Il regista Davide Ferrario (“Tutti giù per terra”, “Dopo mezzanotte”, Tutta colpa di Giuda”): Il cinema tradizionale si basava su uno sfruttamento totale delle potenzialità dell’occhio. Era una visione che «apriva», in tutti i sensi: sia fisicamente che emotivamente. Il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto
È il 1957, Charlie Chaplin gira Un re a New York . A un certo punto il protagonista, re Shahdov, monarca europeo sempre più stranito dal Paese che visita, va a vedere un film in Cinemascope, la novità del momento. La scena è famosa ed esilarante: piazzato in una delle prime file Shahdov (Chaplin stesso) cerca disperatamente di seguire quello che succede sullo schermo muovendo velocemente la testa a destra e a sinistra, come a una partita di tennis, affannato a cogliere tutto il «visibile» proiettato sul grande schermo.
Come molte trovate comiche, la gag è basata sull’esasperazione. Certo quelle proiezioni gigantesche fornivano uno spettacolo mai visto prima. «Cinemascope», peraltro, è un brand commerciale che è passato a designare per antonomasia ogni proiezione con un rapporto altezza-base di 1:2,35 contro il tradizionale 1:1,33: il formato quasi quadrato del cinema classico di tutta la prima metà del Novecento. Si tratta di un procedimento tecnico che enfatizza un sentimento connaturato al rapporto tra film e spettatore: e cioè che il cinema è larger than life , come dicono gli americani. «Più grande della vita»: non solo per dimensione fisica, ma come amplificatore di emozioni, storie, percezioni.
il cinema è larger than life , come dicono gli americani. «Più grande della vita»: non solo per dimensione fisica, ma come amplificatore di emozioni, storie, percezioni.
A 50 anni e rotti di distanza dalla gag di Chaplin stiamo assistendo a un processo inverso, che implica dei cambiamenti radicali, quanto trascurati. Da oltre vent’anni siamo testimoni di una progressiva miniaturizzazione delle superfici di proiezione (il concetto stesso di proiezione è cambiato, in effetti). Da quando i film sono disponibili sui supporti informatici, si è passati dallo schermo delle sale ai monitor dei computer, fino ai display dei tablet e dei telefonini. Non solo: la qualità delle immagini è, paradossalmente, molto peggiorata. Se metti un video in streaming o su YouTube , devi scegliere tra velocità di download e «peso» dell’informazione. Quasi sempre questo significa una definizione mediocre dell’immagine, che però viene compensata, per così dire, dalla rapidità del consumo. In due parole: si vede sempre più piccolo e, tendenzialmente, peggio.
Contemporaneamente, nel campo degli apparecchi televisivi è successo il contrario. Le tv oggi cercano di copiare il cinema proponendosi come suoi surrogati: schermi di 50 e passa pollici in 16:9, sistemi audio in dolby surround 5.1, alta definizione a 2k (presto a 4k). Ma nonostante i miglioramenti tecnologici, la televisione resta un medium «freddo», come insegnava McLuhan. Sarà sempre una tv «allargata», non un piccolo cinema, perché il cinema implica una ritualità collettiva non replicabile in nessun salotto, per quanto ampio. Al massimo, gli home theatre sottrarranno pubblico alle sale, ma non sostituiranno mai l’esperienza originale.
Il cinema implica una ritualità collettiva non replicabile in nessun salotto, per quanto ampio.
Ancor prima che da regista, il rimpicciolimento degli schermi e quindi della visione mi colpisce da un punto di vista antropologico. Il cinema tradizionale, quello larger than life, si basava su uno sfruttamento totale delle potenzialità dell’occhio, come ironizzava Chaplin. Era una visione che «apriva», in tutti i sensi: sia fisicamente che emotivamente. Guardare dentro un iPad o uno smartphone, invece, corrisponde a un’esperienza del tutto diversa: il fuoco della visione non si apre, si chiude in un angolo sempre più stretto. Non a caso è un guardare privato, mai comunitario.
Questa chiusura del fuoco su quello che hai immediatamente davanti agli occhi a scapito di quello che ti sta intorno, del contesto senza il quale l’immagine perde riferimento, rivela un più generale decadimento dell’attività del guardare. Non potrebbe essere altrimenti quando, dei 140 gradi di cui è capace il campo visivo degli occhi, se ne usano soltanto un terzo. Questo comporta conseguenze che non riguardano solo il cinema. Siamo diventati incapaci di leggere e decodificare quello che ci sta intorno nella vita reale, perché il fuoco è sempre sull’oggetto, mai sul contesto: in tutti i campi, dal politico al sentimentale. Guardare sempre più da vicino fa perdere il senso delle dimensioni, di quella proporzione dello sguardo umano che il cinema classico manteneva. Quello del cinema era, è uno sguardo oggettivo e condiviso; quello dei tablet o degli iPhone è uno sguardo soggettivo, più simile al rapporto che uno ha con un microscopio, una lente — o con un mirino. Non è un caso che molti videogame (che vengono giocati sugli stessi schermi su cui si vedono i film) siano «in soggettiva», se non addirittura «vissuti» attraverso il mirino di un’arma. Se il cinema classico ci faceva sentire simili a generali con una visione globale del campo di battaglia, la visione contemporanea è più simile a quella di un cecchino. Da cui derivano anche automatismi comportamentali pavloviani: lo stratega elabora piani, il cecchino schiaccia un grilletto…
L'attrice Kirsten Durst nel corto “Aspirational” di Matthew Frost sulla degenerazione del selfie
Di tutto quello che si può documentare riguardo alla propria presenza in un certo luogo, il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto.
Rovesciando la prospettiva, questo processo è perfettamente rappresentato dalla moda dei selfie. Di tutto quello che si può documentare riguardo alla propria presenza in un certo luogo, il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto. Rispetto all’autoscatto classico, che veniva usato per immagini più complesse (le tradizionali foto di gruppo, ricordate?), la meccanica del selfie conferma la tirannia dello sguardo da vicino: al massimo, la lunghezza di un braccio o di un piccolo supporto. Un cortocircuito rivelatore del fatto che oggi dalle immagini non ci si aspetta qualcosa di nuovo da scoprire, ma la conferma di quello che si sa.
Non si tratta di fare del moralismo o, tantomeno, di essere nostalgici. Si tratta piuttosto di rendersi conto di come attività apparentemente naturali — come il guardare — siano in realtà prodotti culturali condizionati dallo spirito dei tempi. Questa «chiusura» dello sguardo, per esempio, ricorda quello che capita al cavallo quando gli si mette il paraocchi: vede solo quello che gli sta di fronte. Cioè, solo quello che interessa al padrone che lui veda. Quella che sembra una semplice discussione accademica diventa allora subito una questione che ha a che fare con la libertà. E quindi ecco perché, come regista che ha sempre creduto nella capacità catartica del cinema, sono preoccupato dalla sua «riduzione» tecnologica. Un processo fisico che è anche artistico, morale e ideale; un processo che mette in crisi il rapporto tra narratore e spettatore. «I film liberano la testa», diceva Fassbinder.
Chissà se è ancora vero.