Ville in abbandono, fiaschi ingegneristici, cascine deturpate e cadregoni indigesti. Viaggio fra le presenze inquietanti all'interno del Parco cintato più grande d'Europa
È
purtroppo diffusa l'opinione secondo cui "è bello ciò che piace". È vero il contrario: è bello ciò che è bello. Nessuno, credo, potrebbe mettere in dubbio che Mozart o Leonardo abbiano fatto delle opere "belle", diverse da una qualsiasi strimpellata o da una crosta.
Certo, non sempre è facile distinguere le cose belle dalle brutte. Ma cercherò di dimostrare che in certi casi non è poi così difficile, con una passeggiata verso e nel Parco di Monza.
Cominciamo dal "Vialone Reale", oggi Viale Cesare Battisti, parte integrante della Imperial Regia Villa e Parco. Sul lato sinistro guardando il fronte della Villa troviamo una costruzione che richiama certe strutture di pregio di archeologia industriale, ma che non stona tra le ville stile floreale che costeggiano il viale: la Forti e Liberi, cioè la sede - costruita nel 1903 - di una società sportiva fondata nel 1878, attualmente oggetto di un restauro. A un certo punto della sua gloriosa storia si è presentata la necessità di ampliarla con una nuova palestra. Detto e fatto: un parallelepipedo nudo e crudo inserito nel retro dell'edificio, tra questo e la pista all'aperto. Che c'è di male? Qualcuno dirà. C'è che è brutto, e basta il confronto con la sede originaria per capirlo.
Ora entriamo nella Corte d'Onore della Villa. Al centro troviamo una grande fontana che onorerebbe veramente questo transito. Uso il condizionale perché la fontana... è vuota! Quando arrivai a Monza era un piccolo e splendido lago, dove i bambini potevano far navigare barchette e motoscafi. Da decenni è abbandonata. Se il bussolotto dietro la Forti e Liberi è un "brutto da pieno" (come quasi tutti i brutti), questo è un "brutto da vuoto". Basterebbe riempirlo per restituirgli la bellezza perduta.
Saltando, per brevità, un altro brutto da vuoto, e cioè il "Giardino roccioso" che costituisce una delle bellezze abbandonate dei Giardini reali, ed entrando nel Parco vero e proprio, incontriamo subito la Cascina del Sole, la cui costruzione risale al 1839. Evidentemente il sole e la radura davano fastidio, per cui oggi la semplice ed elegante facciata non è più visibile. Davanti vi è stato posto un "precario" (notoriamente in Italia non c'è nulla di più permanente dei precari, di tutti i tipi) per fare ombra agli avventori del bar ospitato dalla cascina. La costruzione non è indegna. Ma realizza un "brutto da sottrazione alla vista". È naturalmente integrato da un campetto di calcetto, bruttissimo.
Passiamo a un’altra cascina, la San Fedele. Qui la soluzione adottata assomiglia a quella della Forti e Liberi. È una costruzione neogotica inizio ottocento, in cui tuttavia sono incastonate bifore del 1300 recuperate dalla demolizione della chiesa di S. Maria in Brera di Milano. Anche qui si è presentata a un certo punto la necessità si un ampliamento. Ed ecco il solito, orribile parallelepipedo, questa volta non separato dalla Cascina, bensì attaccato ad essa, come un tumore, ovviamente sul retro. Peccato che la Cascina non aveva un vero retro (che peraltro, come qualsiasi lato B, dovrebbe essere anch’esso bello): infatti è isolata su una collinetta.
E c'è una terza Cascina (tra le tante del Parco, tutte belle) che è stata trasformata in un brutto deposito, la Cascina Bastia. Le sue arcate sono state murate con mattoni per contenere le biciclette da affittare ai visitatori del Parco. Funzione encomiabile, ma perché svolta in modo così miserabile? Le arcate non potrebbero essere chiuse con vetrate? Le biciclette non sono un oggetto bello da vedere?
C'e poi un "brutto da ingombro", come la pubblicità che interrompe un bel film (una emozione, diceva Fellini opponendosi a questo tipo di bruttezza, non può essere interrotta). Si tratta della scultura "lo Scrittore", opportunamente bollata dalla vox populi come "il cadregone". Questa discutibile opera (il bello del bello è che si può discutere) incornicia arrogantemente la vista della antica Fagianaia, oggi trasformata in ristorante.
Potrei parlare ancora a lungo di splendide cascine degradate (a partire delle due più grandi, la Casalta e la S. Giorgio). Ma passo subito ai due ecomostri che meritano il primo piano.
Il primo è la settecentesca Villa Mirabellino. Questa Villa di delizie della famiglia Durini, ha subìto ripetute offese dai barbari del Novecento. Oggi è un edificio abbandonato, insieme al giardino che degrada verso il grande prato del Mirabello e la villa omonima, con una ampia vista sul Parco, e che le antiche stampe ritraggono con leggiadre figure di dame e cavalieri.
Infine, la cosiddetta pista di alta velocità dell'Autodromo, con le famigerate curve sopraelevate. La madre ante litteram di tutti gli ecomostri, non solo del Parco.
Ancora oggi pochi sanno (e l'ignoranza è allevata con grande cura) che quella pista fu un fiasco tecnologico, subito rifiutato dai piloti, inutilizzato e cadente da oltre 50 anni, e soprattutto che non ha nulla a che fare con la pista storica su cui si corre il Gran Premio di Formula Uno. In compenso taglia il Viale Mirabello, asse portante, lungo quattro chilometri, del disegno del Parco, deturpa 60 ettari di Parco e li sottrae al godimento del pubblico.
E a proposito di madri, così come quelle dei cretini, anche le madri degli ecomostri sono sempre incinte. Vedi il progetto, recentemente avallato dal Consiglio dei Ministri, di un impianto di rifornimento di cosiddette energie alternative, da inserire ovviamente nel Parco.
Casualmente mi sono capitate sotto gli occhi "Le affinità elettive" di Goethe. Eccone un brano:
"Sulla soglia Carlotta accolse lo sposo, e lo fece sedere in modo che, attraverso la porta e la finestra, potesse abbracciare in un solo colpo d'occhio le diverse viste offerte, come in cornice, dal paesaggio" (Garzanti, 1983, p.4).
Credo che un nostro compito di abitanti del terzo millennio sia quello di tornare a un futuro nutrito di passato. Saltando a piè pari i tempi moderni.