Intervista allo scrittore satirico, già caporedattore di Cuore, autore di Crozza, firma del Manifesto e autore di programmi radiofonici «La satira deve andare dal basso verso l’alto, dal debole al forte, altrimenti non è satira»
Foto di Alessandra Citterio
Ancora una volta le cene letterarie organizzate con la Cascina di Mattia da Area Libri di Seregno hanno dato occasione a me e a molti altri lettori di incontrare uno scrittore in grado di darci risposte di grande interesse: dagli scrittori non ci aspettiamo solo storie ben raccontate, ci aspettiamo anche uno sguardo più lucido, più allenato del nostro a cogliere risvolti e significati di situazioni, persone e cose. Questa volta, però, lo scorso venerdì 25 settembre, l’aspettativa era anche quella di un intrattenimento anche molto, molto divertente.
Lo scrittore atteso era infatti un autore di satira, anzi, secondo autorevoli critici, la “firma di punta” della satira in Italia, ovvero Alessandro Robecchi: un nome ben noto ai lettori di Cuore, di cui è stato caporedattore, agli ascoltatori di Radio Popolare Network, nella quale è stato direttore dei programmi e autore della popolarissima rubrica Piovono pietre, agli spettatori delle trasmissioni di Maurizio Crozza, che lo annoverano fra gli autori, ai lettori del Misfatto, rubrica satirica del Fatto Quotidiano, e a quelli del Manifesto per i suoi editoriali satirici ( che poi sono forse in buona parte le stesse persone, ma tant’è, seguaci fedeli..). Uno, insomma, che sembra coltivare tenacemente la fede in quel genere di risata che, come si diceva nei nostri anni di belle speranze, seppellirà i potenti, gli ingiusti, i manichei e ogni specie di oppressori. “ Magari!”, vien da dire in questi tempi di sfiducia. Ma alla speranza che la satira possa dare un bell’aiuto alla crescita del pensiero critico non possiamo rinunciare, e in ogni caso, anche se non sarà stata quell’arma decisiva che sognavamo, grazie ad essa ci saremo divertiti pensando e sentendoci meno soli, il che davvero non è poco.
Robecchi, poi, ha saputo trasferire la sua divertente e insieme impegnatissima e graffiante lettura della realtà anche nella struttura del romanzo, con i due “gialli” o “noir” sui generis (lui dice che non ha mai capito la differenza...) pubblicati da Sellerio: il primo, Questa non è una canzone d’amore, uscito lo scorso anno e già all’ottava edizione, è un fuoco d’artificio di situazioni un po’ surreali e di battute esilaranti in cui comincia a vivere le sue disavventure per caso, nel delirio urbanistico e sociale della Milano odierna, quello che diverrà un protagonista seriale, l’autore televisivo, ricco e famoso quasi suo malgrado, Carlo Monterossi. Nel secondo, Dove sei stanotte, al caos di una città travolta dai riti mondani e dalle cerimonie istituzionali delle esposizioni internazionali, Robecchi si diverte a contrapporre l’oasi di umanità e di vita vera di un quartiere multietnico come il Corvetto, dove il Monterossi, incappato nei soliti misteriosi guai che lo perseguitano, si rifugia, scoprendo inimmaginabili prospettive e possibilità (come quella, mai contemplata, di spostarsi coi mezzi pubblici, ad esempio…). Difficile, come si può intuire, mettere ordine tra le mille domande che si affollano alla mente incontrando un autore come Alessandro Robecchi. Ho proceduto più o meno in modalità random tra argomenti inevitabili e curiosità mie ed altrui, destreggiandomi come ho potuto fra tante battute e tante risate.
Ho trovato sorprendente la conoscenza che i tuoi romanzi mostrano di certi sottoboschi della metropoli, di certi macabri traffici: cose piuttosto dure, e certamente non arcinote. Si direbbe che tu abbia fatto tutta la vita il giornalista di nera.
Ma io mi informo, studio, navigo, esploro; giro per i quartieri, faccio sopralluoghi. E ho tanti amici fra i giornalisti di nera! Se si fanno dei giri in periferia, si vedono traffici ed economie diverse da quelle che corrispondono all’immagine patinata della città: che, come tutti luoghi comuni, è solo una parte della realtà.
Infatti la Milano che incontriamo nei tuoi romanzi è in buona parte una città inedita: non solo per i luoghi e gli ambienti, ma anche per i fenomeni criminali che racconti. È, come tu dici, una città cattiva, dove non ci si può più sdraiare sulle panchine, perché c’è un’architettura intenta a trovare soluzioni “tecniche” per allontanare dal centro tutta l’umanità marginale e derelitta.
