2014-10-28-dal-monte-rite-1

Quattro giorni tra le Dolomiti Bellunesi e la vicina Austria, per capire cos'è un Villaggio degli alpinisti senza Frontiere, progetto europeo di turismo green ecosostenibile che interessa anche l'Italia.

 

Il progetto

Un paese nella Valle di Zoldo riceve dei fondi dall'Europa per diventare quello che in Austria è già una realtà turistica ben organizzata e definita: un Bergsteigerdörfer ohne Grenzen, che traducendo da quella dolcissima lingua che è il tedesco sarebbe il "villaggio degli Alpinisti senza frontiere". Cosa significa questa espressione arzigogolata è stato quello che hanno tentato di farci capire lo staff dei Comuni di Forno di Zoldo, Zoppè di Cadore e Cibiana, portandoci direttamente sui luoghi interessati da questo progetto europeo per la promozione turistica ecosostenibile.
Nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, non così semplici da raggiungere, abbarbicati sulle montagne (Forno è situato a 840 metri di altezza, con punte oltre i mille per alcune sue frazioni; Cibiana è a 985 metri, Zoppè a 1461 mt) i tre comuni italiani si sono lanciati in questa bella avventura europea che permetterà loro, forse, di riattivare la propria economia e magari ripopolare anche i propri territori, da sempre vittime dello spopolamento. Oltre la metà dei residenti di questi e altri comuni del territorio vanta una lunghissima tradizione nella produzione del gelato; tradizione che viene però da sempre esportata, risorse e know-how, in Germania. Mentre, quindi, un tempo i giovani del sud venivano al nord per cercar lavoro come operai nelle fabbriche Fiat, i giovani della Valle di Zoldo andavano in Germania e nella vicina Austria a fare il gelato, spesso trasferendosi lì per sempre, altrettanto spesso facendo i transfrontalieri, ossia lavorando e vivendo lì gran parte dell'anno (dall'inizio della primavera fino all'autunno). Questo storico scambio ha permesso che gran parte della popolazione parlasse il tedesco; ma ha anche prodotto dei paesi fantasmi, vuoti per più di metà dell'anno, con difficilissimi problemi di gestione e organizzazione, e un'economia depressa se non inesistente.
Il progetto europeo di creare dei Villaggi alpini in questa zona di Italia è anche un tentativo di oltrepassare il dramma della transfrontieralità, collegare Austria – Germania - Italia in qualcosa che fosse oltre questo andirivieni, e rimettere in moto l'economia locale, puntando su risorse naturali e talenti del posto. Il CAI è parte integrante del progetto, come ente sostenitore e promotore di un turismo attento e rispettoso nei confronti della natura e della montagna. Sin da quel famoso scritto del suo fondatore, Quintino Sella, sulla salita del Monviso, il CAI è sempre stato un sostenitore non solo della montagna come spazio da preservare ma anche una risorsa importante per certo tipo di turismo, quello che sono che possiede occhi attenti e curiosi ed è costituito da visitatori consapevoli, esigenti e naturalmente amanti, della montagna.
Partire dalla valle per scalare la cima, appropinquarsi poco alla volta al grande mistero alpino, appropriarsi pezzo per pezzo della montagna, della sua valle, dei suoi abitanti e della sua cultura, è stato l'arguto modo in cui il nostro viaggio stampa è stato organizzato, come se fosse una scalata, metaforica e non. 

