Il caso di Alcea Industries di Burago. Quando l’intelligenza dei lavoratori non basta
L’Alcea di Burago ha oggi 78 lavoratori in forza. E’ molto probabile che chiuda: è in salita anche l’ottenimento degli ammortizzatori sociali di fronte alla dichiarata volontà dell’imprenditore di chiudere il sito, collocare i dipendenti in mobilità e dedicarsi al futuro delle aziende di cui continuerà ad essere amministratore o controllante.
C’è da chiedersi come mai un’azienda che aveva mercato, produzioni competitive e volumi interessanti più o meno improvvisamente sia messa in concordato preventivo, in stato prefallimentare.
La crisi globale? Le restrizioni del credito e quindi la mancanza di liquidità?
L’analisi dell’itinerario di Alcea è emblematico: l’imprenditore decide di ristrutturare il proprio business e sottrae progressivamente volumi di produzione (magari i più profittevoli) trasferendoli ad altri siti, lascia a metà gli investimenti programmati, carica costi su una delle proprie aziende decidendo scientemente chi sono i dipendenti da sacrificare e quali i siti da valorizzare all’interno della ristrutturazione del proprio parco-aziende. E i 78 di Burago (le loro famiglie, il futuro dei loro figli) vedono il proprio futuro colorarsi di nero.
La RSU (una RSU intelligente, collaborativa, disponibile al confronto) già più volte in passato ha chiesto all’imprenditore Carlo Maria Parodi e ai suoi manager : ci sono difficoltà? Visto che vengono a mancare una dopo l’altra le materie prime, si possono insieme affrontare i problemi? C’è della cassa integrazione da fare, ci sono opzioni per ripristinare la normale vita dell’azienda prima che sia troppo tardi? La risposta è sempre stata “problemi tecnici, tutto va bene….”, fino alla dichiarazione di mobilità.
Alcea chiude per scelte imprenditoriali: c’è mercato, c’è capacità produttiva, c’è qualità competitiva, c’è persino una grande disponibilità del Sindacato. Manca la volontà dell’imprenditore di tenere aperto il sito, c’è una valutazione delle convenienze che penalizza Burago e i suoi lavoratori.
Oggi sono asserragliati in azienda; occupano gli impianti. Hanno fatto il possibile per difendere la produzione oggi difendono la continuità, il futuro della propria azienda: pare ormai che Alcea non sia più di nessuno se non delle lavoratrici e dei lavoratori che la occupano. Per rivendicare fino alla fine due cose, che realisticamente possono ancora essere fatte a tutela del loro lavoro e del loro reddito. Possono farle La Provincia, Assolombarda e l’imprenditore stesso, se solo volesse dimostrare di credere nel valore del lavoro:
1. Trovare un compratore capace con un nuovo piano industriale di assicurare continuità all’azienda (occorre creare le condizioni, però, perché questo trasferimento di proprietà sia agevolato. Sono in campo due fondi finanziari interessati all’acquisizione del sito assolutamente in buone condizioni: l’offerta del primo è stata considerata inadeguata ma nessuno ne conosce i contenuti, quella del secondo è in costruzione e non si vuole venga scartata solo sulla base di valutazioni non socializzate con i lavoratori );
2. assicurare un minimo di continuità al reddito dei dipendenti, nel frattempo: la cassa integrazione deve essere loro garantita rapidamente, prima di eventualmente passare alla mobilità (se davvero c’è disponibilità dell’imprenditore a sottoscrivere la cassa, lo si faccia subito).
Non vorrei metterla su questo piano: ma prima ancora che una questione di diritti è una questione di responsabilità e di etica. Perché è una questione etica dimostrare ai lavoratori e alle loro famiglie che tutto quanto poteva essere fatto per riconoscere il valore del loro lavoro è stato fatto.
Monza, 20 febbraio 2013
Maurizio Laini
Segretario Generale
CGIL Monza e Brianza