È il movimento degli architetti democratici a denunciare questa realtà, a segnalare il moltiplicarsi di “dissuasori” di ogni tipo; ma prima di loro certo se ne accorgono i barboni, quando trovano nuove grate protette da spuntoni su cui non potranno più stendersi alla ricerca di aria calda. Milano però è una città cattiva soprattutto perché è una città orizzontale, a compartimenti chiusi, dove uno che vive in centro evita certi quartieri e chi appartiene a un certo giro frequenta solo quel giro.
Franca Villa di Area Libri e Robecchi
Le archistar sono la cifra di quella Milano dei luoghi comuni, sono i cultori, quando va bene, del bello inutile, che proprio non mi sta simpatico.
E certi giri sono i tuoi bersagli preferiti, si direbbe, a cominciare da quelli di chi disegna sedie, ma le chiama “studi di seduta”. Massimiliano Fuffas, l’archistar di Crozza, l’hai inventato tu?
No, in televisione si lavora sempre in squadra, la trasmissione è un prodotto collettivo. È che le archistar sono la cifra di quella Milano dei luoghi comuni, sono i cultori, quando va bene, del bello inutile, che proprio non mi sta simpatico. Al Fuori Salone, l’appuntamento fighetto della città, ho visto cose come un mandala fatto di mollette, alla maniera dei lavori che si fanno fare ai bambini dell’asilo. Io vorrei che il design si occupasse di progettare il mouse per muovere le carrozzelle degli handicappati! E la settimana della moda, poi... Quel che vorrei dire coi miei romanzi è, in definitiva: Ma mescolatevi, mischiatevi di più, uscite dai giri fighetti!
Già: perché dal giornalismo sei approdato al romanzo? E perché un giallo?
Scrivere per il giornale, e peggio ancora per la televisione, vuol dire avere vincoli, doversi limitare per motivi di spazi e di tempi: il che ti disciplina, ti insegna a maneggiare le parole; misurare il testo diventa un mestiere, alla fine lo fai senza pensarci. Dopo tanto scrivere così, un anno, al mare, mi è venuta in mente una trama, una storia inventata, e mi son messo a scrivere sentendomi finalmente libero. Per altro, la trama è solo un pretesto. Il giallo ti permette appunto una prospettiva verticale, di non restare confinato in certi ambienti. Certo, anche nel costruire una storia ti devi comunque disciplinare, ma scrivere è la cosa più divertente che si possa fare restando vestiti.
Anche Carlo Monterossi, il tuo protagonista, è un autore televisivo. In cos’altro ti assomiglia?
Il fatto che il mio protagonista si trovi ad essere un investigatore solo per caso, perché costretto dalle circostanze, rende più complicato sviluppare la trama poliziesca, ho dovuto affiancargli collaboratori di vario genere. Per quanto riguarda la somiglianza con me, la escludo, la parte di me che entra nel personaggio è involontaria! Io non vorrei essere come lui: aveva avuto una bella idea, quella di raccontare gli amori della gente comune, e la televisione commerciale gliel’ha stravolta, trasformandola in quella che chiamo “la fabbrica della merda”. Gli ho regalato la mia passione per Dylan, questo sì.
Ho tutte le versioni dei pezzi di Dylan che siano mai state registrate al mondo.
Onnipresente Dylan: i suoi versi commentano tutte le situazioni, le sue canzoni entrano nelle disavventure del Monterossi. Magari hai anche tu davvero una chiavetta con tutta la produzione di Dylan?
Non solo: ho tutte le versioni dei pezzi di Dylan che siano mai state registrate al mondo. Sì, è così. Ho fatto per 10 anni il critico musicale all’Unità, mi sono occupato anche di altri, ma Dylan è una passione esagerata.
Per tornare ai luoghi del tuo romanzo, la città che invece accoglie e aiuta è quella dei peruviani del Corvetto, dove si può sfuggire alla città cattiva, favoriti perfino dall’architettura.
