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Dossier. Braccia ridate all'agricoltura. La contraddizione capitalistica tra città e campagna. I tentativi di fermare il consumo di suolo agricolo.

 

Nel 2008, avevo scritto in questa stessa rivista un articolo dal titolo: “Città e campagna: l’ambiente e la speculazione”, dove si metteva in evidenza questo aspetto che ha segnato indelebilmente le sorti della nostra agricoltura e dei nostri territori. Lo riporto nel seguito, integrandolo con alcune considerazioni  finali di cronaca odierna. 

Molti sono gli incontri e i convegni che mettono in evidenza l’importanza di mantenere le aree agricole, soprattutto in luoghi densamente popolati e costruiti come il nostro. Molto spesso si fa riferimento alla tutela del paesaggio, alla funzione biologica e vitale di quelle aree, alla loro  capacità di regolazione del clima e di fitodepurazione dell’aria (cattura CO2), ma anche a quella geologica e idrogeologica. Poco si dice invece delle motivazioni economiche che hanno fatto e fanno sparire le aree agricole.

Questo aspetto, non è una cosa né recente né marginale. E’ bene ricordare che già Engels, nel 1845, considerava la contraddizione tra città e campagna come quella maggiore del capitalismo, la prima divisione tra lavoro manuale e quello intellettuale. Per arrivare a tempi molto più recenti e in Italia, si consideri che persino la vecchia legge nazionale 1150 del ‘42, quella fondamentale per il sistema urbanistico italiano, si era posta il problema e diceva all’articolo 1, di voler “frenare la tendenza all’urbanesimo”. Cosa peraltro non semplice in un sistema capitalistico.

E’ altresì bene ricordare che la Cina  di Mao Tze Tung, con un sistema economico assai diverso, aveva tentato di contrastare quell’inevitabile dualismo, formando Comuni agricole e mandando gli studenti universitari a lavorare nei campi, in modo tale che coniugassero il lavoro manuale a quello intellettuale. La successiva svolta di Deng Xiaoping, 30 anni fa, diede il via libera al moderno capitalismo di Stato cinese. Le città cinesi sono così oggi tra le più popolose del pianeta, con tutti gli effetti indotti, altissimo inquinamento dell’aria, densità insopportabili di popolazione, forti congestioni da mobilità,  concentrazione di rifiuti.     

In realtà il conflitto tra città e campagna, è alimentato anche dalla rendita che si accumula nei suoli. Magistrale la descrizione di quel meccanismo speculativo, fatta dal regista Francesco Rosi nel suo film del 1962 (orami quasi introvabile) dal titolo significativo: “Le mani sulla città”. In quel film si vede quello che oggi chiameremmo “un operatore immobiliare” che spiega ad un gruppo di amministratori locali che la città che “sta da una parte…” deve essere portata dall’altra,  su nuovi suoli agricoli. Solo così il terreno che ora vale poco, varrà 30/40 volte di più. A quella affermazione, gli amministratori rispondono: “Ma tu vuoi che sia fatta una variante al Piano regolatore…?”.

La domanda è sempre quella, cioè che vengano cambiati gli strumenti urbanistici per ottenere quelle “valorizzazioni” e che i terreni agricoli vengano resi edificabili. Come noto, l'agricolura scompare anche perchè è molto più conveniente edificare un terreno che coltivarlo.

Sempre in questa rivista, riportavo nel 2010 un saggio di Walter Tocci su “L’insostenibile ascesa della rendita urbana”, autore che ne distingue tre periodi: quello dal dopoguerra agli anni ’70, della rendita giocata sui terreni dovuta all’espansione della città nella campagna circostante; quella dagli anni 80 in poi, il periodo della rivoluzione terziaria e della città che si espande sulla aree abbandonate e dismesse; e infine quello attuale, con l’avvento della finanziarizzazione dell’economia, per cui si costruisce senza che in realtà neppure ne esistano le necessità e i fabbisogni. 