Primo giorno

In ritardo grazie al solito servizio regionale di Trenord, mi alloggiano nel caratteristico Hotel Garni Posta di Forno di Zoldo, immerso nello scenario naturale delle Dolomiti. Durante il primo incontro con le autorità locali e alla prima conferenza stampa della visita, Anna Zaccone, responsabile del turismo del Comunei di Forno di Zoldo, dice una frase che mi colpisce:«Avranno i turisti occhi e cuore per cogliere quello che la montagna ha da offrire?». Intuisco che soltanto chi conosce profondamente quelle montagne, con le sue asprezze e rudezze, e le ama anche per questo, può pronunciare una frase simile. Sono curiosa, io vengo da un paese di mare, in montagna non ci sono quasi mai stata, non so sciare, perciò sono ansiosa di capire di cosa stiamo parlando. La sera a cena il gruppo dei giornalisti e degli amministratori locali si mescola facilmente, complice l'ottimo cibo e vino che ci viene servito. Si parla un po' di storia locale – vengo a scoprire che queste erano zone carbonaie, in cui si produceva il carbone fino a neanche un secolo fa e che andremo a visitare ciò che resta di quegli antiche tradizioni preindustriali -, si cita il famoso Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli, ambientato proprio qui, che secondo i locali dà una visione un po' estrema dei ciodaròt, il nome degl i antichi artigiani del chiodo, ma non so ancora quanta libertà poetica ci sia nel romanzo – che non ho letto e che alcuni amici mi hanno detto che è bellissimo – e sbirciando il programma intravedo un'azzeccatissima visita al Museo dei Chiodi; si parla dei cervi che scendono a valle rischiando la vita e spessissimo venendo investiti (quasi un centinaio di esemplari morti in questo modo lo scorso anno); dell'orsa che qualche settimana fa ha diviso l'italia in moralisti animalisti dell'ultim'ora e spietati moralizzatori; si parla del Vajont, perché non si può non parlarne, (tutti sono d'accordo su questo punto e quasi tutti hanno dei ricordi di prima o seconda mano sulla tragedia del 1963), la diga è visibilissima raggiungendo la valle, la città di Longarone dista una ventina di km dal posto in cui stiamo cenando, e tra chi parla dei nonni che non hanno mai più scordato i corpi dei bambini e delle notizie infangate (tipo quella del cadetto militare che si è suicidato pur di non tornare a prestare soccorso in quello scempio), capisco che davanti a me si staglia una gigantesca montagna di informazioni, di luoghi, di viste eccezionali nelle quali non vedo l'ora di immergermi – dico proprio immergermi, visto che le Dolomiti hanno un'origine marina, ed "immersioni con gli scarponi" è l'affascinante blog delle strutture turistiche della valle.

