Tra i frutti della globalizzazione due fenomeni sono stati sottovalutati: il processo di smaterializzazione che  fa sì che i luoghi e i paesaggi tendano ad equivalersi e la “a-territorialità”

 

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Introduzione

 

Tra i frutti della globalizzazione due fenomeni sono stati sottovalutati: il processo di smaterializzazione che, annullando l’importanza della presenza fisica, fa sì che i luoghi e i paesaggi tendano ad equivalersi e a stemperarsi l’uno nell’altro e la “a-territorialità” dei grandi capitali che agiscono in modo irresponsabile verso la realtà comunitaria (Ferrarotti, 2009). Considerate esiti inevitabili del progresso, la smaterializzazione e la “a-territorialità” hanno contribuito alla perdita del senso del luogo. Ma ora che la crisi economica ci induce a riscoprire la comunità territoriale, notiamo con stupore che il mondo è completamente cambiato sotto i nostri occhi e non sappiamo più leggerlo perché abbiamo trascurato l’antefatto. Dobbiamo, dunque, inventarci una nuova sintassi per descrivere i luoghi e tornare a progettare il futuro.

I fenomeni spontanei di controesodo, di disurbanamento e di “rurbanizzazione”, che recentemente si stanno verificando in modo sempre più intenso, forse dovrebbero indurci a ritenere superata la vecchia distinzione tra città e campagna, tra aree urbane e aree rurali. “La città è ovunque; quindi non vi è più città” (Cacciari, 2004). Dovremmo usare espressioni ibride come “campagne urbane” o “montagne dotate/deprivate di comunità” o ancora “sistemi locali rurali post-industriali” per descrivere quello che una volta era genericamente rurale o urbanizzato. Dovremmo parlare di “un continuum urbano-rurale”, che vede “il centro portarsi nella periferia” e “tessuti sociali dinamici diventare molteplicità dialettica di sistemi, reattiva e policentrica” (Ferrarotti, 2008). Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio “La Grecia, conquistata dai Romani, conquistò a sua volta il feroce vincitore e le arti portò nel Lazio agreste” scriveva Orazio a proposito dei rapporti tra Roma e la civiltà greca. Si potrebbe dire che qualcosa di simile sia avvenuto anche nelle recenti interazioni tra città e campagna solo che, in questo caso, l’agreste Lazio è la città e la Grecia con le sue arti è il mondo rurale; e dunque non sembrano esserci più sconfitte o rivincite da suggellare, bensì nuovi e diversificati insediamenti umani e contraddittorie realtà da riconoscere nello scenario globale.

 

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Le ricerche dell’Insor

 

Una recente pubblicazione dell’Insor (Barberis, 2009) mette in rilievo i cambiamenti avvenuti nelle campagne italiane a partire dalla loro evoluzione demografica, esaminata sulla scorta della classificazione dei Comuni proposta dal medesimo Istituto negli anni Novanta in base alla quota di superficie agricola esistente nel territorio comunale e alla densità demografica. Gli oltre otto mila Comuni italiani sono stati così ripartiti in rurali e urbani, individuando tra i primi quelli con almeno il 75 % di superficie a verde e una densità di popolazione non superiore a 300 abitanti per chilometro quadrato.

Con una classificazione siffatta si è potuta cogliere in tutta la sua portata la svolta demografica degli anni Ottanta. Il censimento del 1981 aveva, infatti, contato 2 milioni 420 mila italiani in più rispetto al 1971, con un apporto dei Comuni urbani superiore a quello dei Comuni rurali. Ma già dieci anni dopo l’Italia appariva investita dai fenomeni della crescita zero e del declino demografico urbano. I Comuni rurali vedevano aumentare la loro popolazione di 503 mila abitanti. Le nuove tendenze demografiche sono proseguite durante il decennio Novanta, con una perdita di abitanti nelle aree urbane del 2,1 %, fino a punte del 4,6 % nei grandi centri, e con una crescita del 2,1 % dell’insieme dei Comuni rurali.

