Una giornata d'inverno, un'auto e le scarpe sporche di fango, la voglia di arrivare fino a Pila del Po, dove la foce del grande fiume si arrende all'Adriatico, tra nebbie, incanto e desolazione.
Nella grande piana il radicchio con i suoi occhi allungati osserva passare l'inverno, soffre in silenzio il solletico dei vapori mattutini. C'è odore di terra e di niente qui. Una vasta bolla di silenzio. L'umidità intorno inghiotte le linee d'orizzonte, le avvolge nel suo bagliore smorto.
Fermo in uno spiazzo accanto alla provinciale, sotto guanti, sciarpa e cappello, scatto qualche foto tra nebbie e silenzio. Da che mi sono fermato non ho ancora sentito un motore. Studio con gli occhi un vecchio casermone a mattoni, uno scheletro, come tanti, abbandonato nella pianura; sopra, in blu, una scritta gloriosa: “centro di inseminazione sperimentale razze bovine”.
Mi ridesta dalla contemplazione un vecchio OM, che d'improvviso, dalla curva, squarcia il silenzio con il suo rombo a gasolio.
Riprendo il mio itinerario tra le insalate. Ogni tanto l'orizzonte nascosto affiora dall'umidità: il grande argine, che custodisce l'oleosa e scorrevole massa delle acque, ci si para davanti e ci fa cambiare strada. Il Po attraversa la pianura col paraocchi: lo scortano al mare due terrapieni imponenti, sopra il cui dorso, in altre stagioni, qualche cicloamatore pedalerà.
Ecco l'indicazione per il Museo della bonifica di Ca' Vendramin. Mi hanno consigliato di andarci, ma è aperto solo per un paio d'ore al giorno e bisogna avere l'accortezza di passare di lì con un minimo di puntualità. Mi fermo davanti all'ingresso chiuso: archeologie del passato ben recuperate, belle anche solo da ammirare.
Il mare sembra lontano: non si avverte alla vista né all'olfatto. Proseguo e, ad un tratto, spunta una grande nave, esembra solcare i campi di lattughe in direzione di Chioggia. Sfilando più vicini, compare un piccolo cantiere navale che sorregge il gigantesco scafo issato, tra nebbie e insalate, su dei carriponte. Nei paraggi qualche vecchio rudere assiste quotidianamente ai lavori di manutenzione nautica.
Avanzo lento col rumore degli pneumatici che sale dall'asfalto ed entra dentro. Lo sguardo cerca sempre di intuire più avanti, ma il bagliore bianco lo impedisce. Taglio di Po, Porto Viro, Porto Tolle, Pila, restano solo i cartelli a dividere chilometri che nella nebbia sembran tutti ugualmente impressionanti. Di Pila un amico mi ha detto che lì finisce il mondo, o perlomeno la terra.
Salgo con l'auto sull'argine del fiume sperando sia quella la strada che porta fino al mare. Passate delle grosse palafitte e dei ripostigli per reti da pesca però l'asfalto si fa sentiero, termina davanti a un mucchietto di lische di pesce e ossi di seppia. Accosto e decido di proseguire a piedi. Qui la campagna incontra l'acqua salata e fa uno strano effetto, contraddice molte delle nostre immagini mentali. Il paesaggio del mare e quello del Polesine, che nella testa sembrano mondi parecchio distanti, qui si toccano.
Nell'aria ancora nessun odore, si respira nebbia, mi bagna la faccia. Le cose si confondono. A guardar verso sud sembra già mare, puntando a nord, si vedono paludi di fango. Vado a settentrione, a piedi lungo l'alzaia continuo a fare slalom tra le lische. Alla mia sinistra i tralicci si perdono nei campi, a destra reti da pesca e graticci solcano la superficie lagunare. Sembrano dimenticati lì da anni.
Ci sono anche presenze vive: sull'orlo di un fosso, un drappello di nutrie, sedute come lemuri, mi guarda passare. Poco più in là, tra le garzaie, l'airone maestoso prende il volo.
Faccio un giro su me stesso e penso che sia impossibile attribuire una stagione, un tempo, a questo posto. La Padania che fuma e produce sembra lontana, potrebbe non esistere, potrei nemmeno essere in Italia; mi trovo in uno spazio sospeso fuori dal tempo e dalla geografia, avverto fisicamente questa sensazione.
Due biciclette da donna sfilano in silenzio di fianco a me, bucando la nebbia, anche loro dirette a nord, e questo mi fa ben sperare: oltre il bianco ci sarà qualcosa, un villaggio, una strada, un ultimo segno di civiltà.
Dopo un chilometro, arrivo al bar del piccolo porto di Pila. Navi abbandonate, rifiuti, il mormorìo delle idrovore in azione, che succhiano l'acqua dai terreni pregni e la buttano in mare. Un paesaggio da carcasse lunari. Pila ha un porticciolo, uno spiazzo di cemento sberciato lungo cento metri, furgoni e tir delle grandi compagnie pescherecce attendono il rientro dei pescatori per portare il pescato lontano da qui. Tra i sei bracci del delta, si dice che questo porto sia uno dei punti di civilizzazione più esterni, là dove il fiume e le sue foci si arrendono all'Adriatico. La nebbia, comunque sia, rende vana ogni possibile interpretazione del vasto ignoto che mi sta attorno.
