Alberto Maria Giulini: Variazioni SU UN TEMA
A Villa Greppi di Monticello Brianza una mostra personale del pittore dal 19 novembre al 3 dicembre

Monticello Brianza (Lc) – Giovedì 19 novembre alle ore 18  presso la Sala Granaio di Villa Greppi vernissage della mostra personale Variazioni su un tema del pittore Alberto Maria Giulini.

“Per questa nuova mostra Alberto Maria Giulini ha deciso di operare sulle efferenze, assumendo come punto di partenza un proprio paesaggio eseguito ad olio su tela qualche anno fa (la nostra storia, in fondo, s’intreccia a tempi minimali): un’ampia veduta montana dove la luce gioca nel seno di una valle. È risalito quindi alle radici della sua pittura, se così si può dire, ma procedendo in senso opposto, dalla complessità e complicazione materica - per la via di una decostruzione formale - alla ricostituzione, per gesti essenziali corrispondenti a traiettori semplificati, di variazioni figurali sul tema. Esiti ottenuti non tanto attraverso l’abolizione della materia quanto attraverso una sua revisione critica, per quell’esigenza di riduzione che si connatura alle menti aperte.
È una composizione di Brahms che Giulini qui invoca come riferimento, e non senza fondamento. Si tratta
delle Variazioni su un tema di Haydn nella versione per orchestra (Opus 56 a, Vienna 1873) che troviamo
altresì ad accompagnare la sapiente trascrizione video realizzata dal pittore, come d’abitudine senza enfasi, a documentazione dei passaggi esecutivi dei propri aquerelli sulle carte.” (Alberto Crespi).

L’esposizione sarà aperta al pubblico dal lunedì al venerdì dalle ore 15 alle ore 18,30, sabato e domenica dalle ore 10,30 alle ore 12,30 e dalle ore 15 alle ore 18,30. Per prenotazioni visite fuori orario: albertomaria.giulini@alice.it oppure 347 2228699.
Nel corso dell’esposizione artistica, sempre presso il Granaio, venerdì 27 novembre alle ore 20,30 concerto vocale e strumentale con la partecipazione del M° Paolo Vaglieri. Con il patrocinio del Consorzio Brianteo Villa Greppi e del Comune di Monticello Brianza.
(Antonella De Chiara 340 8967170)

SCHEDA BIOGRAFICA
Alberto Maria Giulini, nato a Roma nel 1947, si trasferisce a Milano con la famiglia nel 1951. Dopo la
formazione classica a Roma consegue la laurea in Scienze Economiche all’Università Bocconi di Milano e nel ’79 il diploma all'Accademia di Brera ai corsi di scenografia di Varisco, avendo tra gli altri docenti
Guido Ballo. Esercita l'attività di pittore privilegiando il lavoro di ritrattista su commissione. Dal 1998 si prodiga nella cooperativa onlus Il Volo che opera per il recupero di ragazzi con disturbi di personalità nella sede di Villa Ratti a Monticello in Brianza. Vi avvia e dirige per due anni il laboratorio d'arte. Riprende quindi la propria attività artistica lasciando sempre maggior spazio ad una pittura di significativa libertà espressiva e felicità creativa che sfocia naturalmente in un rapporto lineare ed estremamente nitido con il colore in lavori su carta e su tela, sovente di grandi dimensioni, innervati da particolare sensibilità e da un immaginifico rapporto con la grande musica, di casa in famiglia. Supportano altresì la sua personalità d’artista un profondo convincimento della presenza del soprannaturale nella natura e nell’uomo e l’intima necessità della sintonia con la creazione. Senza misticismi né ritualità. Del 1972 la prima personale alla
galleria Cortina di Milano. Nuove personali dagli anni ’80: Studio di via Ciovasso, Milano 1981; Biblioteca civica, di Monticello Brianza 1987; Galleria Cortina, Milano 1989; Galleria Linea 70, Verona 1998; Galleria In Brera, Milano 1990 e 2001; Biblioteca Civica di Cernusco sul Naviglio 2000; Villa Camperio, Villasanta 2003. Nel 2005 realizza le scene per La Serva Padrona di G. B. Pergolesi al Teatro di Verdura di Milano. Nel 2008 personale a Villa Greppi di Monticello. Nel 2009 espone alla Galleria Civica d’Arte contemporanea di Lissone nel contesto della mostra Presenze del contemporaneo e allestisce una personale di aquerelli alla Saletta Reale della Stazione di Monza, su invito dell’Associazione Amici dei Musei per il ciclo espositivo Il colore trasparente (Giulini, Meyer, Dirnaichner) a cura di A. Crespi. Scritti e recensioni di R. Allegri, F. Arensi, M. Mojana, D. Montalto, C. Sala.

