Non mi ci raccapezzo più. Cerco la sinistra ma non la trovo. Né quella di un tempo né quella nuova.
“A cosa stai pensando ? ”. La domanda, piuttosto impertinente, apre la pagina Facebook. Te la sbatte davanti agli occhi, senza tanti fronzoli. In maniera secca. Io l’ho sempre snobbata. Questa volta no. Decido di rispondere, di liberarmi di un pensiero che da tempo mi assilla. Riguarda la situazione politica del momento. Per me , vecchio militante del vecchio Pci, è motivo di angoscia. Non mi ci raccapezzo più. Cerco la sinistra ma non la trovo. Né quella di un tempo né quella nuova.
Nostalgico? Certamente, ma non un beota.
Nostalgico? Certamente, ma non un beota. Nel Pci - quello di Togliatti, Longo e Berlinguer – ho sempre militato in maniera attiva, mai ho portato il cervello all’ammasso, ho sempre ragionato, discusso, scritto, protestato. Non è stata una passeggiata, alti e bassi continui, ma nel complesso una avventura esaltante. Sempre all’opposizione, mai al governo, molta stima ma niente potere, se non nelle grandi città. E tanta discriminazione.
I termini rinnovamento e svolta non mi erano sconosciuti, l’ho sempre saputo che il vecchio va rinfrescato di continuo. E che in genere le novità causano macerie o rottamazioni, come si usa dire oggi. Anche dolorose. Potrei farne un elenco. In una parola non mi sono mai sentito un conservatore né nel Partito né nella società. So che il mondo cambia e i cambiamenti vanno accettati, ma anche guidati. Con pazienza. Guai a buttare via l’acqua sporca con il bambino. Il bambino va salvato, irrobustito, cresciuto, in altra maniera semmai, rinnovando regole e criteri, ma non va soppresso come si è fatto invece con il Pci ottenendo in cambio… niente. Berlusconi, sulla crisi del Pci ha costruito parte delle sue fortune politiche. Lui ha continuato a “insultarli”, a dar loro dei comunisti anche quando non lo erano più. La nuova “ditta” aveva preso altri nomi : Pds, Ds, Ulivo e Pd. Per lui non fa alcuna differenza. Quelli erano comunisti e come tali vanno combattuti.
Ma dov’è oggi la sinistra? Non chiedetelo a Matteo Renzi che pretenderebbe di rappresentarla ma lui in realtà pensa ad altro.
Ma dov’è oggi la sinistra? Non chiedetelo a Matteo Renzi che pretenderebbe di rappresentarla ma lui in realtà pensa ad altro. Chiedetelo invece a chi nel vecchio Pci c’era, chiedetelo ad Achille Occhetto ma anche a Giorgio Napolitano, a Massimo D’Alema, a Valter Veltroni, a Piero Fassino. Se la Bolognina è di Occhetto, il suo avvallo è dell’intero gruppo dirigente dell’epoca del quale questi compagni erano autorevoli membri, anche se alcuni si affrettarono in seguito a precisare quanto fosse basso il loro tasso comunista.
Non c’è dubbio: la colpa del mio disagio, lo portano per intero gli ultimi dirigenti di quel Partito che non c’è più e del quale sono stato un iscritto per oltre 25 anni, dal settembre 1955 al 3/2/1991, fino alla Bolognina. E’ da allora che sono un cane sciolto alla ricerca di una politica di sinistra che via via si è affievolita al punto di non essere più rintracciabile.
Prima considerazione: Matteo Renzi, del quale peraltro porto scarsissima stima umana e politica, lo considero l’esito, tutt’altro che compiuto, di un processo tormentato e non esaltante. Comunque non la causa.
Attenzione: il Pci non era il paradiso, non è mai stato sinonimo di perfezione, ci sono stati aspri dibattiti, confronti duri, sono state consumate anche delle ingiustizie, ma l’impianto di quello che Pierluigi Bersani chiama impropriamente, e un poco scioccamente, la ditta, disponeva di un magazzino di valori e di una forza organizzata, che tutti ci invidiavano. Ci tenevano lontano dal potere ma ci stimavano. Eravamo un grande patrimonio, probabilmente il più grande, della sinistra italiana. Avevamo un gruppo dirigente di prim’ordine con una grande capacità di elaborazione. L’organizzazione era il nostro forte e forte era l’esempio di passione politica, di onestà, di spirito di sacrificio e di correttezza amministrativa del bene pubblico.
Volevamo soprattutto realizzare quanto era stato scritto in quella Carta costituzionale che rappresenta il capolavoro dell’Italia uscita dalla Resistenza.
Le Leopolde allora non c’erano ma il dibattito non mancava. E si parlava di riforme. Del lavoro, dell’assetto regionale, dell’Europa, delle donne, dell’ambiente, dei diritti civili, delle diseguaglianze. Volevamo soprattutto realizzare quanto era stato scritto in quella Carta costituzionale che rappresenta il capolavoro dell’Italia uscita dalla Resistenza. Ma gli ostacoli erano tanti, di fronte avevamo una Dc che non era certo una organizzazione scoutistica del volontariato cattolico. E c’erano i suoi amici, che erano tanti. In Italia e all’estero.
