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Il saggio di Walter Tocci, direttore del Centro per la Riforma delle Stato, sulle trasformazioni della rendita urbana in Italia, dal dopoguerra ad oggi

 

E’ questo il titolo di un interessante documento scritto da Walter Tocci, direttore del Centro per la Riforma delle Stato, già vice sindaco a Roma e oggi deputato, che, in quel saggio, svolge una serie di analisi sulle trasformazioni della rendita urbana in Italia, dal dopoguerra ad oggi. Ne tentiamo una sintesi fatta di ampi stralci (non virgolettati) dal testo originario, rinviando comunque a una sua attenta lettura, che consigliamo a chiunque e che alleghiamo in fondo a questo articolo. Quelle analisi, pur scritte più di un anno fa, sono molto utili per capire anche la situazione odierna di Monza e il suo “nuovo” Piano di Governo del Territorio, da gennaio in discussione in consiglio comunale. Walter Tocci richiama il ruolo fondamentale acquisito nel tempo, dalla rendita immobiliare in Italia, distinguendone tre diverse tipologie e tre periodi. Dal dopoguerra agli anni ’70: nella fase di espansione urbana, prevale la “rendita marginale”, prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi, con la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato, che porta a valorizzare i terreni urbani, sottraendoli all’uso agricolo. La finanza entra nel processo edilizio con il credito bancario che consente al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare, con la vendita degli immobili, una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. E’ il periodo delle “mani sulla città”, descritto nel film di Rosi nel ’62 e dei cosiddetti “palazzinari”. Dagli anni ‘80 alla fine degli anni ‘90: con la rivoluzione terziaria degli anni ottanta cambia il verso della trasformazione. Si torna a operare all’interno della città per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni direzionali, utilizzando gli immobili liberati dalla dismissione industriale e da alcune funzioni pubbliche (per es. caserme, scali ferroviari, poste). E’ la “rendita differenziale”, che gioca sui diversi valori posizionali interni all’edificato. Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi (es. il Lingotto a Torino o la Bicocca a Milano). La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi senza dover fare i conti con la riorganizzazione del ciclo produttivo. Dal ’97 ad oggi: è il periodo della “rendita pura”, con l’avvento sul mercato finanziario dei fondi immobiliari. Con il fondo la valorizzazione approda a una rendita immobiliare, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Solo con la moderna economia di carta e di mattone questo processo raggiunge la compiuta maturità. Ne fornisce una rappresentazione, la griffe del grande architetto che aiuta la valorizzazione proprio perché produce un oggetto sradicato dalla città e connesso all’immaginario globale. Le archistar non progettano luoghi, ma creano brand per la borsa mondiale della moda. Comunque, la rendita pura immobiliare partecipa al primato della rendita nell'economia del turbocapitalismo. Infatti, con l’ascesa della finanza la rendita ha sopravanzato il profitto e lo ha intrappolato nella propria logica. Il profitto è tale in quanto entra in un prodotto finanziario. Nella ripartizione della ricchezza l’aumento è andato a favore della rendita, il tutto a discapito dei redditi da lavoro. Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Il declino nascosto sotto il mattone. I grandi gruppi italiani hanno scoperto le gioie del Real Estate nella seconda metà degli anni novanta. Un'operazione emblematica è condotta da Tronchetti Provera a partire da una joint venture del 1997 con Morgan Stanley, uno dei colossi bancari andato a gambe all’aria nella crisi dei mutui subprime, per unificare la gestione del patrimonio dell'industria Pirelli fino a farne un grande operatore immobiliare, la Pirelli & C. Real Estate. L'esternalizzazione dei patrimoni industriali in appositi fondi immobiliari viene realizzata in pochi anni da tutti i grandi gruppi