Secondo giorno

Il giorno dopo ci si sveglia presto, il programma è fitto e la bellezza intorno a noi urge di essere rimirata. Per arrivare a Colcervèr, colle dei cervi, la frazione più alta di Forno di Zoldo, percorriamo una strada che l'anno scorso è rimasta chiusa per ben due settimane causa neve (!). Al momento ci sono 15 gradi e risplendono i colori caldi dell'autunno; tra i primi insediamenti umani di Forno, ora il quartiere è quasi completamente disabitato, ci abita soltanto un uomo con i suoi animali e la sua ironia, e c'è un bel B&B che lavora soprattutto in estate. Un borgo quasi fantasma in un rigogliosissimo faggeto, aggrappato a quel po' di terreno che la montagna lascia, in cui noi giornalisti sprofondiamo nell'imponenza della visuale, completamente muti alle nove di mattina a goderci questo momento di incontrastata purezza.
Scendiamo da Colcervèr e incontriamo il primo di una serie di personaggi fantastici, degni di essere narrato per pagine e pagine di descrizioni con tanto di ricca genealogia come farebbe Tolkien (ma tranquilli, io non sono Tolkien!) per la loro tipicità, naturale simpatia e amabilità: ecco Renato Pancera, di mestiere apicoltore, un ometto piccolo e caparbio che ci offre una meravigliosamente limpida lezione di economia agraria. Le api, se qualcuno ancora non lo sapesse, sono le responsabili della varietà di frutta e verdura di cui disponiamo, perché impollinando, spostandosi di fiore in fiore, trasportano semi di piante diverse. Il loro lavoro e la loro esistenza è quindi importantissima, ma oggi viene messa duramente alla prova: difatti, circa dieci anni fa, anche (perché i primi a farlo sono stati quei gran ciechi precursori degli americani) in Italia sono stati introdotti dei concianti contenenti nicotinoidi in campo agricolo, specialmente nella produzione del mais; sin da subito gli apicoltori hanno notato il collegamento tra l'improvvisa moria di api e l'inaffiamento dei campi con questi veleni. La lotta,e la conseguente vittoria, per poterne impedire l'uso è avvenuta facendo rete: gli apicoltori hanno iniziato a raccogliere e congelare i corpi delle api morte, farli analizzare e dimostrare la connessione con i concianti del mais. Nel 2009, col ministero di Zaia, è finalmente arrivata la totale proibizione, che però riguarda solo il mais, come sottolinea Renato: altri tipi di concianti, meno aggressivi per le api ma macomunque parzialmente velenosi, anche per gli uomini, vengono usati per la produzione di altra frutta e verdura. Questo spiega perché il suo lavoro in estate consista soltanto nel salvare le api, il cui sistema immunitario è variamente frustrato (insieme all'umore degli apicoltori, Renato in primis); e spiega la quasi totale inesistenza di alcuni tipi di miele, come quello di castagno, ormai rarissimi. (Piccola digressione in tema: questo trend globale mi fa alquanto tremare le gambe, perché mi fa pensare al romanzo post modernista di Douglas Adams, Generazione A, in cui gli esseri umani vivono in un futuro in cui le api sono scomparse e il cibo di origine vegetale anche...) L'azienda di Renato ha circa 300 alveari, che lui sposta dal Friuli alla montagna poco alla volta, cercando di preservarne il delicato equilibrio; fu il primo produttore ad ottenere la certificazione di miele alpino biologico in Italia, alla fine degli anni '80: una certificazione ottenuta per diverse ragioni – come vengono trattati gli alveari, cosa si utilizza per sconfiggere le malattie degli insetti, in quali zone si tengono le api – e la sua passione trabocca dalle sue parole, restando prioritariamente quella, una scelta d'amore, come quella che ha fatto anni fa quando, con l'arrivo del primo figlio, ha deciso di dimettersi e dedicarsi al nuovo arrivato e alle api. Non posso non sorridere quando quest'uomo, che tiene banco dandoci questa affascinante lezione di economia agricola, pronuncia la seguente frase:«La mia parola di piccolo apicoltore, che non sono nemmeno laureato, non vale niente davanti a ricercatori, scienziati, che vedono solo i numeri, non mi danno ascolto»; sorrido per la sua incredibile umità, e subito mi arrabbio perché so che ciò che ha detto è vero, e istintivamente solidarizzo con lui e maledico l'idiozia dei titoli degli egregi dottori.
