Da Sabbioneta a Chioggia, un giorno e due notti lungo le rive del grande fiume.
Una sera, quattro amici, in mezzo alla grande pianura, verso il Po. Più passano gli anni e più qualcosa mi invita ad andare a vedere là dove nessuno mette più il naso. In tempi di grande confusione, cerco di ascoltare di più, mi sembra una buona regola per non perdere i sensi. In questo girare occhi e orecchie aperti mi piace pensare che dai paesaggi del margine si possa sentire meglio. Il paese, il tempo, le cose sottili, le frequenze più basse.
Torno al Po perché al fiume sono rimasti impigliati negli anni frammenti e ricordi. Guareschi, Olmi, parole di Rumiz, annotazioni fotografiche di Ghirri, altre, scritte, di Celati.
Celati diceva che sulle rive del fiume, si è lontani dalla città, ma si può sentire una solitudine quasi urbana: sul Po tutto ciò che non ha a che fare con il profitto volge oggi in stato di abbandono, muore lasciato a sé. Dal finestrino: una nave incagliata, un silo in disuso, nastri trasportatori arrugginiti che spuntano da una vecchia cava di ghiaia, strade sterrate che portano a spiazzi di cemento persi nelle nebbie, e poi, verso la foce, idrovore dal rumore sordo e odore di seppie. L'anima genuina del Po è nascosta e forse, in un certo senso, riparata sotto a una spessa coltre di trascuratezze e malefatte dell'uomo.
Eppure il grande fiume è allo stesso tempo protagonista della vita di questo paese. Il quinto fiume d'Europa per portata d'acqua – si legge nei manuali di geografia – rive abitate da 16 milioni di persone e circondate da un terzo delle industrie e della produzione agricola italiane, così come da oltre la metà dell'ormai invisibile (ben chiuso dentro i capannoni) patrimonio zootecnico nazionale. Una delle aree europee con la più alta concentrazione di popolazione e attività economiche.
Torno qui forse anche per questo, perché avverto una certa comunanza con le mie zone, il posto in cui io vivo: mi spinge la voglia di interrogare situazioni cugine. La Brianza è stata ed in parte è ancora uno spazio ricco, produttivo e così anche un confine di solitudini e margine; grande fremito diurno e cupi martedì, mercoledì, giovedì, venerdì sera; certamente terra dove in pochi, da fuori, metterebbero il naso.
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Lasciamo l'autostrada e guidiamo per una pianura che si fa più fosca. Seguendo una stradina che costeggia un cimitero, sembra di andare verso la campagna più nera, quando, d'un tratto, un lampo dorato irrompe nell'oscurità attraverso l'arco di Porta Vittoria, uno dei due ingressi che consentono di varcare l'esagono irregolare di Sabbioneta. Nel buio cupo della sera padana, attorniati da una foschia gentile, non invadente, ci aggiriamo per una città che sembra disabitata. Avanziamo zitti lungo via dei Serviti e poi lungo la principale via Vespasiano Gonzaga. Solo angoli, muri e silenzio.
Alcuni trentenni con lo sprizzetto nel bicchiere stanno sbracati davanti ad un bar e sono le uniche voci nel viale. Quando gli passiamo davanti ci guardano come se portassimo al collo un cartello con scritto: 'turisti'. Superato il bar, altre persiane e cancelli chiusi, vie vuote; auto parcheggiate, poche, e molti cartelli 'vendesi'. Nel cuore dell'esagono si apre Piazza Ducale, sembra enorme dopo il vuoto e il poco incontrati fin lì; la bella piazza ci fa capire cosa abbia spinto l'UNESCO a dichiarare la cittadina 'Patrimonio dell'Umanità' nel 2008, definendola una delle migliori rappresentazioni degli ideali urbanistici del Rinascimento. Ancora un chilometro di finestre spente, prima di arrivare davanti al Corridor Grande e restare per un po' con la bocca aperta e il naso all'insù.
Torniamo all'auto col silenzio appiccato addosso. La città ideale di ieri, stasera sembra un museo, l'idea di una solitudine sotto conserva, chissà se con possibilità di ritorno.
Muoviamo oltre. Nella campagna circostante le uniche luci sono i fanali che illuminano a giorno i grandi rondò e i parcheggi degli ipermercati. Mentre attraversiamo il Po, dal ponte, scorgiamo gialle finestrelle tremolanti nella nebbia, sono le luci di alcune navi ristorante ormeggiate a riva. Dentro, sopra vecchie tovaglie a quadri, si servono lucci, anguille e gamberetti di fiume.
Poi Guastalla, Gualtieri, altre cittadine dagli ingressi sontuosi, centri di potere antico, oggi vie vuote, quattro cani in giro nei sabato notte della provincia.
