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Speculazioni sulle aree industriali dismesse guidate dallo slogan che l'edilizia è il traino dell'economia, che il suo mercato non ha limiti e che quelle aree sono brutte a vedersi.

Spesso si pensa che il recupero delle aree industriali dismesse sia una novità di questi ultimi anni. In realtà, la rendita urbana, già da tempo, si era in parte spostata dalle espansioni edilizie residenziali sui terreni agricoli agli interventi su industrie che nel tempo erano entrate in crisi e che avevano chiuso, a volte per cause strutturali del mercato (ad esempio il settore tessile), a volte per fatti contingenti (delocalizzazione globale). Anche la legislazione urbanistica aveva colto quella necessità e si era da tempo adeguata.

La prima legge nazionale che ha affrontato in modo organico il tema del recupero è la n. 457 del 5 agosto 1978 (ben 40 anni fa) e in particolare gli articoli 27 e 28, che stabilivano le norme per l'individuazione nei Piani regolatori generali, delle zone e dei piani di recupero. Fino ad allora la strumentazione urbanistica prevedeva piani particolareggiati di iniziativa pubblica (peraltro poco utilizzati).

In regione Lombardia, il tema del recupero urbano venne affrontato con una legge di deregulation, la n. 22 del 1986 che promuoveva i Programmi integrati di recupero del patrimonio edilizio esistente (PIR) che prevedeva, qualora gli interventi non fossero stati conformi alle previsioni dei PRG, una volta approvati dalla Regione, costituivano variante urbanistica, non solo ai Piani urbanistici, ma anche ai regolamenti edilizi e a quelli di igiene. Quel principio deregolatorio verrà ripreso nel 1999 con legge regionale n. 9 con i Programmi integrati di intervento (Pii), poi travasati praticamente identici nella LR 12 del 2005 (art. 87 e seguenti).

Inutile dire che quella deregulation portò con sé anche fenomeni di corruzione, potendo quei piani attuativi non rispettare gli strumenti urbanistici generali (in variante). Le regole quindi venivano stabilite volte per volta e caso per caso. Così tecnici e amministratori a volte ne approfittavano.

Il meccanismo era quasi sempre lo stesso e vedeva immobili industriali, anche di un certo pregio storico e di archeologia industriale, essere totalmente demoliti per fare spazio a condomini residenziali, complici anche i PRG che vedevano nella cosiddetta “vocazione residenziale della città” un obiettivo da perseguire.

Se questo poteva avere un senso nei primi anni settanta che vedevano ancora forti migrazioni  dovuti a fenomeni di industrializzazione, ha perso via via quel senso, molto spesso scadendo nella mera speculazione finanziaria sulle aree e gli immobili, alimentata anche da una motivazione di carattere estetico (“le aree industriali dismesse sono brutte”), invece che mettere in atto strumenti urbanistici e relative decisioni politiche per riportare quelle aree ad un loro uso produttivo, pur e anche in modo molto diverso da quello iniziale.       

Anche a Monza e nei dintorni esistono diversi esempi interessanti che hanno visto vecchie fabbriche sistemate per contenere anche nuove funzioni innovative, proprie del post industriale, mantenendo l'architettura di quegli immobili e utilizzando gli “open space” (spazi aperti), che quelle ex manifatture offrivano. Si sono evitate in tal modo speculazioni immobiliari e la cancellazione della memoria di quei luoghi.

La manfrina che gli amministratori poco accorti spesso invocano è che il mercato edilizio, soprattutto quello residenziale, si autoregola e che non ha limiti. Questa motivazione, propria dalla politica liberista di centro destra, è stata però smentita dai fatti. Non dimentichiamoci, per esempio, il “piano casa” ai tempi dei governi Berlusconi (2009) che ha visto il Governo e le Regioni impegnate in mesi di trattative e poi legiferare al motto “quando l'edilizia va, tutto va”, mentre in realtà quel Piano casa si è dimostrato un vero flop, di cui non si parla neppure più. Senza contare che oggi nessuno negherebbe che l'edilizia sia in una crisi strutturale, fosse anche solo per il fatto che ormai la maggioranza degli italiani è proprietario di casa e anche per questo motivo il mercato si è fortemente ridimensionato. I dati forniti dall'ANCE, l'associazione dei costruttori edili, parla di 600 mila posti di lavoro persi dal 2008 al 2017.

Quanto al fatto estetico, non sembra una motivazione sufficiente, con interventi che portano, molto spesso, a risultati disastrosi, con deformazioni e brutture che vengono usate invece dai Comuni semplicemente per far costruire e fare cassa. In ogni caso, questo modo di ragionare, nulla ha a che vedere con l'urbanistica e il soddisfacimento di reali fabbisogni abitativi. Piano attuativo dopo piano attuativo, ne esce una città abnorme e gonfiata, intasata anche nella sue parti già consolidate, dove traffico e invivibilità la fanno da padroni. Ben altro che la rigenerazione urbana tante volte sbandierata come slogan, per far passare poi di tutto.

A Monza le aree dismesse sono una trentina circa e occupano 645.000 mq. Per una città di 123.000 abitanti e di 33 kmq non sono poi tante, sono mediamente piccole e nulla hanno a che vedere, per esempio, con la vicina Sesto dove la sola area della ex Falck, interessa una superficie di 1.200.000 mq di territorio. Certo che demolirle integralmente per fare spazio ai soliti condomini residenziali, sarebbe come se nel centro storico, negli anni '60 e '70, si fosse demolito le vecchie cortine edilizie e le vecchie case abbandonate e fatiscenti per costruire edilizia “moderna”. Per cultura e per scelta politica si decise invece di conservare quelle architetture e così ancora oggi ne possiamo godere passeggiando per le vie del centro, riconoscendo il vecchio impianto urbanistico e quelle architetture. Naturalmente ci sono delle pessime eccezioni che ancora oggi vengono additate come esempi di una politica edilizia e urbanistica dissennata. Non escludo che questo fatto possa accadere anche per alcune aree dismesse “rigenerate”.  

 

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Gli autori di Vorrei
Giorgio Majoli
Giorgio Majoli

Nato nel 1951 a Brescia, vive a Monza dal 1964. Dal 1980 al 2007, ha lavorato nel Settore pianificazione territoriale del Comune di Monza, del quale è stato anche dirigente. Socio di Legambiente Monza dal 1984, nel direttivo regionale nei primi anni ’90 e dal 2007, per due mandati (8 anni). Nell’esecutivo del Centro Culturale Ricerca (CCR) di Monza dal 1981. Ora pensionato, collabora come volontario, con associazioni e comitati di cittadini di Monza e della Brianza, per cercare di migliore l’ambiente in cui viviamo.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.