Nell'intervista all'antropologa Marta Villa, un'analisi dei comportamenti collettivi dettati da bisogni e reazioni ancestrali che si ripropongono nonostante il progresso scientifico e tecnologico.
Quando, nel corso della seconda guerra mondiale, Salvatore Quasimodo scriveva “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo” pensava alla nostra primitiva natura bellicosa e feroce che ricompariva esaltata dalle conquiste del progresso, ma il pensiero si può estendere ad ogni manifestazione di quella natura umana che, nel bene e nel male, sembra per certi versi rimanere immutata e che in alcune situazioni riemerge ancora uguale a se stessa al di là delle differenze culturali e delle distanze geografiche e cronologiche.
Ho ripensato a quei versi di in questi giorni in cui ci sentiamo, nonostante il progresso di cui andiamo così orgogliosi, ridotti alla nostra nuda umanità dal dilagare di un’epidemia nuova e quasi sconosciuta, ritorno prepotente di un fenomeno che pensavamo ormai relegato in un altrove del tempo o della geografia. E’ per questo che mi è sembrato interessante sollecitare alcune riflessioni da una persona che pratica e insegna, presso l'Università di Trento e quella della Svizzera italiana, la ricerca antropologica: Marta Villa, che ho intervistato in occasione della presentazione del suo libro “Le radici antisemite dell’Occidente”, da esperta antropologa studia appunto queste costanti nei comportamenti umani attraverso i secoli e le culture, e perciò ho voluto ripensare con lei alle nostre reazioni di fronte alla pandemia che oggi fa a pezzi le nostre illusioni di potenza. Riporto qui le sue considerazioni in risposta alle mie domande: l'intervista si è svolta come scambio epistolare, il che ha forse comportato dei limiti nei possibili approfondimenti; Marta Villa è però disponibile a rispondere ai lettori che volessero chiarimenti uteriori al suo indirizzo marta.villa@unitn.it
Nella rappresentazione dei comportamenti umani di fronte alle grandi epidemie si è sempre cimentata la grande letteratura, da Tucidide a Lucrezio, da Boccaccio a De Foe, da Manzoni a Camus: in essa, pur attraverso il riferimento a situazioni storiche, emergono già alcune costanti, a partire dalla iniziale sottovalutazione, quando non dalla vera e propria negazione, del pericolo. Cosa ha da dire in merito l’antropologia?
L’antropologia trattando ovviamente dell’umanità e dei vari aspetti culturali ad essa connessi non ha potuto esimersi dal raccogliere testimonianze anche in momenti di crisi quali possono essere le situazioni epidemiche, dove risalta maggiormente rispetto ad altri aspetti il nostro essere fatti di un corpo fisico vulnerabile, che velocemente può ammalarsi e soccombere. L’epidemia allora mostra il suo lato più terribile proprio mettendo a nudo quello che da millenni tentiamo di negare, ossia che siamo degli esseri mortali. Proprio le problematiche che vanno a toccare la nostra salute fisica in modo repentino mettono in evidenza la nostra impossibilità all’immortalità, elemento attorno al quale ci siamo interrogati fin dai tempi più antichi. Ogni cultura infatti ha una modalità propria di parlare di questo problema, l’aspirazione a durare in eterno e la finitezza dell’essere corporale. Probabilmente l’uomo ha cercato di negare attraverso l’aspirazione ad essere immortale il suo essere simile agli altri esseri viventi che seguono un ciclo, dalla nascita alla morte. L’epidemia quindi viene quasi sempre sottovalutata, viene quasi nascosta dalla mente, non è buona da pensare e pertanto viene relegata ai margini fino a quando non se ne può più fare a meno, ossia fino a quando esplode con tutta la sua virulenza e quindi semina il terrore.
L’epidemia viene quasi sempre sottovalutata, viene quasi nascosta dalla mente e relegata ai margini fino a quando esplode con tutta la sua virulenza e quindi semina il terrore.