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Dopo due o tre mesi di lavoro intenso, senza occhi per molto altro, mi ritrovo una sera d'autunno in una casa sul fiume. Ecco finalmente una piccola parentesi di viaggio aspettata. La voglia di raccontarsi una storia e di ascoltare, come quando si va.
È la notte prima della piena, curiosità e paura regnano in me come solo certe volte mi accadeva da bambino. Passo una notte sull'argine ad ascoltare l'acqua lontana e i gorgoglianti discorsi dei pioppi con i piedi a mollo nella golena di fango.
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Arriviamo all'argine di prima mattina. Ci facciamo largo tra un drappello di persone che confabula al sole. Pescatori, guardie ecologiche, ciclisti, tecnici della provincia. «Si chiude», «non si chiude» , «la piena arriva questa notte», «no no, han detto domattina», «sì, ma tanto si alza ancora sette metri, poi basta».
Una dozzina di persone guardano l'acqua spandersi, mentre pian piano si prende i pioppeti, i rovi, i canneti, le strade più basse. Guardano l'acqua e mettono insieme le informazioni che hanno.
Strana vita in questi paesi - Gualtieri, Brescello, Boretto - si vive appena al di là dell'ultimo argine. Si sente spesso il rumore dell'acqua che sale e spinge contro i tronchi e i rami nella golena.
«Quando è andato in piena un anno fa ha rotto l'argine in quel punto là, un chilometro più avanti» indica un autoctono. «Queste campagne eran tutte sott'acqua. Quando rompe diventa un mare. Esce, esce, esce e sembra non finire mai».
Restiamo sul Po tutto il giorno, camminiamo fino al tramonto. È una giornata limpida, colorata, quasi primaverile. Strano aspettarsi che succeda qualcosa - che la superficie placida lentamente diventi forza dirompente - mentre il sole scalda la faccia e rende il paesaggio dolce.
Eppure, a guardarlo bene, in silenzio il fiume avanza inesorabile, e fa solo meno paura perché la boscaglia impedisce lo sguardo, non permette di osservare intero l'orizzonte d'acqua.
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Si attraversa un ponte che nella notte sembra galleggiare sulla nebbia, da un lato l'acqua del fiume, dall'altro l'acqua del mare. L'acqua c'è ma non si vede e non si sente. Abbasso un po' il finestrino e nell'abitacolo entra odore di niente. Finito il ponte si prosegue a piedi dentro la città. Chioggia segna l'inizio del delta fluviale a settentrione, seguendo quaranta e più chilometri di stradine sugli argini la grande foce si può attraversare, passando dal Veneto alla Romagna e raggiungendo Comacchio.
Attraversiamo il porto e poi il porto canale, grandi fasci di luce lambiscono il cielo, i pescatori armeggiano sulle loro barche e si parlano a voce alta da uno scafo all'altro nell'umidità notturna che qui mischia gli odori dell'acqua dolce e salata.
Chioggia la sera è parca, sembra una Venezia del popolo, ancora abitata, non invasa, persino intenta a dissimulare ad ogni istante una certa eleganza, i riflessi nell'acqua tra ponti, calli e canali.
Abbandoniamo il centro seguendo una fila di lampioni gialli che conduce nel buio. Camminiamo fino a superare un lungo ponte e sbarchiamo a Sottomarina, il lido di Chioggia. Cerchiamo di bucare il fronte degli stabilimenti balneari per arrivare alla spiaggia, ma d'inverno è difficile: il lungomare è tutto recinzioni e cancelli chiusi. I chioggiotti col freddo mettono su una specie di cintura di castità per non incontrare il mare. Vai a capirli.
Dopo un chilometro troviamo un varco tra due parchi giochi con le giostrine per i bambini. Li oltrepassiamo e affondiamo i piedi nella sabbia, avanziamo a fatica, ad intuito, nella nebbia, verso il mare.
La spiaggia è lunga, sembra non finire mai, e intanto alle nostre spalle svaniscono nell'oscurità le luci e le insegne degli alberghi chiusi. Anche qui, come sul ponte, l'acqua c'è ma non si sente. L'aria è umida, ferma, niente che lasci presagire da che parte sia il mare. Ci chiediamo anzi se ci sia davvero, il mare. Se sia la direzione giusta e, soprattutto, se saremo in grado di indovinare ancora il varco per tornare indietro.
Poi ad un tratto la sabbia si fa solida e scura, ci sono alghe e conchiglie per terra, l'acqua si sta ritirando e noi la stiamo inseguendo. Eccola, la sentiamo, sentiamo lievissimo lo sciabordio, è lì, in fondo, ora si intuisce, la scorgiamo tra le sagome nel buio. Sempre più vicini.
Ci arrestiamo in linea, spalla a spalla, fermi davanti all'Adriatico nero; restiamo cinque minuti in silenzio, ad ascoltare, puntando dritti lo sguardo nel buio, dove il fiume incontra il mare.