E’ bene ricordare come questo tipo di rendita porti a deprimere ulteriormente l’economia reale legata alla produzione, in quanto consente enormi e immediati profitti con un semplice cambio di destinazione d’uso dei terreni attraverso i Piani regolatori, con la connivenza più o meno chiara della amministrazioni pubbliche, sempre più alla ricerca di nuovi entrate e di quantità maggiori oneri di urbanizzazione. Questo fatto è tanto più dannoso per la città e il suo funzionamento, in un momento in cui il mercato edilzio è già inflazionato, ma anche stagnante da un punto di vista economico. Si è invece continuato a costruire nonostante la popolazione sia stabile e in molti casi decrescente.

Quelli che in Italia, fino dagli anni ’60, hanno cercato di porre un freno alle rendite immobiliari e urbane non hanno però avuto successo. Ormai famoso il tentativo nel ’62 del ministro Fiorentino Sullo con la sua proposta del cosiddetto “esproprio generalizzato” delle aree di espansione, finalizzato a depurare il valore delle aree dalle rendite accumultesi nel tempo. Ma anche il recente disegno di legge del ministro Catania, del 2012, che aveva almeno lo scopo di contenere il consumo di suolo agricolo, affermando la necessità di dare un limite alle espansioni delle città, non ha avuto fortuna e non è stato approvato dal Parlamento.

D’altra parte, va ricordato anche il dibattito relativo al “diritto di proprietà" come connaturato o meno "al diritto di edificare”, ha attraversato tutta la legislazione urbanistica italiana. In diversi casi si cercato di chiarirli e di scorporarli, invocando l’interesse pubblico e generale, per una corretta pianificazione del territorio, libera da altri tipi di condizionamenti. Oggi si parlerebbe della difesa dei beni comuni essenziali alla vita (aria, acqua, suolo).

Interessante al riguardo la legge regionale lombarda n. 25 del 2011, che all’art. 4, riconosce il suolo come bene comune.  Il vero problema è che questa affermazione non rimanga un mero principio astratto, svuotato dai Comuni nella gestione quotidiana del territorio e nella formazione dei propri strumenti urbanistici, sia generali (PGT) che di dettaglio (Piani attuativi in variante).

Infine alcune brevi note di cronaca su Monza e la Brianza. Ormai nota, è la vicenda della variante generale al PGT di Monza, che, approvato nel 2007, ha visto il tentativo di stravolgerlo in senso edificatorio con la successiva amministrazione, cosa fortunatamente non andata in porto, anche per la presa di coscienza degli abitanti e la forte opposizione delle forze politiche di minoranza. Al centro, l’annosa questione delle aree agricole della Cascinazza e di quelle poste a corona di Monza. La cosa però non sembra sia finita.

E’ di questi giorni la discussione in consiglio provinciale di Monza e Brianza del proprio Piano territoriale (PTCP), il quale tenta di rendere possibili la trasformazione di quelle aree inedificate, nonostante il Comune abbia deliberato di valutare positivamente una loro destinazione ad “Ambiti agricoli strategici” (ASS) e quindi, quasi immodificabili. Questa era ed è anche la richiesta delle diverse associazioni e dei comitati che si muovono nell’ambito della tutela del territorio. Senza voler dimenticare il fatto che nel PGT vigente a Monza, a tutti gli effetti di legge, quelle aree sono già oggi destinate all’uso agricolo e quello strumento urbanistico le ha confermate negli loro attuali usi rurali.

La diatriba quindi non sembra ancora risolta e non per  questioni meramente teoriche. Ancora una volta permane il dubbio che a una corretta pianificazione del territorio e alla tutela dei beni comuni, vengano anteposti interessi diversi e particolari.   

Gli autori di Vorrei
Giorgio Majoli
Giorgio Majoli

Nato nel 1951 a Brescia, vive a Monza dal 1964. Dal 1980 al 2007, ha lavorato nel Settore pianificazione territoriale del Comune di Monza, del quale è stato anche dirigente. Socio di Legambiente Monza dal 1984, nel direttivo regionale nei primi anni ’90 e dal 2007, per due mandati (8 anni). Nell’esecutivo del Centro Culturale Ricerca (CCR) di Monza dal 1981. Ora pensionato, collabora come volontario, con associazioni e comitati di cittadini di Monza e della Brianza, per cercare di migliore l’ambiente in cui viviamo.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.