsi alla costrizione e alla cattività. Ma l'amore che le ha ridato la libertà dissolve in lei ogni ombra e la generosità di quel gesto le rivela quanto saldo sia il legame che la unisce ai suoi docili compagni e quanto profondamente appartenga a loro. Non vuole abusare delle sue ali, ma solo poterle spiegare e muovere a suo piacimento; non per abbandonare i compagni, ma
per rimanere tra loro libera nell' amore.
Forse, se gli uomini potessero vivere questa umiliante e felice esperienza non chiuderebbero più gli abbaini delle loro soffitte; aprirebbero nuove, grandi finestre nei muri, per far circolare liberamente luce e aria e lasciare che gli uccelli entrino ed escano a loro piacimento. Quale creatura potrebbe mai rimanere esclusa da un luogo simile, da una tale comunione? Può essere solo un uccello condannato a rimanere estraneo fra i suoi simili. Un uccello che non ha in realtà un vero anelito ad andarsene perché manca dell' audacia di chi è nato libero, ma disprezza anche la protezione e la pace che regnano fra i suoi compagni, perché altrettanto gli manca la sensibilità e la mitezza di chi è addomesticato. Incapace di lottare contro le regole della società, è costretto a rimanere per sempre nella sua impotente inquietudine, cieco al vasto mondo esterno della libertà, nella cui luminosa bellezza non sa vedere che una minacciosa e vuota lontananza, ma senza occhi anche per il piccolo mondo che lo circonda, perché anche nel nido più caldo non sa vedere che limitatezza. Opponendosi con avversione all'istinto di ogni creatura di crearsi una casa, si condanna a perdere l'istinto vitale stesso. Non resta perciò per lui alcuna forma di esistenza possibile nel mondo di chi vive e crea, e neppure più un modo per evaderne. A meno che non finisca per cadere nelle mani degli uomini, liberando così la vita da un'esistenza inutile: una rapida morte davanti alla canna di fucile del cacciatore.
Ma forse alla piccola anitra è dato in sorte un caso sfortunato. Una tempesta arriva a scuotere le porte della sua prigione, un colpo di vento le spalanca con violenza improvvisa. Una cocente delusione quando viveva libera nei boschi e amava la luce, le ha insegnato a considerare le tarlate pareti di legno come una prigione dalle barriere insormontabili, la disciplina e le regole del mondo degli animali domestici come immutabili leggi di natura che la portano a sentirsi un cadavere. La povera anitra selvatica cerca in tutti i modi di emulare la docilità degli animali domestici, di frenare le forti ali frementi, che di notte, nel suo sonno di morte, si spalancano in sogni meravigliosi, sbattendo impazienti contro le pareti marce. Ma il richiamo delle origini, della natura selvaggia, giunge comunque fino a lei, risvegliandola: per lei il raggio di sole non abbellisce ciò che la circonda, ma le rivela tutta l’illusorietà di quella scena Capisce che è un mondo finto, morto quello in cui vive, e che il mondo vero deve trovarsi lontano, dietro le finestre cieche. E come in un sogno le sorge dinanzi l’immagine di quella realtà, come un mormorio di acque montane e boschi innevati. In mezzo alla polvere e ai ristretti confini della soffitta, l’anitra selvatica sogna di unirsi con la creatura che ancora crede libera e felice e con la quale, sulla vetta della montagna più alta, vuole librarsi finalmente senza impedimenti sopra la terra, verso la luce del sole. E chi può mai sapere se in quel sogno non vi sia, in realtà, per l’anitra selvatica, l’ultimo riscatto, che la innalza al di sopra delle barriere costrittive, mentre muore improvvisamente sommersa dalla neve, unita alla creatura sempre desiderata, gli occhi tesi verso l’alto, verso il sole, le ali abbassate contro il vento della tormenta…