Alberto Maria Giulini. Variazioni su un’icona data
di Alberto Crespi
A volte, risalendo alle fonti di un’immagine per dirimere quanto di tradotto - nel senso di trasferito
visualmente, ma anche trasmesso da una tradizione (delle più diverse aree) - da quanto d’autografa
invenzione essa ci propone (il nome dell’Autore della pittura originale, seguìto dalla parola “invenit” era
giusto scritto al piede delle incisioni di riproduzione), ci si trova a ragionare sulle vie stesse della
trasmissione dei dati e sui percorsi della trasformazione dei dati stessi lungo le epoche e le stagioni. Ma
questo valga solo da premessa. Basti dire che ciò si può sostenere per la storia delle arti visive (molto più
ampia e articolata) ma anche per la storia della musica (in occidente, nella relativamente breve stagione dal classicismo al romanticismo).
Per questa nuova mostra Alberto Maria Giulini ha deciso di operare sulle efferenze, assumendo come punto di partenza un proprio paesaggio eseguito ad olio su tela qualche anno fa (la nostra storia, in fondo, s’intreccia a tempi minimali): un’ampia veduta montana dove la luce gioca nel seno di una valle. È risalito quindi alle radici della sua pittura, se così si può dire, ma procedendo in senso opposto, dalla complessità e complicazione materica - per la via di una decostruzione formale - alla ricostituzione, per gesti essenziali corrispondenti a traiettori semplificati, di variazioni figurali sul tema. Esiti ottenuti non tanto attraverso l’abolizione della materia quanto attraverso una sua revisione critica, per quell’esigenza di riduzione che si connatura alle menti aperte.
È una composizione di Brahms che Giulini qui invoca come riferimento, e non senza fondamento. Si tratta
delle Variazioni su un tema di Haydn nella versione per orchestra (Opus 56 a, Vienna 1873) che troviamo
altresì ad accompagnare la sapiente trascrizione video realizzata dal pittore, come d’abitudine senza enfasi, a documentazione dei passaggi esecutivi dei propri aquerelli sulle carte.
In un tornante particolare della sua vita, che si potrebbe definire un momento di impasse, tra fine settimo e
inizio ottavo decennio dell’Ottocento, Brahms si immerge in una composizione altrui (di Haydn o piuttosto
di Pleyel, allievo di questi dagli anni ’70 del Settecento a Eisenstadt nonché costruttore di pianoforti ed
editore a Parigi), estrapolandone un tema che giunge a suggestionarlo con la solidità strutturale propria del corale. Il primo passo è quello di copiarlo, conservandolo in un cassetto per qualche anno mentre la sua linea melodica lievita nella mente del musicista fino ad esigere d’occuparsene, ricostituendolo in una nuova composizione per due pianoforti (suonare in due è divertente perché fa del pianoforte un’orchestra intera, amplificando la tua azione: Brahms e Clara Wieck se ne intendevano).
Le Variazioni sono un genere che, almeno in epoca ottocentesca, prelude a prove di maggior consistenza.