Tra le cause del controesodo l’Insor distingue quelle psico-sociologiche da quelle di tipo economico. Vediamo le prime. Se per coloro che fuggirono dalle campagne negli anni Cinquanta-Sessanta, la città costituiva una sorta di liberazione dalla promiscuità in cui si viveva nelle vecchie abitazioni rurali, per i loro figli e nipoti essa è diventata una gabbia. Andare ad abitare nelle aree periurbane è ora un modo per sfuggire all’anonimato delle città e godere di più saldi legami sociali. Indubbiamente hanno il loro peso in tale scelta anche le motivazioni economiche: l’alto costo degli affitti urbani e una relativa abbondanza di impieghi rurali che permette a chi si sposta in campagna redditi aggiuntivi a quelli prodotti in città.

Già questa propensione a vivere in campagna – emersa negli ultimi decenni - sta ad indicare la caduta di una serie di pregiudizi culturali nei confronti delle aree rurali ma soprattutto il venir meno, in tali territori, di condizioni socio-economiche che rendevano in passato più attraente la città.

La ricerca dell’Insor va, tuttavia, oltre questo dato di fatto e mette in luce altri aspetti, dai consumi ai redditi, dall’occupazione alle tipologie abitative, deducendo dalle statistiche ufficiali la conferma che tra i due mondi, presi nel loro insieme, si sarebbe determinata ormai una sostanziale parità di condizioni. Vi avrebbero contribuito la crescita del turismo gastronomico e l’evoluzione dell’agricoltura - il cui peso non va oltre il 5 % del PIL all’interno delle stesse campagne – da mero settore economico a comparto produttivo e insieme mito, binomio su cui soprattutto un’imprenditoria giovane e al tempo stesso al femminile avrebbe investito con fantasia e lungimiranza. Da qui il lodevole e instancabile impegno ultratrentennale dell’Insor volto a scoprire i prodotti tipici nelle diverse Province italiane, come supporto culturale e scientifico allo sviluppo di nuove economie in espansione nelle aree rurali. Conseguire tale parità non sarebbe stata una passeggiata dovendo combattere – osserva Barberis - una cultura plurisecolare intrisa di ostilità nei confronti degli agricoltori e delle campagne, condensata nei versi danteschi: “Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammuta, / quando rozzo e selvatico si inurba”. Sarebbe stato in fondo proprio il desiderio di affrancarsi da questo atavico stereotipo italico a spingere il mondo rurale, non più prevalentemente agricolo, a progredire e a riscattarsi.

Lo studio dell’Insor pone, dunque, in risalto l’emergere nei paesi industrializzati di una ruralità nuova, le cui performance economiche e i connotati socio-culturali non avrebbero nulla da invidiare a quelli delle aree urbane. Una ruralità che sarebbe espressione delle capacità innovative di una leva imprenditoriale delle campagne, postasi in linea con le tendenze positive dell’economia del turismo e dell’ambiente.

A ben vedere, siffatta lettura della realtà si basa sul presupposto che la città e la campagna siano due mondi ancora separati e distinti. Dal primo si dipanerebbero i grandi poteri del nostro tempo – la scienza, la tecnica, la finanza, il mercato – emersi con forza con la terza rivoluzione tecnologica, dopo quella agricola e quella industriale, e da cui si intendono prendere le distanze; dal secondo un nucleo vivace di agricolture non omologate ai processi industriali irradierebbe modelli di vita, di produzione e di consumo alternativi a quelli imperanti. Se questa fosse davvero la realtà, la crisi economica e le emergenze energetiche e climatiche non farebbero altro che porre in risalto le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo e i paesi ricchi non dovrebbero fare altro che “ritornare” sui loro passi, recuperando un rapporto coi propri mondi rurali che, ormai emancipati dalle condizioni di arretratezza del passato, potrebbero alimentare economie locali, come tasselli di un grande mosaico alternativo al modello finora imperante (Shiva, 2009).