Mi sarai accaparrata ogni tipo di miele prodotto amorevolmente da Panceri ma il viaggio prosegue (e di corsa anche): arriviamo a Zoppè di Cadore, che detiene il doppio record di essere il più piccolo dei paesi coinvolti nel progetto nonché dell'intera provincia bellunese (252 abitanti), ma è dotato di una bellissima Sala Comunale, ricavato da un sottotetto con travi in legno a vista e un tavolo conferenze che ricorda vagamente quello di Artù (non proprio circolare, ma decisamente tondeggiante, una specie di U con la pancia ingrossata). I zoppèdin sono in realtà ladini, hanno una comunità linguistica molto forte, e anche loro sono dei mastri gelatai. Le poche vie cittadine sono in realtà una minuscola, perfetta finestra naturale sul gruppo montuoso del Bosconero, in cui si ha la sensazione che tutto sia effettivamente intatto e pacifico, il luogo ideale per chi ama la montagna e la natura incontaminata; purtroppo, la cattiva notizia è che non esistono alberghi, hotel o strutture ricettive di sorta qui, ma la buona notizia che comunica il sindaco è che si sta provando a realizzare un progetto di ospitalità/albergo diffuso.
Non riesco a far in tempo ad appassionarmi del museo etnografico di Zoppè (dove però vedo come si faceva artigianalmente il carbone, con un grande fuoco coperto di foglie e legno) che mi ritrovo nel "paese dei murales", ossia Cibiana di Cadore. Prima di venire qui non avevo alcuna idea di cosa fossero – il nome fa pensare ai graffiti urbani, ma immaginavo che non avessero nulla a che fare – cpsì mi trovo in cima alla montagna, in questo paesino dalle vie strette strette con ancora degli edifici in legno, davanti a delle pareti affrescate con colori pastello e immagini particolari e la memoria storica del paese. Non mi riferisco soltanto ai murales ma anche ad un imponente signore di una certa avanzata età con gli occhi vispi come quelli di un bambino. Si tratta di Osvaldo Da Col, ex direttore della Pro Loco di Cibiana e tra gli ideatori, insieme al celebre artista Vito Calabrò, dei Murales cittadini. A partire dalla fine degli anni '80 artisti italiani e non, conosciuti e meno conosciuti, tra cui alcuni provenienti dall'Accademia di Brera, vennero chiamati a decorare le mura della città nel riuscito tentativo di recuperare e fermare la storia del paese, fotografandola su pietra. Ben 164 sono i comuni italiani che posseggono dei murales artistici, ma soltanto Cibiana si differenzia per il tema dei suoi: storia e tradizioni locali. A tutt'oggi nel paese se ne conservano cinquantadue, di cui la nuova giunta comunale (capitanata da una giovanissima sindaca) sembra volersi seriamente impegnare alla loro cura e manutenzione, ripristinando anche la Scuola di Decorazione. Ci fermiamo davanti ad alcuni murales, che sono dei quadri della vita di un tempo: in uno una donna riceve la lettera del marito (fratello? figlio?) partito oltreoceano per cercare fortuna, in un altro ci sono le allattatrici, donne che andavano a dare il latte ai bambini dei ricchi, spesso dimenticando i propri figli; in un altro ancora è rappresentata la processione per le vie centrali del paese, in cui vengono portare in esposizione i corredi, la biancheria delle giovani donne da maritare. Ogni anno la Pro Loco sceglieva un tema cui gli artisti dovevano lasciarsi ispirare; artisti che venivano a lavorare gratis, perché Cibiana, come tutto il Cadore, è sempre stato un territorio povero; "povero ma libero" sottolinea Osvaldo, perché, una volta dati tema e muro, l'artista era completamente libero di ritrarre qualsiasi cosa ritenesse più opportuna per esprimere il proprio messaggio artistico. Anche qui la montagna fa molto più che da scenario ambientale, è anzi un comprimario nella vita oltre che nell'estetica del paese. Anche qui si parla di albergo e ospitalità diffusa, anche qui la Germania e lo spopolamento sono delle costanti, anche qui i cittadini sembrano avere lo stesso spirito inarrestabile, fermo e pacifico della montagna.