Nella fattispecie per Brahms hanno sbloccato l’accesso alla sinfonia. Era la rarefazione, la linearità estrema dell’ultimo Beethoven l’ostacolo che il musicista di Amburgo non era ancor pronto ad affrontare e, d’altra parte, la difficile naturalissima semplicità dell’amico Schumann - troppo presto scomparso lasciandogli una complessa eredità emotiva - non gli apparteneva.
Nel quindicennio tra 1856 e 1870, Brahms lavora assiduamente inseguendo una propria concezione di
leggerezza, ampliando il proprio background in vista di un comporre di maggior respiro, raffinando la
propria conoscenza della scrittura per voce con la direzione di coro, essenziale alla maturazione
compositiva. La frequentazione assidua del Lied gli aveva aperto l’orizzonte, come a tutti i suoi colleghi
lungo il XIX secolo: basti citare le quindici Romanzen aus Ludwig Tieck Magelone, seducente prova
dell’espressione drammaturgica brahmsiana, che vede la luce tra 1861 e ’68. Tra gli stessi anni Sessanta e i Settanta, nell’abbozzo dell’opera Rinaldo (dal 1863), nel primo dei due canti per contralto, viola e
pianoforte (Opus 91, 1864) e nel Deutsches Requiem (1868), nella Rapsodia per contralto e nella prima
sezione dei Liebesliederwalzer (1869), fino al Schicksalslied (1871), accanto ai sestetti per archi, ai tre
quartetti e al quintetto con pianoforte, prosegue la configurazione di un’estetica brahmsiana imperniata su
un rigore classicista rimodulato da un profondo spirito romantico, innervata da perfetta conoscenza di
contrappunto e polifonia, sorretta da splendido colore e ricca di invenzioni melodiche e ritmiche.
Il tutto accanto ad un’attività concertistica continuativa fino agli anni ’70, profonda nella lettura dei testi e
di convincente valore interpretativo come riferisce la critica dell’epoca. E le Haydn Variationen, concepite
tra ’70 e ‘73, mostreranno nella loro versione orchestrale, seguìta a quella pianistica, quel controllo totale
della tecnica che consentirà a Brahms di procedere, nei decenni a seguire, all’elaborazione del tessuto
sinfonico. Possiamo considerarle dunque un vero punto di ripartenza.
Come è noto, il lavoro di Brahms di struttura su un corale seguito da otto variazioni e un finale, nel
succedersi di questi tempi: Andante (tema), Andante con moto, Con moto, Vivace, Andante, Poco presto,
Vivace, Grazioso, Poco presto e Andante finale. L’aura che ne proviene è di maestoso fluire d’armonie in
sonorità smaglianti, con un ventaglio espressivo amplissimo, dal severo quasi cupo al leggerissimo quasi
giocoso, inframmezzati da lanche di calma assoluta. Si percepisce l’enorme mole di lavoro svolto, ma
anche come su di essa possa innestarsi qualcosa di potente e di nuovo.
Alla base del lavoro sta sempre la capacità di sviluppare in fatti complessi elementi semplici ma
estremamente versatili. Appartiene all’intelligenza dell’arte e alla sapienza tecnica condurli ad esiti alti. È
proprio sulla versatilità degli elementi primari che si gioca il valore dell’assieme, nelle mani - diciamo per
abbreviare - più o meno esperte del compositore o dell’artefice, oltre che nelle capacità della sua mente di
conoscere, trasformare e far proprio il materiale sonoro così come la materia delle arti visive. La tecnica
della variazione sta alla base di ogni composizione. Brahms era accusato di giocare su cellule di quattro
suoni un’intera sinfonia: ciò significa invero possedere infinite capacità di approfondire i dati e di
trasformarli.