italiani (la Fiat, Benetton, Falck ecc.), da banche e assicurazioni (Ina, San Paolo-Imi, ecc.) e dai grandi enti pubblici (Eni, Enel, Fs ecc.). Si tratta della più importante ristrutturazione del capitalismo italiano di fronte alla sfida della globalizzazione. Nel 1999 i prestiti per acquisto di immobili superano per la prima volta quelli per l’acquisto di macchinari industriali fino a raggiungere nel 2005 un rapporto 3 a 1. Il funzionamento capovolto del mercato della rendita, a differenza di quello delle produzioni, aumenta poi il valore degli immobili all’aumentare della domanda. Nel frattempo, le famiglie perdevano quota di reddito anche nel circuito della produzione a favore dei profitti, ottenendo salari insufficienti a pagare l’indebitamento immobiliare. Noto il disastroso risultato negli USA con i mutui. In Italia, il governo di centrodestra ha dato un forte impulso a tutti i fenomeni della cosiddetta “valorizzazione immobiliare”. Lo scudo fiscale ha consentito, per due volte in pochi anni, il ritorno quasi gratuito di capitali spesso inconfessabili, che hanno trovato una sponda sicura nei fondi immobiliari. Una volta scoppiata la crisi l'unica risposta che Berlusconi ha saputo immaginare è stata una nuova sollecitazione al mercato immobiliare con l'introduzione del premio di cubatura per gli ampliamenti edilizi (il bluff del cosiddetto Piano casa). E' stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita, poiché ha sottratto risorse importanti agli impieghi produttivi per destinarle a finalità speculative. A forza di creare valore spostando risorse dall’industria al mattone, alla fine si ottiene solo bassa produttività. La rendita deprime l’economia mentre si vanta di salvarla. E’ stato un decennio di grande retorica sulla “società della conoscenza, innovazioni tecnologiche e produzioni immateriali”, ma nella realtà ha vinto la componente più vecchia e retriva dell’economia italiana. Il tecnico, l’imprenditore e il politico. I protagonisti della filiera edilizia escono dall’ultimo decennio dell’euforia con una vistosa perdita di credibilità che attiene al venir meno delle rispettive missioni: il tecnico ha perduto il senso critico della trasformazione, l’imprenditore ha negato la concorrenza e il politico ha tradito l’interesse pubblico. L’assenza di segnali d’allarme durante la fase trionfante della bolla immobiliare espone oggi gli urbanisti agli stessi rimproveri rivolti agli economisti per non aver saputo o voluto mettere in guardia dagli eccessi finanziari. La perdita di senso critico è confermata all’indebolimento di quasi tutti gli strumenti di controllo interni alla disciplina (processo di deregulation e di depianificazione). La mancanza di controlli e di realistiche previsioni, ha trasformato l’urbanistica in un esercizio narrativo sulle magnifiche e progressive sorti della città. Ai modelli di simulazione si sono sostituite retoriche pubbliche e immagini fantasiose. Si è affermato un gergo urbanistico composto di parole suggestive (es. nuove centralità urbane, poli della città rinnovata, ecc.) che acquistano significato solo per una loro ripetizione ossessiva e stereotipata, riproposta un po’ ovunque. E’ ben chiaro che se un episodio urbano si ripete più volte, non può centralizzare alcunché. Evidentemente si tratta di pesanti localizzazioni, molto disperse sul territorio, fatte senza la necessaria ponderazione del loro peso, molto spesso con una dimensione tale da evidenziarne tutta la loro originaria patologia finanziaria. Nell’euforia immobiliare anche l’imprenditore ha smarrito qualcosa che dovrebbe essere intrinseco alla sua natura, cioè la concorrenza. Basta pensare, ad esempio, alle cartolarizazzioni di Tremonti: la più grande dismissione di patrimoni residenziali pubblici, tramite le società veicolo, composte sulla base di relazioni di potere, in una santa alleanza tra il sistema bancario, i grandi proprietari e i fondi immobiliari. Le procedure poco trasparenti hanno consentito facili arricchimenti dei soggetti più scaltri nel muoversi nei complicati giochi di relazione tra le