Enrico Berlinguer con la proposta del compromesso storico tentò di rompere l’isolamento. E la Dc con Aldo Moro sembrò prenderlo sul serio. Ma fece la fine tragica che tutti sappiamo. Nel giugno del 1984 se ne andò anche Enrico. Troppo presto. Aveva soli 62 anni e con lui finì il Pci, quello che avevo amato e scoperto nel 1954 leggendo il discorso di Togliatti alla conferenza nazionale di organizzazione che si stava svolgendo a Napoli. Più che una relazione quella togliattiana è stata per me una vera e propria lezione. Altro che Leopolde.
Dopo Berlinguer il Partito venne consegnato ad Alessandro Natta che aveva già annunciato di ritirarsi dalla vita pubblica e di Partito, per ragioni di età e di salute. Voleva tornare a studiare i classici latini. Trovare un accordo in quel gruppo dirigente non fu facile. Si preferì convincere Natta a rinunciare al ritiro. La sua rappresentava una soluzione chiaramente provvisoria, un tentativo di sedare i contrasti interni tra chi voleva mettere assieme tutta la sinistra (vera e propria utopia anche allora) e chi invece preferiva la linea riformista del Psi. I funerali di Enrico e la grandiosa manifestazione di sincero dolore per la sua improvvisa scomparsa furono ben presto dimenticati. Anzi si cominciò sotto sotto una operazione di ridimensionamento della linea berlingueriana, si mise in discussione il concetto di diversità, di austerità, e si cominciò a guardare con interesse alla politica di Bettino Craxi e al suo riformismo fatto di tanta spregiudicatezza più che di innovazione.
“Dobbiamo cominciare a sporcarci le mani, basta con la purezza. E sotto con le riforme, costi quel che costi”. Naturalmente il tutto condito con una proposta di rinnovamento, giusta in linea di principio, ma suicida in pratica. Il riformismo purtroppo era inteso in questo modo da più d’uno. Guardare a Craxi soprattutto, cambiare nome al Partito togliendo la parolina comunista, inneggiare ad una sinistra esistente solo sulla carta ma difficilissimo da ricomporre, prendere atto della inesistenza politica ed ideologica dell’Europa dell’Est alla luce del crollo dl Muro di Berlino e dei fatti di piazza Tienanmen a Pechino.
La mia è una descrizione molto schematica, ne sono cosciente. Tuttavia è in questo quadro che entra in scena Achille Occhetto, 54 anni, una sorta di Renzi ante litteram. E quando Alessandro Natta viene colpito da un grave infarto con molta disinvoltura, e con l’appoggio del gruppo dirigente che non era un insieme di mammolette, ne prende il posto. La vicenda richiama alla mente un'altra, quella di Matteo Renzi ed Enrico Letta protagonisti. Stessa spregiudicatezza e disinvoltura, politica ed umana.
Nel marzo del 1989 Occhetto viene riconfermato nella carica dal congresso, il XVIII. Praticamente all’unanimità. Solo due i voti contrari. Quindi arriva la Bolognina che segna la fine del Pci, la parolina viene cancellata, nasce il Pds. Si tratta di una inutile concessione che oltretutto darà un colpo mortale al vecchio Partito e al suo magazzino di ideali, valori, dedizione e onestà. Eppure la sinistra avrebbe avuto bisogno di quella forza che lo stesso Occhetto aveva, in un momento di esagerata euforia, addirittura definito una gioiosa macchina da guerra.
I riformisti del Pds non ebbero tanto tempo di gioire, nel ‘92 arrivò Tangentopoli
I riformisti del Pds non ebbero tanto tempo di gioire, nel ‘92 arrivò Tangentopoli che decretò la fine sia della Dc che del Psi, del Pri, del Pli. Si diede subito la colpa alla magistratura invece di chiedersi come mai era stato possibile che degli ex comunisti fossero scesi a certi compromessi. Ma la gestione Occhetto e della Direzione dell’epoca porta la responsabilità, questa sì tutta politica, di non avere previsto il cataclisma, di avere ampiamente sottovalutato la nascita della Lega Nord e di avere preso letteralmente sottogamba la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Schizzi di fango si abbatterono anche sul Pds così come si stanno abbattendo sul Pd. E non è un bel vedere. Qualcuno oggi recrimina sul matrimonio tra Ds e Margherita che ha consentito la nascita del Pd. E dice: il Pd è senza un’anima. E’ vero, sarebbe servita quella del vecchio Pci, ma quella è evaporata, non esiste più. Purtroppo il vecchio Pci è stato smontato e molti dei suoi valori sono andati dispersi oppure annacquati all’insegna del motto che la diversità berlingueriana era una utopia. Per i militanti è stato un colpo mortale.
Sulla caduta di moralità a sinistra non si è mai fatta una vera e propria discussione, si è andati avanti peggiorando sempre di più, cambiando il nome ancora al Partito da Pds in Ds e infine entrando nell’attuale Pd al massimo con dei ricordi ma con un allentamento degli usi e costumi veramente deprimente. E “il sono tutti uguali” è diventato un leitmotiv popolare.
Il vecchio giornalista comunista che scrive è sconfortato, probabilmente sarà criticato, lo si accuserà di aver sottovalutato molti aspetti ma alla sua tesi di fondo non rinuncia. Il Pci è morto con Berlinguer ma l’idea che con lui vivo (e con lui la sua politica, quella dei valori) avrebbe potuto impedire il declino di una sinistra che oggi non è assolutamente all’altezza della situazione, è sempre più forte. Caro Matteo Renzi, puoi stare veramente sereno.