Infatti è lì che Carlo Monterossi si rifugia, scoprendo improvvisamente, a poca distanza da casa, un mondo molto lontano dal suo, ma in cui si trova subito bene. Scopre che è “un apostrofo multietnico tra Milano e Rogoredo” mentre prima anche per lui, come per me, il Corvetto era solo un’uscita della tangenziale. Era motivo di lite in famiglia, quando si tornava dal mare, perché era la prima uscita per Milano, e io volevo sempre uscire lì. A un certo punto ho voluto andarci davvero. È un quartiere dove trovi dei bar cinesi che hanno una stanza per i sudamericani e una per i maghrebini: così gli uni e gli altri possono trascorrere il tempo a modo loro. Lì si può entrare in una casa e sbucare in una via diversa passando attraverso le soffitte collegate tra loro. Non che sia assente la violenza, ma c’è solidarietà, c’è chi, come Carmen e Francisco, ha più conoscenza e più esperienza e si dà da fare per risolvere le situazioni difficili: è quella che loro chiamano “la resistencia”.
Oggi tutto quello che sta a sinistra di Goebbels è messo male…
… nella quale anche il Monterossi, infine, si arruola. È proprio questa “resistencia” che mi è sembrata una delle chiavi di lettura migliori del tuo romanzo: perché se talvolta i protagonisti sono costretti a ricorrere a mezzi non proprio legali, la loro giustificazione sta nel fatto che stanno praticando una resistenza al sistema, una difesa dai suoi soprusi, no?
Certo, perché bisogna distinguere tra la legge e la giustizia, e se sono in conflitto, credo che si debba preferire la giustizia. Senza arrendersi. Come dire: a brigante, brigante e mezzo! Soprattutto visto che oggi tutto quello che sta a sinistra di Goebbels è messo male…
Ecco, le tue implacabili (e impagabili) battute! È un’attitudine naturale, la tua, un vizio irrefrenabile, o cos’altro?
Deformazione professionale. Fin da ragazzo, i film di Billy Wilder mi incantavano, ho imparato da loro che c’è una tecnica di costruzione della battuta. Usare il paradosso, l’iperbole, il rovesciamento di senso, certe sintesi fulminee che scatenano il riso, è un modo per far restare meglio in mente quel che si vuol dire. In più, come diceva ancora il grande Billy, “Se proprio devi dire la verità, dilla in modo divertente. Quelli che fanno ridere verranno risparmiati”. Anche se ai tempi di Charlie Hebdo questo non è più tanto vero.
La nostra Carmela Tandurella intervista Robecchi
Ma davvero alla satira deve essere consentito ridere e far ridere di tutto?
Assolutamente sì. La satira è dissacrante o non è satira. E deve essere libera anche di non far ridere.
La satira deve andare dal basso verso l’alto, dal debole al forte, altrimenti non è satira.
Dunque la satira è al di sopra di ogni possibile critica? Ferme restando ogni garanzia e difesa della libertà di espressione e la sua impunibilità da parte di qualsiasi potere, si può distinguere tra satira trash e buona satira, come si fa per ogni altro genere?
Naturalmente si può criticare la satira anche in modo drastico e fermissimo, personalmente c’è della satira che odio, che è detestabile eccetera eccetera.. e io la critico anche aspramente. Ma il fatto è che di solito quando la si critica si vuole in realtà vietarla, chiuderla. Luttazzi, Sabina Guzzanti, parlo della tivù: lì non si è criticati, si è chiusi. Io voglio essere libero di dire che Charlie Hebdo non mi piace, ma se qualcuno va a sparargli li difendo. È un discorso lungo e scivoloso, sul quale però, se hai tempo e voglia, puoi leggere un mio trattatello (anche divertente, credo). Poi c’è un’altra cosa: per sua natura la satira deve colpire i forti, non i deboli. Penso alle caricature dell’ebreo sui giornali fascisti del ventennio, alla propaganda antiebraica (i nasoni adunchi, gli sguardi avidi…): ecco, quella non è satira. La satira (definizione migliore: un’opinione che ride) deve andare dal basso verso l’alto, dal debole al forte, altrimenti non è satira…
Quella di Cuore lo era, e rimane indimenticabile… Non ti capita di rimpiangerla?
Non rimpiango niente delle tante cose diverse che ho fatto. Posso averne nostalgia: quello è stato un momento magico della satira, e ha coinciso anche con un momento magico della mia vita (sono andato a vivere a Bologna, mi sono sposato...). Ma rinnovarsi nel lavoro creativo è necessario: non bisogna fare niente per cinque anni di fila. Bisogna esplorare, muoversi. Ci sono quelli che a stare 15 anni al giornale, poi fanno parte del mobilio. Lo diceva anche il grande Ennio Flaiano, che pure non era un uomo di sinistra…