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L'ultimo libro di Guido Viale, presentato da Vorrei e Lilium Produzioni alla Feltrinelli di Monza

 

Il nuovo libro di Guido Viale “La conversione ecologica” è stato presentato giovedì 14 luglio alla Feltrinelli di via Italia, a Monza. I relatori Giorgio Majoli di Vorrei e Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, hanno sin da principio messo in evidenza, interrogando l’autore, ciò che il sottotitolo del testo asserisce, ovvero “There is no alternative”: nel libro si parla degli aspetti fondamentali per la riconversione ecologica dell’economia quali l’importanza della raccolta differenziata, il riuso, l’utilizzo delle energie rinnovabili a cui la crisi del petrolio, tra il resto, dovrebbe condurre, eccetera. In effetti, non abbiamo scelta: dobbiamo convincerci il prima possibile che i modi per uscire dalla schiavitù del petrolio esistono, e non sono necessariamente quelli di cui televisioni e media vogliono convincerci.

Viale ha preso le mosse dal fondatore della lista verde Alex Langer, a partire dal termine di conversione da lui coniato: «Ho preferito questo a “rivoluzione” perché in tal modo si possono mettere in evidenza i due aspetti della problematica. La parola conversione ha rilevanza soggettiva, facciamo quindi riferimento all’impegno individuale di ciascuno di noi: non si può cambiare il mondo se non cambiamo per primi, in questo caso nel nostro modo di vita e di consumo nel rapporto con l’ambiente. Ma non si ottiene nulla con le sole intenzioni: dire conversione è anche evidenziare la dimensione oggettiva di tale cambiamento. Bisogna modificare quindi il modo di produrre, le cose che si producono e le strutture che se ne occupano, in maniera tale che tutto ciò sia compatibile con l’ambiente».

Il tema è alquanto complesso e ha molte facce, a cui il testo e la presentazione hanno dato ampio spazio. Innanzitutto la questione dell’occupazione del suolo. Su questo l’impegno di Legambiente è già assai noto, dice infatti Di Simine: «C’è da chiedersi che ruolo abbia l’urbanistica in tutto ciò. Bisogna dire che non si tratta più della nobile disciplina di un tempo». In effetti si ha decisamente l’impressione che non sia più importante dare una forma visibile e tattile alle esigenze della cittadinanza, che ugualmente non si consideri più la necessità di preservare gli spazi verdi nello stesso tempo in cui si costruisce e che la dimensione estetica giochi un ruolo di secondo grado (a essere ottimisti) nelle decisioni preposte all’occupazione del suolo. C’è anche un altro problema, di tipo istituzionale: il concetto di suolo inteso come “bene comune” non è mai entrato nella legislazione italiana, ma solo in quanto proprietà privata e in quanto patria. Nemmeno a livello europeo le direttive vi hanno posato la loro attenzione, mentre si sono espresse sull’acqua e sull’aria per esempio. Invece sarebbe strettamente necessario legiferare su questo aspetto, soprattutto se pensiamo a casi come quello monzese, in piena bufera PGT.

Alla base sembra esserci l’idea che oggi un territorio pubblico, mentre dichiara di essere di tutti, non pare appartenere realmente a nessuno.

 

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Damiano Di Simine, Guido Viale e Giorgio Majoli

 

Il testo affronta in maniera decisa anche la crisi del petrolio e dell’automobile. In questo senso, l’autore parla del cosiddetto “crash point”, ovvero quel momento in cui questa fonte di energia verrà a mancare: lì dovremo essere preparati e non farci cogliere alla sprovvista. Si può agire capillarmente anche attraverso il controllo delle emissioni, che sono la causa principale dei cambiamenti climatici.

Il problema dell’automobile poi è doppio: da un lato ambientale, nel senso del consumo di suolo e di risorse, dall’altro produttivo. Si tratta evidentemente di uno dei settori più competitivi del mondo, ma questa competizione si è tradotta via via nel peggioramento progressivo delle condizioni degli addetti ai lavori per vincere la concorrenza, accettando l’idea che competizione e condizioni di lavoro non possano convivere. Ma ora più che mai, anche avvalorando questa tesi, vista la crisi in cui versa il settore automobilistico, laddove si è deboli in concorrenza bisognerebbe diventare competitivi in occupazione e salari. La FIAT di Marchionne, secondo Viale, sembra non aver compreso proprio questo: «Si è verificata una compressione delle condizioni e dei diritti dei lavoratori con la pretesa che questo fosse essenziale per la competizione». E, ancora peggio, Marchionne ha ricevuto un sostegno politico e intellettuale completo: le misure politiche non sono state che un’aggressione alle condizioni di lavoro nella speranza di poter reggere la concorrenza, «è così che l’industria italiana finisce se accettiamo che sia subordinata alla competizione globale».

