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Il film di Walter Veltroni “Quando c’era Berlinguer” è ammirevole per come è stato costruito, combinando immagini inedite sorprendenti, frutto di una minuziosa archeologia politica, e testimonianze di grande spontaneità e passione di persone che hanno conosciuto il leader del PCI.

 

Il film scorre in modo sempre avvincente, tra emozione e riflessione sulle vicende della sinistra italiana dal dopoguerra ad oggi. Ho recentemente sostenuto, forse un po’ rozzamente, che la sinistra in Italia dal dopoguerra ad oggi è stata caratterizzata da un grande immobilismo, da una incapacità di seguire le grandi trasformazioni sociali, culturali ed economiche in atto, da una sorta di isolamento rispetto ai cambiamenti verificatisi nella sinistra europea.

La vicenda di Berlinguer, di un personaggio che ha compiuto sforzi immani per portare il Partito Comunista Italiano nel contesto dei valori democratici, da lui considerati e sostenuti come valori universali e non solo occidentali, mette in luce gli ostacoli, sia esterni che interni al partito, che hanno bloccato il cambiamento, in un intreccio paralizzante.

Si potrebbe dire che il progressivo distacco dal comunismo sovietico, dittatoriale e imperialista, realizzato da Berlinguer, era il minimo che un partito democratico dovesse fare. Ma il suo progetto andava oltre, all’insegna del “compromesso storico”: l’alleanza con la Democrazia Cristiana come transizione verso una democrazia compiuta, in cui destra e sinistra potessero competere in una alternanza democratica.

Sappiamo come andò a finire: con l’assassinio di Moro, il suo omologo democristiano, per opera delle Brigate Rosse. Un tragico ricorso della eterna vicenda in cui la destra reazionaria, i poteri oscuri realizzano il loro disegno antidemocratico attraverso l’azione dell’estrema sinistra.

Ma Berlinguer non voleva, o non poteva per l’essenza stessa del PCI, uscire dalla ideologia della lotta di classe: la classe operaia contrapposta alla classe borghese. Con la palla al piede di questa ideologia, e con un proletariato sempre più falcidiato dal progresso tecnologico, la prospettiva di un’alternanza nella quale la sinistra potesse andare al potere era sempre più improponibile. Come Craxi, in una intervista riportata nel film, faceva cinicamente osservare. 

 

 

Eugenio Scalfari, in una sorta di innamoramento per il bel tempo andato e per Berlinguer, in un suo articolo dal titolo “Se Renzi vincerà vent’anni durerà” (la Repubblica, 23/03/14), afferma che Berlinguer “prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin”. E che “almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato Giustizia e Libertà e poi il Partito d’Azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio...”. Io, che a mia volta sono quasi coevo di Scalfari con cui condivido la cultura “liberal-socialista” di una sinistra laica e riformista, non ho dubbi su queste affermazioni del grande vecchio del giornalismo italiano. Ma occorre dire che quella cultura è rimasta sempre minoritaria nella sinistra italiana. 

Lo si è visto dopo il crollo del muro di Berlino, sei anni dopo la morte di Berlinguer. I potenziali nuovi leader della sinistra che, dopo il crollo della Prima Repubblica e il repulisti di Mani Pulite, hanno tentato di costruire una sinistra dinamica, adeguata ai profondi cambiamenti portati dalla globalizzazione, non sono stati capiti, sono stati rifiutati, e anche abbattuti da fuoco amico: Romano Prodi con la grande proposta dell’Ulivo, Walter Veltroni con il progetto del Lingotto. Quanto alla Leopolda di Renzi, è troppo recente per sapere come andrà a finire.

Mentre da noi la sinistra era immobile, anche se agitata da una sorta di permanente moto browniano, quella europea andava avanti, tra successi e sconfitte, con progetti riformisti e cedimenti liberisti. Però andava avanti e sperimentava: a partire dal Welfare State realizzato dai laburisti inglesi nel dopoguerra, al ripudio della lotta di classe e alla cogestione formalmente sanciti a Bad Gotesberg nel 1959 dalla socialdemocrazia tedesca, alla flexsecurity lanciata nelle socialdemocrazie del nord Europa nei primi anni novanta, alla Terza Via di Blair e Giddens in Gran Bretagna a cavallo del duemila. Tutte parolacce per l’immobile sinistra italiana. Cosa solo in parte giustificata da ciò che di negativo la socialdemocrazia reale e una parte del socialismo stesso hanno significato in Italia.

Ed è forse, anzi sicuramente sbagliato parlare solo di sinistra di matrice marxista. Forse la realtà del nostro Paese è ben sintetizzata in questa frase che ho colto del germanista Angelo Bolaffi, già direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Berlino: “Nei paesi cattolici, e soprattutto in Italia, predomina l’elemento anarco-comunista rispetto a quello socialdemocratico riformista del Nord Europa, che ha una matrice protestante più pragmatica” (Marco Cianca, “Bad Godesberg. E Marx andò in soffitta”, Corriere della Sera, 13/11/99). Come dire: la forze politiche di ispirazione cattolica non possono chiamarsi fuori dalla critica. 

A ciò io aggiungo il diffuso rifiuto di una riflessione non ideologica sulla realtà economica in cui siamo comunque immersi, rifiuto che si manifesta in termini di avversione al mercato, di difesa inconsapevole delle rendite di posizione, di fede nella spesa pubblica denominata bizzarramente keynesismo

Per concludere: a voler essere ottimisti, la permanenza nel simbolo del Partito Democratico della fronda dell’Ulivo dà qualche speranza di cambiamento. E cinematograficamente ci si potrebbe chiedere: riuscirà il nostro Renzi a raccogliere la bandiera della sinistra italiana e portarla fuori dall’eterno guado? A portare la sinistra italiana finalmente nella grande famiglia della sinistra riformista europea e globale? A realizzare l’obiettivo attribuito a Berlinguer di una democrazia dell’alternanza? Scalfari parla malignamente di vent’anni renziani. Venti anni di una sorta di “gollismo di sinistra”? Meglio sarebbe solo cinque, magari con un secondo mandato. Auspicabili, discutibili. E improbabili. 

 

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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