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“Diventerò un sasso senza lacrime.” pensò. Si scosse quando il doganiere gli batté una mano sulla spalla. “Si chiude.” disse. Lui, con rassegnazione, si avviò alla fermata del tram.

Giunti alla dogana l’uomo e la donna si fermarono e lei posò la mano sul petto di lui: “Insieme non possiamo andare oltre.” disse. Lui assentì intanto che girava tra le dita il bottone della giacca come se volesse strapparlo. Lui scriveva poesie che raramente venivano pubblicate sulle riviste di letteratura. Ciò avveniva dopo molte sue sollecitazioni. Le redazioni delle riviste si giustificavano rispondendo che i suoi componimenti non erano attuali, erano come la luce giunta da stelle spente da tempi immemorabili. Scriveva a matita su un piccolo taccuino e lei ricopiava a macchina. Lei era il soggetto delle poesie: i suoi passi, i suoi abiti, quando si pettinava davanti allo specchio, quando dava l’acqua ai fiori sul davanzale della finestra, quando mondava il riso e soffiava la pula. Di notte restavano a lungo insonni. Parlavano della loro giovinezza. Lui andava per i campi con l’Iliade sotto braccio. Lei correva in bicicletta lungo le rive del fiume scampanellando ai conigli selvatici. Lei presto aveva perso il padre. Raccontava quell’evento doloroso con il pigolio di un canarino caduto dal suo trespolo. Quando spegnevano la luce piombavano nel regno delle tenebre. La stanza scricchiolava come se vi si fosse introdotto un gigante. Una volta lei si era tappata le orecchie con le mani, come se temesse di udire un grido. Lui l’aveva stretta tra le braccia in tempo

per sentirla bisbigliare: “Papà, come Ettore figlio di Priamo ed Ecuba.” Nel buio si tenevano per mano finché il gigante si dileguava. Quando lei era sola in casa leggeva le poesie rivolgendosi ai muri dove le screpolature le parevano accessi all’aldilà. Leggeva finché i suoi occhi si inondavano di lacrime. Al colmo della pena usciva di casa. Andava con passo affannato, si accostava agli uomini, li guardava impavida come se dovesse riconoscere qualcuno. I suoi occhi davano fiamme e i volti degli uomini incenerivano. Ma nessuno assomigliava a suo padre. D’un tratto il bottone della giacca di lui rotolò a terra. Lei disse: “Abbracciamoci per l’ultima volta.” Si abbracciarono mentre nei loro occhi scorreva la loro vita. Quando avevano abitato ai margini del bosco e avevano insegnato alle volpi a contare. Quando avevano fatto un viaggio per mare e la nave era stata seguita dalle balene. Quando, un inverno, era nevicato tanto a lungo che avevano dovuto trasportare la stufa dalla cucina alla camera da letto e la stufa si era trovata così a suo agio che non aveva più voluto tornare tra le pentole. Poi lei si distaccò e restarono in silenzio, l’uno di fronte all’altra. Il doganiere disse: “Che aspettate, la fine del mondo?” Loro non risposero, restarono così finché si accese il semaforo verde e si sollevò la sbarra confinaria. Lei volse le spalle e s’incamminò. Lui chiuse gli occhi per non vedere. Lei si inoltrò nel deserto finché vide venirle incontro suo padre. Il deserto corrugò la fronte: raramente capitavano simili incontri. Lui riaprì gli occhi e sollevò la mano per salutare. Sperava che lei si voltasse per rispondere al suo saluto. Ma lei era ormai troppo lontana. Padre e figlia procedevano adagio ma risoluti, apparivano e sparivano al di là delle dune finché la luce del sole li folgorò in un bagliore come di finestra improvvisamente aperta sull’estate. Lui ricacciò il pianto in gola e guardò in terra con gli occhi che erano diventati vetro smerigliato. Quando rialzò lo sguardo vide il deserto vuoto. “Diventerò un sasso senza lacrime.” pensò. Si scosse quando il doganiere gli batté una mano sulla spalla. “Si chiude.” disse. Lui, con rassegnazione, si avviò alla fermata del tram.

Arrivò il tram, salì sull’ultima carrozza e si accomodò accanto al finestrino. Per un poco riuscì ancora a vedere la dogana e il deserto che cominciava là. Poi niente altro. Il tram procedeva con frastuono di ferraglie, come se volesse avvisare del suo arrivo, ma la città era deserta. Lui scuoteva il capo: “Non c’è nessuno. E’ domenica pomeriggio. Sono tutti al cinema.” Detestava le domeniche, la città sembrava un orologio fermo da secoli. Scese davanti al tribunale dove era il suo ufficio. Si accostò alla bancarella dei fiori per prendere qualcosa. Scelse un piccolo cactus con le spine. Il fioraio non volle essere pagato, disse: “Omaggio.” Lui ringraziò. Il suo ufficio era all’ultimo piano in fondo al corridoio con scaffali fino al soffitto colmi di incartamenti. Il suo lavoro era la redazione delle schede di identità dei cittadini defunti. Una montagna di carte dove erano iscritti coloro che avevano lasciato una traccia di sé, nel bene e nel male. Erano atti di nascita e di morte, attestati di matrimonio, diplomi, lauree, brevetti, pubblicazioni, ingiunzioni di pagamento, sfratti, condanne all’esilio. Si accomodò alla scrivania, dispose il cactus accanto a sé, indossò le mezze maniche di tela nera. Agganciò al tampone un nuovo foglio di carta assorbente e osservò sul vecchio foglio le tracce sovrapposte e confuse che avevano lasciato gli inchiostri asciugati. Qualcuno aveva scritto, qualcun altro aveva risposto. Trasse una carta dallo scatolone strapieno di documenti. Il foglio riguardava il curriculum di un cittadino morto giovanissimo. Poiché la scrittura era troppo minuta si chinò sul foglio. Lesse finché il suo cuore fu per arrestarsi. Il suo sguardo si era imbattuto in una poesia. Una poesia scritta da un ragazzo poco prima della sua morte. Lesse e rilesse a voce alta e leggendo balbettava. Per quanto tempo continuò a leggere? Passarono giorni e giorni. Il piccolo cactus rinsecchì. Passarono mesi e mesi. L’ufficio anagrafe fu spostato nel seminterrato. Passarono anni e anni. L’intero tribunale fu traslocato nei pressi della dogana. Quando lasciò l’incarico per raggiunti limiti di età fu sostituito da un ufficiale dell’esercito che aveva vinto il concorso per quel posto. Ma l’ufficiale durò poco in quel lavoro. Presto fu licenziato perché ripetutamente trovato ubriaco, ripiegato sulle carte dei defunti.

 

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Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

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