Senza contare, poi, l’aspetto sociale connesso a tutto questo: l’automobile distrugge la socialità delle città. Prima le strade e la piazza (la polis) erano punti di incontro e confronto tra umanità diverse. E’ un vantaggio poter ridurre le grandi distanze e i lunghi tempi, ma bisognerebbe conservare l’abitudine a vivere le nostre città e perdere quella di incontrarsi solo in maniera minuziosamente programmata perché questo vuol dire limitazione ed impoverimento dei rapporti umani e del significato del territorio. «Ciò, a maggior ragione in Europa e soprattutto in Italia, dove le città con i loro centri storici sono una peculiarità nonché un privilegio che nelle altre parti del mondo non esiste», conclude Di Simine.

I rifiuti e la raccolta differenziata costituiscono, poi, una questione che evidenzia maggiormente la necessità di un doppio intervento: da un lato, è indispensabile una buona gestione dei rifiuti da parte della classe dirigente, dall’altro c’è bisogno che i cittadini si impegnino nella raccolta differenziata. In questo ambito, più che in altri, è importante astenersi dal fare la differenza tra nord e sud: non va dimenticato che nei primi anni ’90 i rifiuti lombardi furono smaltiti in territorio Campano e che oggi la città con il più alto livello di impegno in materia è la città di Salerno che, spiega il presidente di Legambiente, «con il suo 60% di raccolta differenziata è la città più virtuosa, primato che non hanno raggiunto le città del nord e del centro».

Proprio la classe dirigente rappresenta l’ennesimo aspetto critico. Secondo Viale ci troviamo in piena «dittatura dell’ignoranza». Sono state fatte scelte che oggi accettiamo come le uniche possibili ma che tali in realtà non sono e, di questa ignoranza, quella che ha nel Liberismo il proprio fondamento teorico, tutti dobbiamo sentirci colpevoli. Non possiamo certo parlare solo dell’Italia o di questo governo, poiché tutto il mondo imprenditoriale rappresenta un tale orientamento, da molto prima del 2008. Ma, se parliamo di esigenza di ricambio della classe dirigente, il periodo italiano attuale ne è un forte esempio: infatti non si ha l’impressione che su tutti i problemi esposti pocanzi ci siano una preparazione ed una consapevolezza tali da affidarci con tranquillità alle decisioni che vengono prese. Si ha, anzi, la netta sensazione che si possano dire dei Sì o dei No che hanno conseguenze sensibili nella vita e nel futuro del Paese e che però non rivelano alti livelli di coscienza e capacità reali. Pensiamo, tra il resto, alla calda questione della TAV: «in un dibattito tra un cittadino qualunque della Val Di Susa e un politico qualunque preposto alla gestione della TAV, il confronto non reggerebbe, perché quei cittadini hanno una preparazione concreta sulla questione, ciò che sembra mancare dall’altro lato», dice Viale.

Cominciamo dunque dal presente: il Berlusconismo, continua l’autore, «è il trionfo dell’ignoranza e dell’orgoglio dell’ignoranza». E’ qui infatti che si sente dire “Coi libri non si mangia”, che la creatività non è premiata, che le riforme scolastiche appiattiscono lo studio del latino solo perché all’attività imprenditoriale non serve, che la musica dal vivo è considerata elemento di disturbo non più solo da chi abita vicino ai locali (il ché avrebbe continuato ad essere comprensibile e negoziabile) ma persino da giunte comunali, si spera tramontate definitivamente, le quali temono la spinta vitale della cultura (non dimentichiamo che una città come Milano ha subito negli ultimi mesi la chiusura di locali storici e, per la maggior parte, specificamente noti per la musica dal vivo). E’ sempre qui che l’etica del lavoro ha riempito ogni vuoto ideale fino a farci credere che tutto ciò che non è denaro non val la pena d’essere coltivato. In più, oltre al danno la beffa, si osserva una tale fierezza nell’affermare questi non-principi che alla fine ci si convince noi di essere dal lato sbagliato.

Ma, per affermare un’esigenza generale anche più urgente in ambito economico-ecologico, una nuova classe dirigente secondo l’autore è possibile, soprattutto se estratta dalla pratica dei movimenti di lotta o molecolari (come egli definisce quei gruppi di cittadini che si mettono insieme per discutere di argomenti fondamentali per la vita comune, ad esempio i GAS). In questi movimenti ci sono persone valide, c’è una «cultura non ignorante» che può consentire di dar vita concreta a quelle che definiscono utopie.

Ed ecco che Viale ripropone Alex Langer con l’espressione “utopia concreta”, un ossimoro che ha dato il nome ad una fiera degli anni ’80, la quale consisteva nell’esposizione di prodotti eco competitivi (cibi, taxi, pannelli, …). Estendendo il concetto, si può affermare senza paura che i modelli proposti sino ad ora non sono gli unici possibili e abbiamo il diritto/dovere di sperimentare altri modi di gestire il nostro rapporto con l’ambiente, non foss’altro che per rispettare due principi che vanno di pari passo: la sostenibilità e la responsabilità verso le generazioni future.

Gli autori di Vorrei
Francesca Salamino
Francesca Salamino