E finalmente arriviamo in piena montagna, dove non ci sono più amministrazioni, case o straducole, ma solo lei – anzi loro – da guardare e cercar di comprendere. Saliamo sù, in alto, in alto, fin sulla vetta del Monte Rite, proprio quella conquistata da Messner, a più di 2000 metri di quota. Il sole è andato via, ma non incupisce la placida bellezza del posto: in qualunque luogo io guardi, a qualunque angolazione io mi metta, vedo solo montagna. Sono attorniata, ma la sensazione non è affatto quella di soffocamento, ma di libertà, totale e assoluta. Un sentimento inesprimibile a parole, che solo una buona scalata, un giro su te stesso a 360° lassù possono darti. Non mi risulta difficile capire perché questo luogo fosse stato scelto come fortino di difesa. Ma come, montagna selvaggia, libera e vuota, e c'è un fortino umano? Ebbene sì. Anzi: nel fortino c'è persino un museo (parte della catena di quelli di Messner, dedicati alla montagna). Ma per una volta l'intervento umano non fastidia la natura, si integra perfettamente al paesaggio e te lo dimentichi completamente. Anche perché si è sopraffatti, ripeto, dalla bellezza del posto. Cosa si vede da quassù? Roberto De Rocco, la nostra integgerima guida designata dal Cai, ci elenca tutti i blocchi montuosi: il Monte Pelvo, i lastoni di Formin, il Cernera e la sagoma della Tofana, il gruppo del Sorapiss, quello della Marmolada e il monte Antelao. Nel mezzo, giù, un centro abitato. Indovinate un po', è Cortina d'ampezzo. Guardarsi intorno è un'esperienza maginifica e ristorativa, che da un lato spinge alla contemplazione, dall'altro dà un'euforia e una gioia piane, calme– tutto ciò è molto soggettivo, fors'anche questo è il segreto della montagna. Dopo aver sfamato superbamente gli occhi, entriamo nel rifugio del Monte, dove veniamo lautamente sfamati con "piccole" porzioni di primi piatti e dolci.
Tornando in valle non lasciamo davvero la montagna, sia perché ne siamo ancora completamente immersi sia perché incontrare la gente del posto significa incontrare la montagna. Che è fatta di tradizioni e mestieri artigianali che raccontano storie del passato. A Formesighe c'è Romina, che ha deciso di recuperare l'arte di produrre "scarpèt", calzature che facevano le sue nonne e che risalgono a prima della guerra, completamente fatte a mano, decorate in velluto e con la suola fatta di sedici strati di tessuto spessi, tra cui jeans, e ne ha prodotte alcune per i suoi figli e come piccola bomboniera; c'è Peo che prende un'ora di permesso dal lavoro per mostrarci le maschere del carnevale della Gnaga, festa zoldana in cui ci si traveste con l'uso di bellissime maschere lignee, giocose e sarcastiche; entriamo nel soggiorno del B&B "Dormì e Disnà" e restiamo incantati dalla visuale offerta dal finestrone direttamente sulla (ma rpotrei dire tranquillamente 'nella') montagna.
Noto con stupore, piacere ed un po' di incredulità che nessuno di quelli che incontriamo prova mai a venderti qualcosa: nessuna di queste persone "ci prova", ma ti racconta la sua vita semplicemente, ti mostra i suoi manufatti con dignità, non ti assilla con offerte commerciali né altro. Forse mancano di spirito commerciale, vero, ma è infinitamente piacevole star con loro a chiacchierare.
Nel tardo pomeriggio apposta per noi apre il Museo del Chiodo, solitamente chiuso in questo periodo dell'anno e conosciamo anche questa storia locale. Fin dal XVI queste erano valli di "ciodarot", chiodaroli, i cui emblemi erano erano il cappello e gli zoccoli ed avevano fama di essere dei viziosi, fumatori e dediti anche all'alcool. Eppure, un buon chiodarolo produceva ben 500 broche al giorno e dalle fotografie in bianco e nero sulle pareti colgo sguardi allegri e vividi, nonostante la miseria in cui sono ritratti. Apprendo due modi di dire: "far filòi", raccontar leggende e tradizioni orali ma anche fatti del giorno e pettegolezzi; "tan dan de la ricia", detto di uno poco sveglio, di solito lo "scemo" che portava la candela nelle miniere. Il Museo è bello, nuovo, interessante ed è un vero peccato che non si riescano a trovare fondi e soluzioni per tenerlo sempre aperto; questo è purtroppo uno degli aspetti difficili della vita in montagna: economia in stallo associata alla scarsità di persone, con negativi effetti sulle amministrazioni locali. La cultura tradizionale passa anche attraverso quella culinaria, perciò l'ultima sera in Italia ci portano a mangiare all'Insonnia, dove la specialità è la polenta con vari tipi di carne (il pastic su tutte, una specie di salamella), servita con fagioli, cavolo cappuccio e formaggio fritto. E dopo aver tanto parlato di gelato assistiamo ad una performance niente male di Dimitri Pancieri, mastro gelataio capace di mettere più di cento palline su un cono largo 6,5 cm, in due minuti e mezzo. E il gelato è pure buonissimo!

