Dossier: Spazi comuni, luoghi di socializzazione. Il territorio è stato devastato da un consumo di suolo impressionante, le aree malamente rese edificabili sono aumentate a dismisura. Una nuova periferia con la quale domani bisognerà fare i conti.
Quando parliamo di “periferia” ci riferiamo generalmente a una situazione – a una città o a una sua parte – che giudichiamo o raccontiamo in termini negativi. Mi domando: che cosa rende negativa una situazione periferica? La parola ci suggerirebbe che la negatività deriva dalla distanza dal centro, e forse è questo concetto rigidamente geometrico che prevale nel pensiero corrente. Ma ragiono da urbanista, quindi ho una visione complessa dello spazio, perché sono realtà complesse sia il territorio in sé sia la città (l’habitat dell’uomo). Mi viene subito in mente che esistono in molte città, europee e non, quartieri fisicamente distanti dal centro ma bellissimi, dove abitare è gradevole; parti di città dotate di verde, di servizi e spazi comuni e pubblici, ben collegate alle altre aree urbane – quindi anche al centro – da comodi, veloci e frequenti vettori come la bicicletta, il tram e il treno. Le socialdemocrazie Centro e Nord europee sono state maestre nel progettare, realizzare e far vivere quartieri così.
Non è perciò la distanza dal centro che rende la perifericità un problema. È invece una situazione fisica di marginalità cui è collegata una situazione economica e sociale di povertà, disagio, carenza e rischio.
Quando ragioniamo di periferie in Italia e in Europa, ci riferiamo a un particolare tipo di situazioni urbane, a quartieri realizzati da un’attività urbanistica ed edilizia finalizzata alla mera valorizzazione economica di aree acaparrate da spregiudicate società immobiliari. Aree destinate a ospitare famiglie e persone espulse dai quartieri centrali, perché dotate di redditi insufficienti ad acquisire la proprietà o l’uso delle abitazioni, o richiamate nella città dalla miseria delle campagne. Oppure ci riferiamo a insediamenti realizzati con finalità positive – fornire situazioni abitative di buona qualità a prezzi contenuti, grazie all’intervento pubblico, a determinate categorie di abitanti – ma non completati nelle loro dotazioni essenziali – scuole, verde, trasporti ecc. –; oppure a insediamenti non gestiti con sufficiente attenzione alle esigenze dei destinatari, o ancora abbandonati senza la necessaria manutenzione delle parti comuni e di quelle private.
In termini più generali possiamo dire che le periferie sono i luoghi dell’habitat dell’uomo in cui gli abitanti soffrono un disagio derivante dall’assenza, più o meno estesa e pronunciata, delle condizioni che rendono la “città” un luogo nel quale abitare è piacevole, comodo e servito di tutto ciò che da una città è possibile ottenere. Se vediamo le periferie alla luce di questa definizione è facile comprendere qual è oggi la nuova dimensione della questione. Ci rendiamo conto che il concetto di “periferia” copre molte più situazioni di quelle che si potevano immaginare 30 o 50 anni fa. E ci rendiamo conto delle sue cause.
Le periferie nella città globale
Sollevando lo sguardo da una limitata visione eurocentrica, abbiamo imparato che esistono immani “periferie” nei paesi che una volta si chiamavano “sottosviluppati” e poi, in un impeto di buone intenzioni, sono stati definiti “in via di sviluppo”: gli slums, le favelas e le baraccopoli, dove è racchiusa parte consistente, spesso maggioritaria, dei grandi agglomerati dei paesi del Sud del mondo. Poi ci siamo accorti che i Sud del mondo erano anche nelle nostre città: il colonialismo dei decenni ruggenti dell’espansione capitalistica – che aveva provocato gli slums e le favelas nei paesi dell’Africa, del Sudamerica e dell’Asia – aveva causato un’incontenibile migrazione dal Terzo al Primo mondo; le “coree” e le “borgate” provocate dai conflitti interni dei nostri sistemi urbani si erano diffuse ed estese. Abbiamo compreso che l’habitat dell’uomo non poteva essere valutato prescindendo dal carattere globale che aveva assunto. Appariva sempre più come una realtà composta da tre grandi insiemi, legati tra loro come nelle società feudali il castello, la residenza del signore, è legata alla casupola o al villaggio dove risiedono i suoi servi, i “servi della gleba”. Un’analisi convincente è quella che hanno effettuato studiosi come Saskia Sassen e Mike Davis. Dai loro lavori emergono due condizioni estreme: da un lato “l’infrastruttura globale” – cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere –; dall’altro gli slums, i luoghi destinati a ospitare i flussi dei popoli e dei gruppi sociali a cui la miseria ha tolto la possibilità di risiedere nei luoghi d’origine, riducendoli così a mera forza lavoro disponibile, idonei perciò a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
Tra “l’infrastruttura globale” e il “pianeta degli slums”, tra l’insediamento del “signore” e quello del “servo”, si colloca un terzo e intermedio strato sociale – una terza condizione urbana. È costituito da quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla “cultura dei padroni”, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo un avanzamento di carriera o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione dalla moltitudine dei deboli e degli sfruttati, e da una loro possibile insorgenza.