Nei secoli, come ben citavi, si sono infatti succedute epidemie descritte dalla letteratura con i toni più crudi, alle volte, e in ogni occasione si è notato che la sottovalutazione è stata determinata anche da un pensiero quasi scaramantico: se non la vedo, se non ne parlo, se si nota poco, forse scompare. L’epidemia è anche tuttavia un elemento della vita del pianeta che riporta l’essere umano di fronte alla sua appartenenza prima, ossia di essere vivente compartecipe dell’ecosistema: esiste il virus, l’agente patogeno, ed esiste l’uomo, siamo parte di un unico universo terrestre, di un unico meccanismo. La cultura cerca di spiegare ciò che appare inspiegabile: si attuano così dei processi mentali volti a trovare una risposta. Girard scriveva che quando si utilizza un fenomeno per spiegarne altri ci si sente dispensati immediatamente dal fornire ulteriori spiegazioni dello stesso. Il pericolo viene quindi spiegato in modo non corretto, si creano altri tipi di cause quando non accadde il vero e proprio negazionismo, quando si negano anche le evidenze più lampanti. Se a negarlo è l’individuo allora si può parlare di meccanismo psicologico, ma quando la negazione avviene da parte della collettività si tratta di un fenomeno più ampio le cui cause e conseguenze possono essere studiate dall’antropologia.
Ci sono in effetti nella condizione di diffusione di un’epidemia dei risvolti che ci mettono in conflitto con alcuni nostri bisogni altrettanto potenti dell’istinto di sopravvivenza: in primo luogo quello del contatto fisico coi propri simili. Il contagio ci impone quasi di vedere nell’altro un pericolo. E’ così?
La questione del pericolo causato dal contatto fisico è molto importante. La percezione del pericolo è certamente un meccanismo di difesa rivolto alla conservazione della specie, tutti gli esseri viventi quando percepiscono un pericolo mettono in atto delle strategie di difesa (come la fuga ad esempio) che hanno basi istintive, sono dentro di noi in quanto specie. Tuttavia l’essere umano agisce anche attraverso delle scelte culturali e molte delle percezioni di pericolo sono mediate dalla cultura di appartenenza: le società possono anche inventarsi dei pericoli, il potere stesso per mantenersi tale genera o costruisce ad hoc delle sensazioni di pericolo che generano la paura e quindi la richiesta di protezione. Se possiamo riferirci ad un esponente significativo del pensiero antropologico negativo allora possiamo ricordare il ragionamento filosofico di Thomas Hobbes. Noto a tutti per la riduzione della sua problematizzazione all’homo homini lupus, il pensatore invece presenta il problema dell’origine della violenza in modo molto più profondo. L’uomo ha paura di morire, anche per mano di un suo simile, questa paura secondo Hobbes aveva caratterizzato i primi stadi della collettività umana, quello che lui chiama stato di natura. In tale momento l’uomo era libero e poteva agire di conseguenza, ma la sua vita era costantemente minata dalla paura della morte. Per superare questa criticità decise di sacrificare una parte della sua libertà personale a favore della protezione assicurata dal sovrano il quale era colui che liberava l’uomo dalla paura della morte (della violenza e della vendetta) e attraverso l’emanazione delle leggi prometteva e garantiva la sopravvivenza. L’uomo quindi può in ogni momento ritornare nello stato di natura ed essere sia attanagliato dalla paura di morire sia attorniato dalla violenza. Hobbes su questo aspetto ci mette in guardia: non è una fase passata dell’umanità, ma è una possibilità che può avvenire in qualsiasi momento. Ancora una volta c’è un controllo culturale di questa paura, di questo pericolo.
E l’antropologia a questo proposito cosa dice?
