«Io credo che, al giorno d’oggi, costruire sulle poche aree libere da costruzioni dovrebbe essere vietato in assoluto»
Guardate queste due foto:
Si tratta dello stesso terreno: la prima foto mostra la realtà com’era fino a luglio 2016. La seconda come si presenta a settembre.
Mi chiedo: ma come è possibile che nel 2016, con l’eccesso ormai conclamato del consumo di risorse naturali rispetto alla capacità della terra di rigenerarle, in una città come Monza, da decenni ferma sui 120 mila abitanti, capoluogo di una provincia seconda solo a quella di Napoli quanto a impermeabilizzazione del suolo, sia ancora possibile una cosa simile?
Non sono un esperto di urbanistica, di cui mi occupo come semplice cittadino. Ho chiesto a chi ne sa più di me, e risulta che per quel terreno tutto è regolare: l’area è edificabile in quanto definita dal Piano di Governo del Territorio come “di completamento”. Ma questo è ancora più tragico! Come dire che se in un dato quartiere ci sono ancora pochi fazzoletti di aree libere, questi vanno eliminati per “completare” la cementificazione! Un bombardamento a tappeto al contrario, ma non meno distruttivo.
Io credo che, al giorno d’oggi, costruire sulle poche aree libere da costruzioni dovrebbe essere vietato in assoluto. Molti penseranno che una scelta così drastica sia utopistica, ideologica, irrazionale. Ma non fu tale oltre mezzo secolo fa la decisione, tradotta in leggi, di imporre a tutte le attività produttive, senza eccezioni, di integrare gli impianti industriali con depuratori e filtri, cessando di scaricare veleni nei terreni, nelle acque pubbliche e nell’aria.
Oggi occorre capire che lo stesso discorso vale per la distruzione di aree verdi, anche e soprattutto urbane e periurbane. Occorre abituarsi a pensare che l’eliminazione di un’area verde equivale all’inquinamento dell’ambiente, nel quadro generale delle strategie globali necessarie per la tutela dell’ambiente.
A suo tempo le imprese dovettero farsi una ragione dei costi non lievi dei depuratori (io lavoravo nel settore tessile, e vi assicuro che i costi per gli impianti di depurazione di tintorie e concerie cambiavano radicalmente il rapporto costi-ricavi di un'azienda). Allo stesso modo, oggi è necessario che i proprietari di terreni liberi si facciano una ragione del fatto che per loro i tempi della rendita edilizia sono finiti.
Finché il proprietario di un terreno può immaginare che in un futuro più o meno vicino o lontano, magari grazie alla vittoria elettorale di una forza politica più acquiescente (o corruttibile), il suo terreno potrà passare dal valore agricolo al valore edilizio, lascerà deliberatamente i terreni incolti, senza rispetto per il decoro urbano. Se invece saprà che questo futuro non sarà più possibile, si porrà il problema di come mettere il terreno a reddito in modo economicamente e ambientalmente accettabile per sé e per la collettività.
Quanto ai possessori di terreni su cui giacciono ruderi di costruzioni abbandonate (in particolare le aree dismesse da attività produttive abbandonate), essi potranno ancora trarre vantaggio dalla possibilità di costruire, ma solo dopo aver sostenuto i costi degli interventi necessari per demolire i fabbricati e risanare i terreni. Potranno prevedersi eccezioni solo per opere d’interesse pubblico, ma in mancanza di alternative e comunque con interventi compensativi almeno equivalenti di rinaturalizzazione.
Come è noto, il diritto di proprietà non implica un diritto di edificazione. La possibilità - e i relativi vantaggi economici - dei possessori di aree dismesse o comunque edificate di ricostruire, dipenderà dalla politica urbanistica. Per il proprietario sarà come una piccola o grande vincita alla lotteria. In alcuni PGT, anche a Monza, sono previste compensazioni o perequazioni a vantaggio dei possessori di terreni vincolati . Personalmente non ne vedo la ragione: nelle lotterie non è previsto nessun obolo per i possessori di biglietti perdenti!
Del resto, chi sono i proprietari dei terreni? Per lo più persone che hanno ereditato senza merito aree a suo tempo agricole, o grandi società immobiliari, che a loro volta hanno acquistato i terreni in un’ottica speculativa. Pertanto, una politica di divieto assoluto di costruire su terreni liberi avrebbe anche una valenza di equità e di correttezza economica.
C’è un argomento che viene avanzato contro il vincolo drastico all’edificazione su aree libere: i danni che ne deriverebbero al settore edilizio. Ma le prospettive di conversione del settore in termini di ristrutturazioni, risanamenti, nuovi edifici sarebbero rilevanti. Per non dire delle sempre più urgenti opere di prevenzione dei disastri ambientali, causati da frane, alluvioni e terremoti, che dovrebbero indurre gli stessi cittadini a investire i propri risparmi. E ancora, per non dire delle tante brutture edilizie che hanno deturpato i luoghi più belli del nostro Paese, e che potrebbero essere convertite con vantaggi paesaggistici, con importanti ricadute economiche.
Ho in mente un caso emblematico: la Villa Invernizzi nel centro di Milano, tra Corso Venezia e Via dei Cappuccini. Nel dopoguerra questa villa era abbandonata, e il suo parco era stato distrutto per costruirvi sopra un cubo anonimo di diversi piani per uffici. La famiglia Invernizzi acquistò la villa ed ebbe il coraggio (e la lungimiranza economica!) di radere al suolo il palazzo di uffici, rinunciando a cospicui redditi immediati, ricreando il parco, oggi un’isola di silenzio con un laghetto dove sostano fenicotteri ed altri animali, restaurando in tal modo un valore estetico a cui si accompagna un inestimabile valore economico.
Ma c’è un altro argomento, non apertamente dichiarato, che spiega la forza d’inerzia che induce le amministrazioni a concedere licenze edilizie: l’idea che in questo modo si possono cogliere tre piccioni con una fava: l’acquisizione di risorse economiche da parte dei comuni per rimpinguare i loro esausti bilanci, grazie agli oneri di urbanizzazione; la soddisfazione economica e il consenso dei proprietari dei terreni e dei costruttori; l’occupazione nel settore. Si può anche immaginare che le burocrazie comunali ritengano di fare bene operando in questo modo, all’insegna del “si è sempre fatto così”.
Ma una classe politica che assecondi questo modo di pensare è una classe politica miope, opportunista, incapace di imprimere alle cose un cambiamento lungimirante, all’insegna di alti valori culturali, ambientali e in prospettiva anche economici.
E viene da chiedersi: tutto il parlare che si fa al giorno d’oggi di agricoltura in città, di orti urbani, di boschi-giardini, di smart cities, alla fine di vivibilità dei luoghi dove sempre più si va concentrando l’umanità, è solo parlare?