Parlare di crisi alimentare significa parlare di un argomento trasversale che coinvolge molti aspetti del vivere vicini e lontani da noi: l’agricoltura (e quindi la capacità di produrre cibo), le politiche agricole ed economiche (la capacità di farlo conciliando esigenze di guadagno, di lavoro e di tutela dell’ambiente), il lavoro e le nuove tecnologie (il modo in cui produciamo i nostri alimenti).
Ieri sera a Solidarte, manifestazione organizzata a Casatenovo da Associazione Mlal e dal Circolo culturale l’Angolo Giro, Alfredo Somoza, presidente dell’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale, ha provato a dare propria lettura dei processi che hanno condotto alla crisi alimentare verificatasi negli ultimi mesi e rimasta sulle prime pagine dei giornali finché non è stata un’altra crisi, quella finanziaria, a relegarla di nuovo nel dimenticatoio collettivo.
Somoza ha aperto la serata ricordando in primis che quando si tratta di agricoltura, si tratta (anche) del cibo che mangiamo, di quello che produciamo ed esportiamo, dei nostri supermercati e dei prodotti che infiliamo nel carrello della spesa; delle nostre scelte; si tratta di economia, politica, scienza ed etica di casa nostra.
I problemi alimentari internazionali e le attività speculative
Durante gli anni Novanta il problema della fame sembrava avviarsi verso una lenta ma definitiva risoluzione; in verità, però, sottolinea Somoza, proprio a partire da quel periodo, in modo più intenso, l’agricoltura ha iniziato ad allontanarsi dal suo scopo principale: produrre cibo per sfamare l’uomo, sostituendo a questo sano principio l’ora prioritario bisogno di produrre reddito. Questo cambiamento ha portato a considerare la terra come una merce, qualcosa su cui è stato sempre più possibile speculare. Questo modello commerciale ha diffuso ed è stato supportato a sua volta dall’espansione di un sistema agricolo intensivo, combinazione che ha esteso le grandi monoculture, incrementato gli usi non-alimentari di parte dei prodotti della terra, ha promosso la quotazione in borsa delle commodities agricole. Un esempio, è quello della soia: cereale riservato a pochi villaggi contadini fino a venticinque anni fa, oggi tra i cereali più coltivati nel mondo. Nei granai globali si sono registrate contrazioni della produzione di cereali come frumento, orzo e mais, che hanno lasciato spazio alla soia, coltivata sempre più per il suo uso non-alimentare (spesso a seguito di campagne di sovvenzionamento, come nel caso di molti stati sudamericani). Questo ovviamente ha causato un duplice effetto, da un lato si è ridotta la quantità di cereali dedicata all’alimentazione umana, dall’altra si sono alzati i prezzi delle granelle: entrambi i fenomeni hanno avuto ripercussioni sulla possibilità di approvvigionamento dei cereali da parte dei paesi più poveri.
Biotecnologie, falso rimedio
Accanto a questo problema è nato e si è sviluppato il problema degli organismi geneticamente modificati (ogm): tutta questa soia (il 70% viene coltivata tra i soli Stati Uniti, Brasile e Argentina), infatti, è transgenica. Questo non comporta un problema sanitario, un rischio per la nostra salute, come molti vanno dicendo, ma seri problemi economici per gli agricoltori che, rifornendosi di sementi brevettate, perdono la proprietà delle proprie piante e dei semi prodotti, che resta nelle mani delle poche grosse multinazionali agro-farmaceutiche che, in questo modo, legano a doppio filo l’agricoltore. Quest’ultimo infatti deve ricomprare ogni anno la semente per ottenere l’autorizzazione a coltivare le piante (coperte da brevetto) e inoltre si vede costretto ad utilizzare le preparazioni chimiche della stessa casa agri-farmaceutica che per solito predispone contratti che vincolano l’agricoltore all’utilizzo dei prorpi trattamenti fitoiatrici (un esempio entrato ormai in letteratura è quello del mais Mon-810 della Monsanto che deve essere trattato con il solo erbicida Round-up).