In fondo, il lavoro che Giulini compie attorno al vecchio dipinto di paesaggio è abbastanza simile:
all’analisi dei suoi componenti primari segue una rielaborazione dinamica che, attraverso la rinuncia della componente pesante (il legato materico dell’ultimo naturalismo), conduce ad illuminare nuove possibilità di lavoro su dati depurati da ogni scoria. Può dunque riprendere ad elaborare in modo complesso – tenendo sempre davanti a sé l’esigenza della trasparenza. Del resto, si avrà subito riscontro del livello di pulizia formale tenuto in ognuna delle variazioni; si vedrà subito quanto lavoro è stato realmente fatto e quanto rimane da fare, quanto è stato sottratto alla densità in favore della luce. Nei fatti, le sue Variazioni all’acquerello costituiscono una necessaria rilettura delle modalità di linguaggio, quasi passandole in rassegna, per adire nuova espressività. Occorre sottolineare che tale procedimento è messo in campo piuttosto raramente oggi, e soltanto da chi non teme di perder tempo con l’esercizio, sapendo che solo per quella via il tocco acquista sicurezza, la mano duttilità. Non si pone arte senza regole, senza paziente acquisizione di specifiche abilità, senza umile tributo ai maestri ma anche senza il coraggio di sperimentare per andare oltre, per superare anche i propri risultati, senza considerarli intoccabili, cosa “perniciosissima”si sarebbe detto qualche secolo fa - e la parola è tanto particolare ed evocativa di catastrofi che va benissimo anche oggi.
I fogli in mostra parlano dei giochi della luce in una valle montana, ricostituiscono per ampi gesti la
suggestione di volumi splendenti, proponendoli sotto diverse angolazioni (basta un passaggio di nubi che
monte e valle sembrano cambiar configurazione, ora e stagione), riferiscono di movimenti di cieli a corona delle cime, un tempo di lenta danza, individuano anfratti di rossi violetti (ho gia avuto modo di sottolineare la pulizia e la sontuosità del colore di Giulini), accompagnano con un pedale di fresche ombre chiarità di fraseggio, in una vera passeggiata nella natura che per Brahms ad Ischl era occasione propizia per continuare ad elaborare musica e per Giulini nelle valli dolomitiche meditare sulla pittura.
Vi si ritroveranno, prima suggerite all’interno dell’elaborato, infine limpidamente tese come un chant en
dehors, le linee della composizione di riferimento. Sta sempre alla maestria del compositore - come del
pittore - far sì che ogni configurazione e ogni gesto contribuiscano congruamente a render chiaro il
procedere piuttosto che oscuro, conservando quella purezza che attiene naturalmente al suono come al
colore, e intatta la scioltezza persuasiva della scrittura come del gesto. Appartiene alla suggestione del
comporre l’infinito intreccio di suoni e di gesti, chiamati ciascuno a portare il proprio specifico contributo,
che costituisce l’opera nel suo assieme.
Musica e pittura nascono - si sa - da una limitata serie di suoni e colori: se in musica, ordinati
dall’intelligenza, dalla sapienza tecnica e da una precisa impostazione estetica possono esser condotti ad
esiti complessi, a volte imperituri, in pittura, attraverso alchimie creative, trasmettono agli sguardi la
suggestione di immedesimarci nel sogno colorato dell’artista.
Se Giulini ha scelto una proprio quadro per lavorarci sopra (cosa che a tutta prima mi aveva lasciato
perplesso), è perché ritiene tout court che ci sia del lavoro da fare e non ha timore di metterlo e rimettersi in discussione.
Le sue carte dipinte si posson leggere come un libro, un approccio per fogli sciolti, ma chiaramente
consequenziali, ad una storia di maggiori proporzioni supportata nella sua mole da un parallelo
procedimento di rarefazione, quel difficile andar “contro” la materia, di cui s’è detto, per ritrovare le tracce primarie delle frequenze cromatiche.
Personalmente considero la serie di variazioni presentate nella mostra odierna come prodromi per una
partitura di più largo impegno che, se nelle forme della musica potrebbe definirsi come poema sinfonico, in quelle della pittura potrebbe ritrovare anche la figura nel contesto di un amplissimo leggerissimo
trasparente spazio narrativo.