 

 

Terzo giorno

Dopo un breve saluto alle autorità locali che ci hanno così benevolmente accolti e coccolati in Italia, dobbiamo attraversare la frontiera e arrivare in Austria, a Kartisch, città partner, insieme a Obertilliach, del progetto. Il sole è finalmente, completamente uscito, riscalda tantissimo e nelle verdi vallate austriache ci sono solo mucche pacifiche e case-fattorie in legno. Sembra di essere in una cartolina, o in un'immagine del cartone animato Heidi: e in questo spirito osservo le corde per saltare fuori da quasi ogni casetta, che a quanto pare sono il divertente passatempo dei bambini della zona. Una lunga conferenza con i referenti austriaci del progetto  ci spiegano come sono nati i Begersteieigerdoerfer in Austria (pura volontà di conservare la montagna e permettere ai suoi amanti di avere delle strutture turistiche attrezzate e rispettose) e un breve video ci mostra alcune attività che si vi possono praticare: gli sport alpini, dallo sci alle racchette, all'arrampicata, al trekking, vigono supremo in questi luoghi, che conservano il loro stile puro, incontaminato, selvaggio ma non aspro; il tipo di turismo che sono a promuovere è un turismo green, realmente ecosostenibile e rispettoso dell'ambiente e del suo silenzio, un turismo affatto aggressivo che non trasforma il luogo in cui si riversa pur spostando un grande flusso di persone, sostenuto da un forte amore per la montagna. A cena prendiamo tutti birra, convinti che la vicinanza con la Germania sia indice sicuro di una buona qualità del prodotto, e ingeriamo enormi quantità di patate – preparate in vari modi – e torta di mele – naturalmente servita con panna e gelato. Per chi non lo sapesse, in Austria la parola "klein", piccolo, ha un significato alquanto differente rispetto all'italiano...! Ma questi non sono tempi di diete, anche perché il mattino dopo ci aspetta l'ultima meraviglia prima della partenza: il trekking a Schoental.

Quarto e ultimo giorno

In compagnia di Ian, guida alpina e primo soccorso della croce rossa in zona, ragazzone austriaco che ama l'Italia, ci ha vissuto e ha sposato una sarda, partiamo intorno alle otto per un trekking che da programma dovrebbe durare circa tre ore. Appena arrivati sul posto, mentre tutti ci guardiamo intorno stupiti della bellezza dei colori autunnali, splendenti grazie anche alla giornata luminosa, Ian tira fuori il detto austriaco: «Quando il larice cambia il color, per l'alpino è tempo di stare a casa e fare all amor». Ah, dolce saggezza popolare!
Mentre procediamo nella nostra scalata, Ian ci mostra il particolare muschio sulle rocce – detto "la mappa"" per la sua forma – ci indica le piante di mirtilli e lamponi selvatici, incredibilmente grossi, maturi e, ça va sans dire, buoni; ci spiega come la politica austriaca abbia suffragato e implementato la pastorizia, permettendo di tagliare alberi nelle vallate laddove avrebbero potuto essere recuperate per i pascoli e rimettere in moto una microeconomia, diversamente dall'Italia, dove tutto ciò non è possibile perché viene visto come un'azione in favore del disboscamento e si lasciano morire i territori, sia dal punto di vista economico che naturale. Nel cammino le "guide" si moltiplicano: Donata Schussel, tra le organizzatrici del viaggio e nostra preziosissimo supporto a tutte le attività svolte in Italia, ci regala la sua perla, il motto zoldano che recita «ogni mes si fa una luna, ogni dì s'impara una», che potrebbe essere una traduzione dell'italiano« non si finisce mai di imparare»; e Cristina, dello staff austriaco, dà il suo contributo al mio arricchimento linguistico in fatto di usi e costumi locali spiegandomi il significato della parola austriaco-tedesca "gemütlich", che in italiano non ha traduzione. "Gemütlich" indica un modo di fare, tipico delle donne austriache, che vuole far sì che la propria casa sia sempre accogliente, calda, e perciò la affobba con ninnoli, stoffe, fa un largo uso di candele, profumate, di cera d'ape, posiziona e colleziona oggetti che riescono a far sentire accolti, a proprio agio, come se tutti gli ospiti fosseo in famiglia. Cristina è italiana, da anni vive in questo paese, e mi dice che a suo parere gli austriaci sono avanti anni luce rispetto agli italiani in fatto all'ospitalità e accoglienza turistica – e a giudicare dalla stecca di cioccolata al latte ad personam trovata nella stanza d'albergo, concordo.
Saliamo, anzi scaliamo la montagna; in silenzio o chiacchierando pacatamente, alternando piccoli momenti di affanno a momenti di tranquillità. Su tutti i nostri discorsi, vale un unico grande commento: la bellezza dello scenario. Dalla cima si vede anche il Grossglockner, il più alto monte austriaco, già innevato. Come già sul Monte Rite mi guardo intorno stupita: non vi dirò le solite cose sull'aria più fresca e più pura, anche se sono vere, non vi dirò che ancora una volta mi sono sentita libera, leggera, in perfetta armonia con la natura, senza bisogno di alcunché. Ti guardi intorno e pensi solo... no, non pensi, non ce n'è bisogno: sei. E sei bene. Questo è il grande segreto o regalo della montagna e di tutta la natura incontaminata: la sua assoluta autosufficienza, ontologicamente fondata.
Scendere è altrettanto piacevole, Ian ci scorta lungo il declivio ormai assolato, parallelo a quello che abbiamo scalato. Abbiamo stranamente rispettato i tempi e ora ci attende l'ultimo pranzo (in Austria e insieme) nel bell'albergo e ristorante di Obertilliach, arredato con gusto tipicamente austriaco; il sole fuori continua a splendere mentre gustiamo un tipico pasto della valle: insalate fresche di vario genere, una zuppa leggera di carne e una specie di crèpe all'uovo, la Wiener Schnitzel (quella famosa cotoletta che gli austriaci si contendono con i milanesi), ravioli con patate e erbe, uno splendido dessert di gelato e strudel.

