Le sorti segnate nel disciplinare del Consorzio di gestione: “L’obiettivo è quello di creare un luogo dove sia possibile fornire servizi di elevata qualità in un contesto esclusivo posto in relazione con le funzioni nobili già ospitate nel Parco e nella Villa e negli adiacenti Giardini (si ricorda il circuito automobilistico e motociclistico per Gran Premi; golf club e centro di equitazione)”.
Nel Disciplinare dettato al Consorzio Villa Reale e Parco di Monza da Infrastrutture Lombarde S.p.A., longa manus della Regione Lombardia, per regolare i rapporti con il futuro concessionario della gestione della parte più prestigiosa della Villa (Corte d’onore, primo e secondo Piano nobile, Belvedere), è contenuta la seguente frase, scritta con l’usuale linguaggio da azzeccagarbugli tipico degli atti di quella agenzia: “L’obiettivo è quello di creare un luogo dove sia possibile fornire servizi di elevata qualità in un contesto esclusivo posto in relazione con le funzioni nobili già ospitate nel Parco e nella Villa e negli adiacenti Giardini (si ricorda il circuito automobilistico e motociclistico per Gran Premi; golf club e centro di equitazione)”.
La citazione dell’Autodromo e del Golf come “funzioni nobili già ospitate nel Parco e nella Villa”, e quindi come esempio da seguire, posta tra parentesi, suona come una “voce dal sen fuggita” che si evita di far suonare di nuovo in tutto il Disciplinare.
Infatti le concessioni citate, lungi dall’essere esempi da seguire, sono lezioni di ciò che non dovrebbe essere più perpetrato ai danni di Villa e Parco.
Per quanto “valore” si possa attribuire all’Autodromo e al Golf, non vi è dubbio che esso è andato a detrimento del valore del Parco come monumento storico. Tanto è vero che anche recentemente una rappresentante dell’Unesco ha attribuito alla presenza dell’Autodromo l’impossibilità per Villa e Parco di essere inclusi tra i monumenti considerati “Patrimonio dell’Umanità”.
Inoltre, queste concessioni dimostrano chiaramente di essere delle “quasi alienazioni”. La prima concessione per l’Autodromo risale al 1922, anno della sua costruzione, ed è stata sempre rinnovata senza gara alla stessa concessionaria, la Sias (ovvero L’Automobile Club di Milano), ormai da novant’anni. Pressapoco la stessa cosa si può dire per il Golf Club di Milano.
Sia la Sias che il Golf Club sono riusciti con il tempo a fare quel che volevano delle aree in concessione, perseguendo i propri esclusivi interessi, di regola in contrasto con quelli del monumento ospitante: vedi, per la Sias, la questione del rumore, la mancata demolizione della errata e inutile pista di alta velocità con gli ecomostri delle curve sopraelevate, la mancanza di cura, pur dovuta, per l’architettura del paesaggio delle zone verdi pregiate intercluse nella pista storica, fino al recente indecente progetto di un distributore di carburanti cosiddetti ecologici. Per il Golf, gli interventi devastanti sempre sull’architettura del Parco, l’alto consumo di acqua e l’immissione di sostanze nocive per tenere in vita un impianto inadatto alla natura del luogo.
Nella contorta dizione del Disciplinare, si sottolinea l’intenzione di “fornire servizi di elevata qualità in un contesto esclusivo”. “Esclusivo” deriva da “escludere”. E in effetti, il Golf Club è sinonimo di esclusione: solo pochi eletti sono in grado di sborsare le somme ingenti richieste per iscriversi al Club e poter vagare nei 120 ettari della concessione. E anche l’Autodromo, che almeno risponde a una passione sportiva diffusa in tutto il mondo, è tuttavia “esclusivo” rispetto agli amanti del silenzio e della natura, ai quali è destinato un parco.