varie cordate. Gli immobili sono stati oggetto di diversi passaggi di proprietà, raggiungendo in pochi mesi prezzi due tre volte superiori a quelli incassati dal pubblico. Spesso Il costruttore cerca interlocutori nelle burocrazie pubbliche per realizzare sedi di uffici o servizi pubblici. Così, altrettanto spesso, il pubblico come locatario o acquirente regala al costruttore ulteriori margini di rendita che si aggiungono a quelli già concessi nella variante o nell’autorizzazione urbanistica. Per il mercato della casa, durante il periodo della bolla immobiliare, era piuttosto facile collocare sul mercato immobili per i redditi medio alti, trascurando completamente l’offerta per i ceti più bassi. Appena il meccanismo si è inceppato i costruttori hanno scoperto una forte sensibilità popolare e sono corsi quindi a chiedere aiuto al governo per costruire case per l'affitto, corposamente finanziate dal pubblico. Il politico: più grave è, infine, il tradimento della missione del politico, poiché incentiva tutti gli altri soggetti a venire meno ai rispettivi ruoli. Sono rari i casi di amministrazioni che abbiano saputo dirigere i processi di trasformazione senza soggiacere alle pressioni degli interessi di parte. Quando un assessore concede una variante urbanistica crea una rendita che andrebbe, una volta dimostrata la sua necessità e opportunità per il territorio, almeno ripartita tra il pubblico e il privato secondo criteri trasparenti. L’approvazione di una variante urbanistica è per lo più affidata alle scelte soggettive degli amministratori, messe sempre “a rischio” dagli alti valori economici in gioco. In assenza di regole certe e chiare (urbanistica contrattata) la giustificazione rimane affidata alla retorica del discorso politico, che abbiamo già descritto in precedenza (rinnovamento della Città, ecc.). La maggior parte delle vicende di corruzione, in modo più o meno evidente, riguardano operazioni urbanistiche. Alcuni partiti si sono trasformati in una sorta di succursali in franchaising, tenute insieme dal simbolo e dai leader televisivi, ma sono ormai costituite da un insieme di notabili locali dotati di una forza elettorale personale. La struttura politica è falsamente unitaria e la divisione dei compiti è netta: i notabili alimentano il patrimonio e i leader curano il marchio; ai primi il voto di scambio e ai secondi il voto di opinione. Così come non c’è da stupirsi se queste vicende colpiscano anche la credibilità di alcune amministrazioni di sinistra, scelte dai cittadini proprio per tutelare il primato dell’interesse pubblico, e abbiano invece poco risalto nell’opinione pubblica quando si tratta di amministrazioni di destra, per le quali la tutela della rendita è quasi una caratteristica genetica. Per non parlare di quando le scelte urbanistiche coinvolgono entrambi gli schieramenti, con intrecci bipartisan di varia natura, attuate tra tecnici, progettisti, politici e imprenditori di partiti opposti. Il territorio della rendita. Nell’ultimo ventennio gran parte delle città italiane sono dilagate nei rispettivi hinterland creando intorno alla parte consolidata una galassia di insediamenti sparsi. L’espulsione dalle città della popolazione con reddito medio-basso, in seguito all’abbandono di qualsivoglia politica di edilizia sociale, l’ha così costretta a cercare casa nei comuni dell’hinterland. La rendita pura crea un’onda di valorizzazione che agisce sull’intero sistema urbano, prima colmando la città compatta e poi traboccando (spill-over) nello sprawl delle aree metropolitane. Esempi: Milano e Roma. In assenza di efficaci politiche pubbliche questa forza espansiva si traduce in un bulimico consumo di suolo: dal 1995 al 2006 l’Italia ha consumato ben 750 mila ettari di superficie libera, pari ad un regione grande come l’Umbria. Per servire queste agglomerazioni a bassa densità tutte le reti urbane devono essere allungate, determinando in tal modo alti costi infrastrutturali che appesantiscono i bilanci pubblici già impegnati a recuperare una dotazione di servizi, spesso insufficiente. La risposta