Un secondo problema è quello legato alla biodiversità. Le colture ogm uniformano le varietà coltivate a livello mondiale, dei principali cereali oggi si coltivano solo una o due varietà: questo significa che, in totale, una decina di varietà coprono la maggior parte dei nostri bisogni alimentari. Questo oltre che impoverire irreparabilmente il patrimonio genetico vegetale, crea fragilità strutturali negli agro-ecosistemi che, così semplificati, potrebbero perire in massa davanti alla diffusione di un nuovo patogeno, causando danni ingenti per molte realtà agricole. Infine, il fatto di avere un solo antiparassitario con cui trattare piante omogenee tra loro comporta uno sviluppo della resistenza dei patogeni, che si specializzano attaccando più efficacemente le colture e richiedendo stagione dopo stagione trattamenti fitoiatrici più massicci. Insomma, anche la speranza di usare gli ogm per diminuire l’apporto chimico in agricoltura sembra fallire, lasciando segni sempre più profondi nei cicli degli elementi naturali, nella acque di falda, bioaccumulandosi nei tessuti animali e vegetali e, quindi, avvelenando il cibo dell’uomo.
Nuove tendenze di consumo
Questo sistema produttivistico ha poi dei terminali, ipermercati e fast-food, che sono diffusori di prodotti e vettori nel mondo della cultura neoliberista del consumo in sé e per sé. Negli anni, prosegue Somoza, essi hanno eliminato la stagionalità dei prodotti, creando mercati irrazionali, flussi di commercio di prodotti agroalimentari insostenibili e giustificabili solo nella logica dei profitti facili. L’intermediazione delle grandi compagnie ha inoltre gonfiato i prezzi in maniera spropositata, ha promosso un falso concetto di tradizione e di prodotto tipico (che quasi mai rispecchia le certificazioni apposte sulle confezioni), ha favorito l’omologazione alimentare facendo perdere cultura, sapori e tecniche culinarie locali, ha promosso una sempre più spinta finanziarizzazione dei mercati agricoli e investimenti che sono andati a detrimento della salute del pianeta e del problema della fame, come ad esempio gli incentivi alla produzione di biocarburanti (in Argentina metà della superficie agricola utilizzata è coltivata a soia e la metà di questa produzione viene destinata oggi ad usi non-alimentari).
Agricoltura settore fragile a cui servono regole chiare e condivise
Davanti a questo panorama abbiamo una duplice problematica per i sistemi agricoli mondiali: da una parte abbiamo gli ex-sistemi coloniali ancora legati ai flussi delle importazioni occidentali (e oggi cinesi), sistemi quindi non auto-sufficienti e con destini fragili legati all’andamento dei mercati; dall’altra parte, resistono i mercati occidentali iper-protetti, come quello statunitense o quello della UE (che ancora oggi riserva metà del bilancio comunitario al sovvenzionamento del settore agricolo). Secondo Somoza, siamo arrivati a questo punto perché la politica ha perso le redini del controllo sulla dimensione economica, e non essendo gli attori economici un’emanazione democratica, ma un piccolo gruppo di gestori di interessi privati, essi hanno utilizzato la terra non più come patrimonio per la produzione di cibo, ma come fonte di speculazione e guadagno facile. L’unico modo per porre freno a questi meccanismi economici perversi, che non rispettano l’uomo e, al contempo, infrangono qualsiasi regola del libero mercato, sarebbe quello di concordare a livello transazionale regole chiare e condivise, capaci di riordinare i flussi all’interno di un ambito di riferimento comune. Servirebbe insomma un risveglio della politica e la rottura del suo confinamento entro confini nazionali.
Agire locale, pensare globale
Difficile però nello scenario internazionale così complesso prospettare delle soluzioni concordate e armoniche. Dall’alto della sua esperienza, maturata nello sviluppo di diversi progetti in varie aree del mondo, Somoza propone una via semplice e chiara: unico modo per migliorare la situazione che ci vede coinvolti è agire a livello locale incominciando a incentivare quelle realtà come la filiera corta, i gruppi di acquisto, il commercio equo-solidale, le forme di agricoltura urbana e peri-urbana e tessere un nuovo modello territoriale coinvolgendo associazioni come Slow Food, gruppi di acquisto e categorie di produttori. Somoza ha concluso dicendo che non è il solo “gesto” ad essere rilevante, ma che ognuno di questi piccoli passi porta con sé la diffusione di una cultura che alla lunga - la storia lo ha dimostrato in molti altri casi - la vince: quel che anni fa sembrava impensabile o pareva essere utopia di qualche gruppo ambientalista oggi lo ritroviamo sottoforma di legge nazionale o comunitaria, pensiamo alle forme di agricoltura sostenibile, alla raccolta differenziata dei rifiuti e così via.
La società è più avanti della politica: facendo cultura si promuove in modo lento ma efficace un nuovo modo di pensare, e quando le persone hanno modificato le loro abitudini e cambiato la loro mentalità, le leggi e la politica arrivano, ratificando e legittimando il cambiamento. Prima la società: i primi ad agire dobbiamo essere noi, con le nostre iniziative e la nostra capacità di consumo critico.