Variazioni su un tema dei pani e dei pesci
Pensavo di scrivere un breve racconto sul ragazzo dei pani e dei pesci. E nella mia mente l’ho riscritto tante e tante volte, sempre più bello, sempre più significativo… almeno così mi pareva nelle nebbie della falsa veglia mattutina, quando tutti i frutti del pensiero paiono saporitissimi; ma scrittore non sono né la mattina né la sera…
Però mi è rimasta la voglia di buttar giù due riflessioni sicuramente non originali: conto sulla pazienza del
lettore. Il ragazzo dei pani quel giorno si è alzato più presto del solito per seguire la gente che si avviava ad incontrare il Maestro.
Aveva deciso di andare per cercare i suoi fratelli, andati via da casa abbandonando tutto, beni, parenti: il
padre che aveva bisogno di braccia forti e giovani, la madre, la sorellina più piccola che li adorava e lui che tutto aveva imparato da loro e che aveva bisogno di loro più che della luce del sole. Tanti erano quelli che se n’erano partiti così per seguire il Maestro: se li portava via. Così si era determinato ad andare anche lui, non per ascoltare il Maestro, ma per cercare i suoi fratelli.
Quella mattina insomma si avvia, con cinque focacce cotte al forno dalla madre (due per i figli più grandi,
una per il piccolo) e chiede allo zio pescatore due pesci belli grandi, per i suoi fratelli, a lui il pesce non riesce ad andar giù. Ci ha provato perché cerca in tutti i modi di far come loro, camminare, parlare, ridere, sbuffare; tutto gli riesce di far come loro, ma il pesce proprio ancora no, è una roba troppo da grandi.
Quindi va, cammina con gli altri, condivide il viaggio ma non l’intenzione. Quando arriva sul posto del
ritrovo lo si vede girare fra i gruppi in attesa, poi salire in cima alla collina ai piedi della quale la gente si
raduna in attesa del Maestro. Dall’alto spera di riconoscere le figure dei suoi.
E’ così intento che non si accorge che alle sue spalle arriva il gruppo del Maestro; li cerca correndo e
chiedendo notizie a lui, ai discepoli alle donne: niente.
Se non sono qui, dove sono? Prova una gran delusione, improvvisamente sente addosso tutta la stanchezza
del viaggio, tutto il peso della speranza delusa: si addormenta lì, in mezzo alla gente che segue il Maestro e
che lo ascolta. Dorme a lungo e profondamente tanto che chi lo scuote dura una gran fatica a svegliarlo ed altrettanta a farsi rispondere, vuol sapere cosa ha nella sporta. <<Cinque focacce e due pesci per i miei due fratelli. >>. Gli vien detto che lì di fratelli ce ne son cinquemila che hanno fame e gli portano via il fagotto senza tanti complimenti.
Per il nostro piccolo protagonista è troppo, veramente troppo. Gli portano via il cibo suo e dei suoi fratelli,
per dividerlo tra i tantissimi, affamatissimi convenuti. Li descrivevano come tipi un po’ esaltati; altro che
esaltati, questi son fusi ed anche un poco stronzi. Si sente disilluso, umiliato ed impotente, si fa largo tra la
folla che si accalca, urla di farlo passare e quando finalmente esce da quella mischia, si volge un attimo per vedere qualcosa che gli ricorda un formicaio brulicante. Si conferma del fatto che questi son tutti matti.
Decide di prendere la via del ritorno verso casa. Un uomo lo rincorre, lo chiama e gli chiede se non ha
fame. Certo che ha fame: è arrabbiatissimo ed ha una fame blu.
Nella cesta che gli vien porta sono rimasti cinque pani e due pesci. Il ragazzo guarda l’uomo, ringrazia per
i cinque pani ma i due pesci li lascia nella cesta, si prenderà anche le focacce destinate ad i fratelli, i pesci li lascia a chi li riesce a mangiare.
Alla fine più che delle riflessioni ho buttato giù il mio racconto. Le riflessioni le lascio a voi.