L’antropologa Mary Douglas nel suo saggio Purezza e pericolo dal suo punto di vista scientifico ha ricostruito il significato che le culture danno a ciò che è puro e a ciò che è pericoloso e ha descritto, interessante ad esempio la parte relativa alle prescrizioni alimentari, cosa per le diverse culture si possa/debba toccare, mangiare, maneggiare e cosa no. Ancora una volta possiamo ribadire che è la cultura che decide cosa sia puro e cosa no, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato e come liberarsi dalle eventuali contaminazioni. Voglio dire con questo che ogni cultura fin dai tempi più antichi ha sentito la necessità di categorizzare gli elementi del mondo esterno e di dividerli assegnando ad alcuni di essi un valore collettivo positivo e ad altri un valore negativo. Lo stesso poi è stato fatto anche con i comportamenti e le azioni umane. Un elemento ambivalente molto spesso visto come negativo ed impuro, ma in alcuni casi con accezioni positive, è stato il sangue: attorno ad esso sono stati costruiti rituali che hanno coinvolto l’uomo e la donna nelle differenti tappe della loro vita. Le malattie allo stesso modo sono state pensate ed interpretate con valori differenti: vi sono malattie utili e invece altre dannose, vi sono malattie che affliggono il corpo ed altre la mente, vi sono morbi che arrivano dagli spiriti negativi ed altre che servono per mettere alla prova… Le nuove epidemie sono state spesso percepite come un pericolo, inviato dai nemici (fisici o spirituali) o ancora più interessante come riportato nel pensiero degli indiani Yanomami come una punizione: non sono gli spiriti ad essere cattivi, ma è stato l’uomo ad avere mancato in qualche cosa. Si racconta che il rumore, il fumo e le strane macchine erano sembrate davvero la fine del mondo a questi popoli indigeni, ma la sola spiegazione razionale per le malattie che cominciavano ad affliggerli proveniva dal mondo degli spiriti. Gli Yanomami infatti credono che gli spiriti dimorino nell’ambente naturale che li circonda. Quando la foresta viene attaccata, vengo attaccati gli spiriti e questi esigono vendetta. L’epidemia colpisce il corpo, ma non solo, entra nell’immaginario come qualcosa di terrificante, vincola le nostre azioni soprattutto quelle di scambio sociale: qualsiasi malattia contagiosa (come le pestilenze del passato) interrompe una quotidianità fisica che ogni essere vivente mantiene con la propria specie. Questo fattore è un ulteriore elemento destabilizzante che rende a sua volta questa malattia qualcosa di unico.
L’epidemia colpisce il corpo, ma non solo, entra nell’immaginario come qualcosa di terrificante, vincola le nostre azioni, soprattutto quelle di scambio sociale
In questo modo può scattare la ricerca dei colpevoli, la caccia all'untore? E quali sono allora le caratteristiche ricorrenti di questi presunti colpevoli?
Certamente può scattare il meccanismo della ricerca di un colpevole. L’uomo non sempre ha avuto le conoscenze microbiologiche tali per poter comprendere come si determinasse una malattia mortale, tuttavia ha sentito il bisogno di darsi una spiegazione. Ecco allora l’utilizzo di una modalità di pensiero che ci caratterizza da secoli: non si ricercano delle cause ma dei colpevoli. La ricerca di un fattore sul quale far ricadere la colpa infatti è da sempre determinata dalla volontà di fare giustizia, di vendicare il torto subito.
Anche nel nostro caso attuale possiamo notare che nonostante la nostra scienza sia progredita e possa dare delle risposte, ancora una volta si è scatenato un processo di pensiero antico, la ricerca non delle cause ma di un qualche colpevole… Ne abbiamo sentite infatti diverse di spiegazioni secondo questa linea di pensiero: gli americani che hanno dato la colpa ai cinesi e viceversa, complotti vari… A proposito delle caratteristiche similari di questi presunti colpevoli, beh è facile elencarle: sostanzialmente sono individui o gruppi di individui che se interni alla società sono però percepiti come diversi od ostili o tacciati di volere impadronirsi del potere e di rendere quindi schiave le maggioranze, se esterni invece sono i diversi per eccellenza o i nemici… Questa volta ci troviamo di fronte a un fattore invisibile ad occhio umano, il virus, ma come abbiamo visto è già diventato oggetto di un interessante processo di ridefinizione: è stato ingrandito, continuamente presentato nella sua forma stilizzata, addirittura siamo arrivati a farlo diventare protagonista di fiabe per bambini (le ho sentite anche io personalmente e personalmente le ho trovate aberranti)… Questo aspetto mi infastidisce molto: è il solito leitmotiv che riemerge, i bambini sono esseri incapaci di comprendere qualsiasi fenomeno nuovo e siamo obbligati a spiegarlo loro attraverso la costruzione di una fiaba, di un racconto inventato dove ci sono buoni e cattivi, dove c’è un lieto fine, dove ci sono eroi e antieroi.