 

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Ritornare all’inchiesta militante

 

Il fatto è che le continue e rapide trasformazioni che stanno avvenendo nella società italiana difficilmente si possono osservare utilizzando solo i freddi numeri delle statistiche, senza prendere in considerazione anche il vissuto degli uomini e delle comunità. Dovremmo, invero, “ritornare” all’inchiesta militante - quella dei De Martino, degli Olivetti o dei Dolci per intenderci - e dare voce a persone non idealizzate ma a quelle in carne ed ossa, che abitano territori determinati, per leggere la realtà così com’è percepita da chi vive in un determinato luogo, senza generalizzazioni prive di senso. Troveremmo così comunità e territori fragili, che rischiano di perdere ogni possibilità di sopravvivenza economica e culturale, perché non c’è più protezione sociale e produzione di beni pubblici per loro: non ci sono più scuole, presidi sanitari, uffici postali, mezzi di trasporto pubblico. Troveremmo aree ad agricoltura intensiva in Puglia che hanno perduto ogni rapporto con le comunità locali e dove un caporalato totalmente in mano ad organizzazioni malavitose internazionali ha assunto le forme agghiaccianti dello schiavismo ai danni di immigrati non africani ma polacchi (Leogrande, 2008). Troveremmo aree periurbane dove non si addensano più soltanto le “villettopoli” dei ricchi e i tuguri degli immigrati e dei nomadi, ma anche le abitazioni delle persone che rifuggono l’impazzimento delle città e ricercano in attività agricole di prossimità una seconda chance per dare un senso alla propria esistenza. Ad esse si aggiungono le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, che pur lavorando saltuariamente hanno perduto l’indipendenza economica e sociale (Di Mario, Pascale, 2009). Troveremmo percorsi innovativi e strategie imprenditoriali in aree collinari e montane volti a rendere compatibile un’economia agricola competitiva con un modello che rispetta la centralità della persona e il rapporto interattivo uomo-natura (Caggiano, Giarè, Vignali, 2009; Milone, 2009). Occorrerebbero, dunque, corposi programmi di ricerca sul campo volti a dare visibilità al bello, alla cultura del gusto e alla qualità della vita dei diversi territori ed a svelare – attraverso l’arte, la natura e la storia ma anche mediante il racconto delle condizioni di vita, dei disagi e delle aspirazioni delle persone – la trama di paesaggi in trasformazione (Venturi Ferriolo, 2009). Forse in tal modo – e non solo compulsando generici dati numerici - si potrebbe racchiudere, in un progetto scientifico e narrativo che raccogliesse storie di vita, il senso di culture agricole e rurali che si integrano con culture urbane, partendo dal vissuto delle persone con l’occhio rivolto al futuro. Un progetto che leghi tra loro l’inchiesta, volta a conoscere meglio la realtà e a prendere posizione quando questa si dovesse presentare in modo contraddittorio, con l’individuazione dei modi migliori per intervenire e cambiare concretamente le cose (Laffi, 2009).

 

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Ritornare a progettare il futuro

 

La percezione del rurale come ambito in cui la dimensione umana può esprimersi meglio deriva dall’atteggiamento contraddittorio che abbiamo nei confronti della civiltà urbana. E’ già accaduto in altre fasi storiche. Da una parte ci rivolgiamo alla città come a un luogo di otium nel quale ritrovarci, riconoscerci come comunità, un luogo accogliente, di scambio umano, una casa; dall’altra, sempre più la consideriamo una macchina, una funzione, uno strumento che ci permetta col minimo d’impedimento di fare i nostri negotia (nec otia), i nostri affari. Quando la città delude troppo e diventa solo negozio, allora cominciano le fughe dalla città, così ben testimoniate dalla nostra letteratura: le arcadie, le nostalgie per una più o meno mitica età non-urbana; d’altra parte quando invece la città assume davvero i connotati dell’agorà, allora immediatamente ci affrettiamo a distruggere questo tipo di luogo, perché contrasta con la funzionalità della città come mezzo, come macchina. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre invece valorizzarla in quanto tale, farla esplodere, darle forma perché “la nostra domanda così violentemente contraddittoria può darsi che sia foriera di soluzioni creative, non in continuità con la storia che ci sta alle spalle” (Cacciari, 2008).