Ma nel Parco non ci sono solo le concessioni dell’Autodromo e del Golf: c’è anche quella dei Mulini S. Giorgio per un allevamento di bestiame, quella del Tennis Club, quella addirittura di una discoteca, il Barracuda (nome quasi allusivo)... Tutte stipulate allo stesso modo, cioè a danno del Parco (l’unica che potrebbe, a certe condizioni, essere coerente con la multifuzionalità del progetto originario del Parco è l’allevamento del bestiame. Ma in realtà è anche questa una concessione incondizionata e perpetua, una quasi proprietà gestita dal proprietario (pardon, concessionario) in maniera arrogante e devastante.
Viene da chiedersi: perché i proprietari originari (i Comuni di Milano e di Monza) hanno seguito per un secolo questa prassi nella gestione di un patrimonio architettonico e naturalistico di dimensione europea? E, secondo domanda, non ci sono alternative?
La risposta, ricorrente e disarmante, alla prima domanda, è che “non ci sono i soldi”. In realtà, a mio parere, la causa di tutto è la combinazione di diversi fattori: prima di tutto l’incultura, poi la subalternità dei monzesi rispetto ai milanesi, e il disinteresse (o l’interesse predatorio) di Milano per tutto ciò che non alberga all’ombra della Madonnina. Ma è soprattutto l’incultura, estetica, sociale ma anche economica: l’incapacità di capire che, anche nel caso in cui si abbia come obiettivo un risultato economico, questo può essere conseguito con maggiori e migliori risultati (senza cioè contentarsi di briciole, purché immediate) se posto al servizio di più alti valori civili.
Alla seconda domanda (l’alternativa) si era pensato dovesse rispondere la costituzione del Consorzio.
Questo avrebbe dovuto (dovrebbe) essere dotato della autonomia decisionale, della struttura gestionale strategica e delle risorse adeguate all’importanza del monumento (come avviene in tutti quelli ad esso comparabili).
Il Consorzio dovrebbe disporre delle competenze per proporre la strategia gestionale del bene, affidando poi eventualmente le mansioni esecutive ad imprese private, ma a tre condizioni: che queste mansioni siano attuative di programmi e progetti dettati dal Consorzio, che gl incarichi abbiano ambito e durata limitati, e che alla scadenza possano essere revocati a discrezione del Consorzio stesso.
Perché tutto questo sia possibile, l’esperienza insegna che l’equilibrio di bilancio di un bene culturale siffatto richiede un parziale sostegno finanziario di natura pubblica. Nel caso in esame, è facilmente dimostrabile che questi investimenti in cultura e natura inciderebbero in misura minima sui bilanci degli enti soci del Consorzio (oramai divenuti sei: Regione Lombardia, Comuni di Milano e di Monza, Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali, Provincia e Camera di Commercio di Monza e Brianza) ed avrebbero un alto moltiplicatore in termini di credito, di mecenatismo, di ricadute sull’economia del territorio.
Ebbene: il Consorzio è ormai costituito da due anni, ma è privo di autonomia, di struttura, di risorse. Non è ancora stato insediato un organo statutario come il Comitato Scientifico. Il Consorzio non ha neanche una sede, essendo ospitato dagli uffici dell’Amministrazione Parco del Comune di Monza, nella Cascina Fontana. E’ come se non ci fosse.
In compenso, qualcuno ha provveduto per suo conto (con tutte le regolari procedure predisposte dagli azzeccagarbugli di cui all’inizio) a proseguire nella politica dissennata che ha portato nel secolo scorso al degrado e alle “lobotomie” subite dal monumento, cioè a proseguire nella politica delle grandi concessioni di questo o quel pezzo del monumento, in cambio di piatti di lenticchie.
Lo si sta facendo per la parte centrale della Villa, è già in programma per tutto il Parco (che, pur tenendo conto dei vincoli paesaggistici, è una entità agroforestale di grande portata economica). Si conta sicuramente di farlo per ciò che rimane.
Autonomia decisionale, struttura strategica, risorse economiche. Negate al Consorzio, vengono elargite irresponsabilmente ai concessionari.
Un re Lear privato di qualsiasi potere, alla mercé di famelici baroni.