degli amministratori di solito peggiora il fenomeno. Il comune non ha le risorse per realizzare le infrastrutture e quindi le ottiene dai privati in cambio di varianti urbanistiche e relative cubature concesse. Queste, però, sono quasi sempre realizzate in uno squilibrio tra la rendita incamerata dai privati e i costi a carico del pubblico con il conseguente aggravamento dei bilanci comunali. Tale effetto non viene interpretato correttamente, per malafede o per ingenuità, e quindi si tende a reiterare il processo con ulteriori varianti urbanistiche e progressivi peggioramenti del deficit, in un circuito vizioso senza fine. Si fa finta di non vedere gli effetti della decisione urbanistica sulla vita collettiva, sull’organizzazione urbana e dei servizi, che porta inevitabilmente all’uso del mezzo privato per raggiungere la propria abitazione posta nell’hinterland metropolitano. La rendita come problema storico - politico. E’ improbabile che un politico vada oggi in televisione a parlare di rendita urbana e immobiliare, ma neppure tra gli esperti è frequente trovare riflessioni sui processi economici della sua trasformazione. Nelle riviste italiane l’argomento della rendita apparirebbe fuori luogo. Ricordiamo che il tentativo più alto e mai più raggiunto di dare al paese una moderna regolazione dei suoli fa la proposta di legge di Sullo nel ’62 (Ministro della DC). Questa raccolse gli stimoli di una ricca discussione culturale e tentò di recepire le tesi allora più avanzate nella ricerca europea, attuando una totale separazione tra la proprietà e il diritto edificatorio, secondo le teorie dello svizzero Hans Bernoulli riassunte nello slogan: “il suolo alla comunità, la casa alla proprietà privata”. Ogni grande questione politica ha dietro di sé un problema storico: la rendita, col suo enorme potere regolativo sui processi economici, sociali, politici e fisici, è stata una forza irregolare che per oltre mezzo secolo ha deviato l’alveo della storia nazionale, e tuttavia la sua storia non è stata ancora scritta. La rapidità e l’oscurità di alcuni passaggi storici, con la minaccia di un golpe nel ’64 (questione Sifar), lasciano intendere quali forze si scatenarono per far deragliare la civilizzazione italiana e metterla su un binario morto. La storia italiana è comunque segnata da un interminabile tiro alla fune tra l'ingegno e la rendita: il primo si afferma nei momenti di prosperità e la seconda vince nei periodi di decadenza. La rendita è un essenziale problema politico, forse più difficile di altri, perché coperto da una sorta di rimozione collettiva che ne nasconde la reale portata e alcuni suoi significati. Per un’onesta legge sui suoli. Ora che la crisi finanziaria ha mostrato i guasti dell’economia della carta e del mattone si rende necessario avviare un ripensamento e approdare ad un’onesta legislazione sulla rendita urbana. Si dovrebbe mettere a tema una svolta rispetto ai guasti prodotti dall’euforia immobiliare. Il consumo di suolo: è ormai improcrastinabile stabilire vincoli nazionali per limitare il consumo di suolo. Si deve prendere atto che le amministrazioni locali hanno dimostrato una debole capacità di autoregolazione e la legislazione regionale non ha saputo rendere cogenti principi di contenimento, pur solennemente dichiarati. Questa incontinenza ha ormai lasciato segni indelebili sul territorio e può essere fermata solo da una forte e unitaria volontà nazionale. La cura del ferro: non si devono realizzare insediamenti senza la garanzia di sufficienti livelli di accessibilità con il trasporto pubblico. La polverizzazione edilizia deve essere addensata intorno ai nodi di potenti reti su ferro a scala regionale, eliminando le previsioni edificatorie non sostenibili. Le norme devono fissare indici minimi di servizio di trasporto che bisogna rispettare nell’attuazione di piani urbanistici. La rendita e i costi: la rendita è una produzione collettiva di valore, in gran parte determinata dalle politiche pubbliche che trasformano il territorio e dal comportamento aggregato dei cittadini. Al