Nell’attuale configurazione di poteri, funzioni e relazioni è illusorio pensare di “ritornare” ad una mitica età rurale, anzi ci sarà un’accelerazione del salto tecnologico verso traguardi che noi nemmeno immaginiamo. L’interazione tra tecnologia e mercato è, infatti, un motore potente che assicura una sorta di rivoluzione permanente (Schiavone, 2009). L’irreversibilità del processo non deve, tuttavia, spaventarci perché non è la sua inarrestabilità l’origine delle crisi odierne: economica, energetica e climatica. L’errore è stato di aver pensato che non fosse possibile introdurre elementi di razionalità nel processo. E dunque ci siamo estraniati da esso rinchiudendoci nei localismi incorruttibili e nei saperi nostalgici o erigendo facili quanto illusorie trincee nel tentativo di combattere tale processo. Abbiamo reagito ai fenomeni della smaterializzazione e della “a-territorialità” e alla conseguente “perdita del senso del luogo” con due atteggiamenti sbagliati ma speculari: o l’opposizione pregiudiziale o l’adesione acritica (Ferrarotti, 2009). C’ è stato, infatti, anche chi ha pensato che in fondo non fosse necessario razionalizzare il processo perché tanto ci avrebbe pensato il libero mercato. Insomma un misto di conservatorismo, ingenuità e rassegnata impotenza.

Ora tocchiamo tutti con mano la necessità di progettare il futuro e, dunque, di ri-prenderci la nostra funzione di costruire lo spazio del nostro abitare. Se un ritorno a qualcosa va perseguito, questo non può essere altro che il recupero dell’idea di doverci dotare di una rinnovata visione riformista in grado di produrre più conoscenza scientifica e politiche di medio-lungo periodo. Lo dobbiamo fare però non combattendo donchisciottescamente contro la “città” e i suoi potentati per crearci uno spazio “altro”, ma assumendo la nuova dimensione “urbano-rurale”, che è il nuovo mondo e l’insieme delle sue risorse, dei saperi scientifici e di quelli contestuali, come terreno del nostro agire. Non si tratta di abbracciare il vecchio e inservibile cosmopolitismo da “siamo tutti cittadini del mondo” ma di fare i conti con le nuove paure, le insicurezze e i disagi della modernità, diffusi in modo impressionante nelle odierne società, perseguendo un benessere non meramente consumistico ma inteso come ricerca di un senso da dare alle nostre vite e alle nostre capacità e come esito di più conoscenza, più mobilità, più cura dei giovani, più inclusività. E’ qui che le antiche culture rurali e cittadine potrebbero esprimere davvero le loro potenzialità e fare in modo che ad alimentare i saperi del gusto e dell’ospitalità non siano l’egoistica propensione al “chilometro zero” o il rifiuto romantico e retrivo delle contaminazioni culturali ed etniche sulle nostre tavole, bensì i valori di reciprocità e mutuo aiuto propri di un mondo contadino che non ha mai separato l’economia dalle relazioni sociali, la concezione della natura come prodotto dell’interazione tra uomo e ambiente, il ruolo propulsivo della ricerca scientifica nella formazione della cultura alimentare italiana che avendo un’origine urbana è stata da sempre una scienza.