Come ho già detto, incontrare gli abitanti di queste montagne è stato un modo per incontrare la montagna, per avvicinarmi a luoghi così lontani da me e dal mio background. Per ognuno di loro ci sarebbe da scrivere un romanzo, ma qui devo limitarmi ad accennare le loro storie e a segnalare: non ho potuto approfondire la conoscenza dell'anziano liutaio di Forno di Zoldo, ex professore di architettura, scultore e pittore anche, dedito nel suo garage a quest'incredibile arte di modellare il legno, che costruisce anche giocattoli per il nipotino o dei severissimi Gesù Cristo crocifissi; o Giorgio e Raffaella, insostitubili autisti ma anche camminatori, imprenditori, duri e puri zoldani, promotori convinti della bellezza del posto in cui vivono.
Vi inviterei tutti a passare dalla fattoria Kornigian per vedere le pecore e le capre di Marta, a piè di Levina, vicino Cibiana, che da essere ingegnere civile è diventata un'allevatrice, imprenditrice e ristoratrice, seguendo il marito nella sua azienda agricola, che ha ampliato e di cui ha preso il comando, trasformandola in agriturismo e punto di raccolta del cashmere, che raccoglie da tutta Italia e che restituisce in filato, che da quando ha aperto ha subito prima l'inverno con le nevicate maggiormente distruttive dopo anni e poi l'estate più piovosa che tutti noi ricordassimo, ma non smette di sorridere e offrirti biscotti e formaggio buonissimo quando vai da lei.
Vi inviterei tutti a fare la mia stessa esperienza e anche no, a doppiarla, cambiarla e modificarla, scegliendo in cosa dilinquirvi maggiormente – scalare? arrampicare? passeggiare? provare specialità enogastronomiche? frequentare i festival e le feste della tradizione popolare? semplicemente allontanarvi da tutto e tutti in una casa di montagna e ammirare la natura e la sua flora e fauna? – perché potreste fare tutte queste cose che ho elencato e anche altre senza problema. Anche questo è un villagio per alpinisti senza frntiere, anche questa libertà e questa gamma di possibilità. Forno, Zoppé e Cibiana sono paesi che adesso dovranno dimostrare di stare al passo con i propri progetti e sogni, cui non posso che augurare ogni bene e che prendo da esempio in termini di operosità, reattività e intelligenza delle amministrazioni per aver tentato la via europea in modo lungimirante e savio (ah, ce ne fossero di più!).
Lì, dove si facevano i chiodi e il carbone, dove i paesi raramente arrivano ai mille abitanti, dove non c'è praticamente immigrazione né turismo di massa, dove potreste rischiare di trovare la neve già nei prossimi giorni, beh, lì, potrete incontrare montagna, quella vera, con le sue genti, i suoi usi, la sua natura.

Gli autori di Vorrei
Azzurra Scattarella
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