contrario, l’appropriazione della rendita è un fatto individuale e può riguardare anche soggetti che non hanno fatto nulla per accrescerla. Per esempio, un appartamento si può valorizzare senza che il proprietario prenda alcuna iniziativa, solo perché i vicini abbelliscono i loro palazzi e il comune costruisce una metropolitana. Questa appropriazione individualistica di un valore prodotto collettivamente non è solo ingiusta, ma è anche inefficiente, poiché sottrae risorse allo stesso processo di valorizzazione. Basterebbe invece utilizzare la leva fiscale e l’adeguamento degli oneri di concessione per trasferire alle casse pubbliche parte della rendita prodotta dagli interventi infrastrutturali pubblici e di quella che si determina invece nelle compravendite di immobili (terreni e fabbricati). Nel 2004, ad esempio, le transazioni immobiliari dichiarate hanno raggiunto la cifra di 136 miliardi di euro. In esse lo Stato ha incassato circa 6 miliardi per tributi (registro, catasto, ecc.), meno di quanto è andato alle parcelle dei notai (7 miliardi). Case per i cittadini: la formazione della rendita pura ha bloccato il mercato delle locazioni soprattutto per le fasce sociali medio basse. Si tratta di un caso classico di fallimento del mercato e solo una decisione pubblica può ricostituire l’equilibrio. La legislazione di altri paese europei si è già mossa in questa direzione. In Francia si è stabilito il vincolo di almeno il 20% di edilizia sociale nell’offerta abitativa di agglomerazioni superiori a 50 mila abitanti. I comuni inadempienti subiscono una riduzione dei trasferimenti statali per una somma che viene stornata a favore delle associazioni territoriali. La legge catalana va oltre e fissa al 30% la quota di edilizia sociale che i privati devono cedere al comune con la minaccia di esproprio in casi di inadempienza. Anche nella legislazione italiana esisteva la riserva di una quota di edilizia sociale da rispettare nella pianificazione urbanistica, ma è stata praticamente eliminata con ampio consenso nel pieno dell’euforia immobiliare. La concorrenza: la procedura potrebbe essere semplice. Il Comune acquisisce sul mercato le aree prima di pianificarle e poi le rivende attraverso un bando, rientrando del prezzo di acquisto e incamerando la rendita prodotta dalla decisione pubblica. Con queste entrate può acquisire altre aree, portando quindi a regime il processo, come nella gestione di un normale fondo di rotazione. E’ falso dire che l’acquisizione pubblica è un intervento oneroso, anzi, al contrario, è un modo per arricchire la collettività rendendo più aperta la concorrenza, come è stato ampiamente dimostrato dalla consolidata esperienza dei paesi nordici. E’ questa una politica per il mercato, non contro il mercato, serve cioè a rimuovere il monopolio naturale della rendita per creare una vera concorrenza non tra proprietari, ma tra industriali della trasformazione urbana. Una legge dei suoli urbani, dovrebbe consentire quindi una nuova politica pubblica del territorio. Le tecniche da impiegare sono diverse, alcune già consolidate nelle esperienze europee e altre da elaborare in una ricerca innovativa. Occorre solo liberarsi di un’ideologia della “roba” che ha oscurato le menti e giustificato la peggiore trasformazione della nostra penisola nella sua lunga storia.

 

Scarica da qui il saggio di Walter Tocci pubblicato sulla rivista “Democrazia e Diritto” , n. 1/2009, edita da Franco Angeli.

Gli autori di Vorrei
Giorgio Majoli
Giorgio Majoli

Nato nel 1951 a Brescia, vive a Monza dal 1964. Dal 1980 al 2007, ha lavorato nel Settore pianificazione territoriale del Comune di Monza, del quale è stato anche dirigente. Socio di Legambiente Monza dal 1984, nel direttivo regionale nei primi anni ’90 e dal 2007, per due mandati (8 anni). Nell’esecutivo del Centro Culturale Ricerca (CCR) di Monza dal 1981. Ora pensionato, collabora come volontario, con associazioni e comitati di cittadini di Monza e della Brianza, per cercare di migliore l’ambiente in cui viviamo.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.