La lingua tedesca chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. “Agricoltura” e “costruzione” hanno lo stesso termine: Ackerbau; “contadino” ed “edificatore” hanno un comune modo di dire, Bauer, e l’antica radice Buan significava “abitare”. Per governare un territorio, non più urbano né rurale, e abitarlo in modo consapevole, dobbiamo “ri-tornare” ad unificare tutti questi significati e riconoscerci come costruttori e manutentori dei paesaggi che abitiamo. Si tratta, in sostanza, di “ri-progettare” i territori come processo di autoapprendimento collettivo e di edificazione di un nuovo Welfare, di sviluppare più conoscenza scientifica, integrandola con saperi locali da “ri-scoprire” e “ri-vitalizzare”, di rinunciare alla concezione antropocentrica oggi dominante in tutto l’Occidente, riconoscendo la finitudine umana, e di dotare la politica e le istituzioni di un ruolo europeo e planetario per introdurre più regole nell’economia reale e non in fantomatiche “altre” economie, contribuendo a razionalizzare i problemi globali.

Occorre riscoprire il senso del Genius Loci, inteso come il “terzo termine” che sta tra me e il paesaggio che contemplo e che mi contempla, una sorta di “terzo paesaggio”, una costruzione mentale e culturale che definisce la mia identità. Ma senza feticizzare le radici e blindare la comunità contro lo straniero perché l’identità si riconosce nell’alterità e l’ospitalità è più antica di ogni frontiera. “Il Genius Loci è un memento essenziale: ricorda a un mondo frenetico e smemorato come quello odierno che l’uomo è un albero che si sprigiona, al modo di una fiamma, in due sensi. Ha bisogno di cielo, di aria, di orizzonti e di paesaggi e nello stesso tempo deve mettere le radici nel profondo della terra, succhiarne i liquidi vitali, garantirsi così la sopravvivenza e la creatività” (Ferrarotti, 2009).

 

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Riferimenti bibliografici

 

* Barberis C. (a cura di) (2009), Ruritalia. La rivincita delle campagne, Donzelli Editore

* Cacciari M. (2004), Nomadi in prigione in Bonomi A., Abruzzese A. (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori Editore

* Cacciari M. (2008), La città, Pazzini Editore

* Caggiano M., Giarè F., Vignali F. (2009), Vite contadine. Storie dal mondo agricolo e rurale, INEA

* Di Mario M., Pascale A. (2009), Le campagne urbane e le nuove forme dell’abitare in INEA, Mondi agricoli e rurali. Proposte di riflessione sui cambiamenti sociali e culturali

* Ferrarotti F. (2008), Considerazioni intorno alla periferia romana in Borgna G. (a cura di), Capitale di cultura. Quindici anni di politiche a Roma, Donzelli Editore

* Ferrarotti F. (2009), Il senso del luogo, Armando Editore

* Laffi S. (a cura di) (2009), Le pratiche dell’inchiesta sociale, Edizioni dell’Asino

* Leogrande A. (2008), Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori

* Milone P. (2009), Agricoltura in transizione. Un’analisi delle innovazioni contadine, Donzelli

* Schiavone A. (2009), L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Editori Laterza

* Shiva V. (2009), Ritorno alla terra. La fine dell’ecoimperialismo, Fazi Editore

* Venturi Ferriolo M. (2009), Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri

 

Tratto da www.agriregionieuropa.univpm.it

 

Gli autori di Vorrei
Pino Timpani

"Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare contrade a venire." (Gilles Deleuze & Felix Guattari: Rizoma, Mille piani - 1980)
Pur essendo nato in Calabria, fui trapiantato a Monza nel 1968 e qui brianzolato nel corso di molti anni. Sono impegnato in politica e nell'associazionismo ambientalista brianzolo, presidente dell'Associazione per i Parchi del Vimercatese e dell' Associazione Culturale Vorrei. Ho lavorato dal 1979 fino al 2014 alla Delchi di Villasanta, industria manifatturiera fondata nel 1908 e acquistata dalla multinazionale Carrier nel 1984 (Orwell qui non c'entra nulla). Nell'adolescenza, in gioventù e poi nell'età adulta, sono stato appassionato cultore della letteratura di Italo Calvino e di James Ballard.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.