In relazione agli anni più recenti, quelli della crisi iniziata nel 2008, l’aumento generale della povertà – dovuto al crescente dislivello tra redditi alti e redditi bassi, alla riduzione del welfare e alla privatizzazione dei servizi pubblici – tende a spostare verso il basso quote rilevanti dello strato intermedio, o comunque ad accrescere gli elementi di disagio che ne caratterizza l’esistenza. La globalizzazione, insomma, tende ad aumentare il peso della periferia – se a questa diamo il significato proposto all’inizio –; le varie parti dell’habitat dell’uomo sono sempre più interconnesse, ma al loro interno aumentano le situazioni di disagio.
La finanziarizzazione dell’economia e il trionfo della rendita
Nel mondo anglosassone si è coniato il termine gentrification – adoperato per la prima volta in relazione alle trasformazioni sociali che avvenivano a Londra negli anni Sessanta – per indicare l’appropriazione, da parte dei proprietari stessi dei terreni, del maggior valore derivante dall’utilizzazione urbana di un’area, provocando così l’aumento dei prezzi d’uso e la conseguente espulsione degli abitanti verso aree economicamente più marginali. Questo fenomeno si è intensificato ed esteso negli ultimi decenni. La crescente espansione urbana rende centrali le vecchie periferie, dove il degrado – fisico e sociale – costituisce l’occasione, o il prete sto, per operazioni di “riqualificazione”, “risanamento” e “ristrutturazione”. A seguito di tali interventi, le aree “riqualificate” sono trasformate in quartieri dove il miglioramento dell’habitat si traduce in prezzi d’acquisto e d’uso più elevati, costringendo gli abitanti originari a spostarsi verso periferie più lontane. Ciò è ampiamente successo in Italia, grazie all’introduzione – negli anni Ottanta – di strumenti che consentivano la ristrutturazione urbanistica promossa e gestita da privati senza adeguati controlli a priori della pubblica amministrazione, anche in deroga agli strumenti ordinari dell’urbanistica. Abbiamo assistito al dilagare dell’edificazione sul territorio e – soprattutto in Italia – è divampato un fenomeno denominato sprawl che indica, a seconda delle lingue e delle interpretazioni, il consumo di suolo, la diffusione urbana e la città diffusa. Benché, a causa della mancanza di criteri generalizzati di analisi, non ci siano ancora dati inequivocabili, è certo che il motore dello sprawl è costituito da un radicale mutamento della finalità dell’edificazione.
Una volta il processo di edificazione era regolato dalla pianificazione urbanistica sulla base di ragionevoli stime del fabbisogno di abitazioni e di altri usi antropici del suolo; negli ultimi decenni, invece, l’utilizzazione edilizia del territorio è stata finalizzata alla mera “valorizzazione” economica delle proprietà fondiarie: si tratta di un processo correlato alla finanziarizzazione dell’economia capitalistica.
Il sistema economico si è sempre più disancorato dalla produzione di beni reali, si è rivolto invece all’aumento di valore derivante dalle più alte quotazioni raggiunte da un determinato bene – un titolo finanziario o un’area - nel periodo intercorrente tra il momento dell’acquisto e quello della vendita. Un economista classico direbbe che l’interesse del capitalista dal profitto si è spostato alla rendita. Sulla rendita, sugli effetti che essa esercita sulla città e sul suo ruolo di “produttrice di periferie” occorre soffermarsi. La finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico. L’appropriazione privata di rendite – finanziarie e immobiliari – divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale, intrecciandosi strettamente al profitto. Del resto, il peso del salario poteva essere via via ridotto dall’innovazione tecnologica.
Nella medesima fase della nostra storia è avvenuto un altro fenomeno: l’appiattimento della politica sull’economia. Questo ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori un aiuto considerevole, derivante dalla loro possibilità di promuovere o permettere la sistematica espansione del territorio. Il valore di scambio delle aree passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia, spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina, costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività, usata per accrescere le ricchezze private. La pianificazione urbanistica e territoriale è stata smantellata, poiché considerata un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (della rendita) del territorio.
Il territorio è stato devastato da un consumo di suolo impressionante, risorse essenziali di naturalità sono state sottratte ai cicli vitali della biosfera, le aree malamente rese edificabili sono aumentate a dismisura. Si è formata una nuova periferia con la quale domani bisognerà fare i conti.
Articolo tratto da eddyburg.it