Nella penombra del bar, appena rischiarata dal grigiore chiaro che penetra dall'unica finestra infondo al locale, una giovane ragazza serve vino a qualche anziano avventore. Marinai non ce n'è. Ci sono pensionati di Pila che, come tutti gli altri vecchi di questo Paese, passano il pomeriggio seduti tra una partita a carte, una campanella di bianco e il giornale locale.
Chiedo informazioni su dove ci si possa spingere da lì in avanti. La barista, vestita con una tuta di pile, i capelli raccolti indietro da un elastico rosso, colta alla sprovvista fa affiorare sulle sue guance un lieve rossore: non sa rispondere o forse non capisce la domanda. Un tipo di mezz'età, un po' più giovane degli altri, anche lui in tuta di acetato e scarpe da tennis, interviene levando la ragazza dall'imbarazzo: “non si va da nessuna parte, qui finisce”. Il mio sguardo deve farsi sconfortato. “Se vuoi visitare meglio il delta però puoi aspettare: fra una mezzora dovrebbe arrivare Franco, un vecchio pescatore in pensione. Ogni giorno, verso la una e mezza, entra qui dentro a bere un bicchiere. Quando arriva chiedi a lui, con la sua barca di solito ti porta a fare un giro tra gli anfratti qui intorno. E' il modo migliore per capire questo posto”.
Col sorriso negli occhi mi metto in un angolo pronto ad attendere: un giro nelle acque del delta, tra le nebbie! Mai avrei sperato in tanta fortuna, giungendo fino a qui senza programmi.
Sfoglio il giornale locale e mi accorgo di non essere in uno strano sogno, ma dentro il mio tempo: i titoli del quotidiano locale sono agghiaccianti, mi riferiscono l'immagine di un Veneto gretto e xenofobo, che nei vapori del delta avevo già dimenticato.
Mentre aspetto, sbirciando immagini e didascalie tra una pagina e l'altra, conosco meglio il mio interlocutore. Fa l'insegnante alle medie e nel tempo libero si allena in mountain bike, va a pesca. E' l'unico in questo bar a non trovarsi qui per caso, ma per il fiume, per il suo amore verso questo pezzo di terra. «Ogni volta che posso mi spingo fin qui. Giro in auto, in bicicletta; a piedi no, troppo lunghe e monotone le distanze sul fiume».
Gli dico che magari tornerò in primavera, con una bicicletta. E lui mi dice che tutto sommato la stagione invernale offre un fascino più intimo e prezioso, pace se in pochi lo colgano. Versandomi un bicchiere di acqua frizzante, gli chiedo se durante la bella stagione ci siano più visitatori. «E' un luogo magnifico, ma non c'è turismo. Niente è stato fatto per organizzare una promozione o per mettere in piedi un'offerta. La gente di qui non lo vede nemmeno il paesaggio, la sua bellezza, il potenziale».
Mentre mi parla con il dito fa sfilare tante e tante foto sullo schermo del suo telefono, immagini del delta collezionate in ogni stagione: all'alba, al tramonto, con la neve, col sole. «E non la vedono facilmente i turisti, la bellezza; perché è un ambiente questo che non ti accoglie, che devi imparare a conoscere. Se gli dai tempo ti ripaga con angoli spettacolari. Se sei di passaggio si chiude a riccio, diventa ostico. Non è adatto a chi non si vuole calare davvero nel luogo. Chiede impegno ed è una cosa che il turista di oggi non contempla».
Sono parole semplici, ma che mi colpiscono sinceramente. Passo la vita in Brianza e per certi versi mi capita spesso di pensare cose simili della mia terra, della nostra cecità rispetto a quanto abbiamo attorno. Se ho scritto questa pagina, che – lo capisco - può apparire inutile, se ho descritto altre volte l'Italia interna, è perché credo che siano questi luoghi rimasti soli, intrappolati dalle pieghe dell'orografia e dell'idrografia, a poter insegnare qualcosa sulla necessità di esplorare a mani nude, riprendendoci il tempo.
Franco non arriva oggi, dice la barista mentre prova a chiamarlo: «ha il cellulare, ma lo lascia a casa, anche quando se ne va in paese».
Peccato. Saluto i miei interlocutori gentili e torno sui miei passi.
Dal porto schizza fuori un apecar con dentro due uomini grossi, così compressi nel piccolo abitacolo da sembrare inscatolati come il pesce che trasportano. Un paio di curve su due ruote - nonostante il cassone ricolmo - e sono già lanciati nella pianura che da lì a breve li inghiottirà. Guardo e respiro profondamente l'aria senza colore del delta, che contemporaneamente mi sembra sospeso, immacolato, fuori dal tempo, e - con lo sporco, le cose abbandonate, la nebbia, le sue attività residuali cacciate in fondo all'inverno - in fin di vita, ai margini del sistema-mondo.
Torno verso l'auto pensando di aver voglia di raccontarlo a qualcuno, di scriverne, per allontanare la seconda impressione, per invitarvi ad andare a trovarlo.