Il Covid19 ha assunto connotazioni morali, di cattivo, di essere pauroso, personificato, “nemico”, che popola i nostri incubi
Lo stesso pensiero che noi bravi occidentali abbiamo sempre tenuto nei confronti dei popoli indigeni o dei nostri antenati preistorici: culture infantili che non hanno il nostro grado di progresso e di intelligenza, questo è un pensiero fondamentalmente razzista. Quindi anche il nostro Covid19 ha assunto in alcuni casi connotazioni morali, di cattivo, di essere pauroso, personificato, popola i nostri incubi, si sono creati diversi discorsi metaforici attorno ad esso, si parla ad esempio di guerra con tutte le sfaccettature del linguaggio bellicistico (questo è così evidente e sotto gli occhi di ciascuno di noi che non mi dilungo con gli esempi).
Tra gli aspetti più drammatici di un’epidemia c’è l’impossibilità di accompagnare la morte con quei rituali che permettono di accettare il distacco, e c’è qualcosa di forse ancora peggiore, ovvero la spersonalizzazione della morte stessa. Non per nulla le immagini più terribili di questa odierna pandemia sono quelle dei camion che trasportano salme sconosciute in cimiteri lontani o quelle, tremende, della catasta di urne funerarie, tutte uguali, quasi come comuni scatole, accumulate a Wuhan, in attesa di essere consegnate alle famiglie. Diviene difficile “smaltire” il numero spropositato di cadaveri, ma ancor di più smaltire l’angoscia che provoca questa morte nell'isolamento e questa riduzione delle persone a numeri senza nome. Cosa ci dice in proposito l’antropologia?
Come ogni epidemia che tocca come abbiamo detto anche primariamente la dimensione fisica della nostra esistenza, il nostro corpo, anche questa del Covid19 ha messo in evidenza alcune criticità molto importanti relative alla elaborazione del lutto per la scomparsa di chi ci è caro. La impossibilità di dare degna sepoltura ai nostri defunti, di accompagnare alla sepoltura e anche di consentire la sola vicinanza nel momento del trapasso stanno facendo emergere angosce intense in ciascuno di noi. La morte, essa stessa, relegata ai margini, divenuta quasi un tabù di difficile gestione psicologica e collettiva è entrata in modo dirompente nella nostra vita quotidiana ovviamente spaventandoci.
La morte, relegata ai margini, divenuta quasi un tabù di difficile gestione psicologica e collettiva
Questa della gestione del lutto è una crisi nella crisi, una frattura che non passerà senza lasciare conseguenze sia nella psiche individuale sia nella collettività. L’antropologia culturale, si è confrontata fin da subito con questo evento umano, ha descritto e riportato nelle sue etnografie i diversi rituali con i quali i gruppi umani scelgono di trattare i propri morti: possono essere riti apparentemente diversi, ma sostanzialmente sono utili a distinguere i due mondi, a tenerli separati, altrimenti ci sarebbe un caos cosmico. Sono altresì importanti perché legano i gruppi umani alla memoria del loro passato, non permettono illusione di una vita nel presente eterno. Vi sono infatti rituali di doppia sepoltura, incorporazioni dei defunti (c’è un bellissimo saggio breve di Lévi-Strauss tradotto in italiano di cui consiglio la lettura, Siamo tutti cannibali). Mi ha profondamente colpito un video fumetto del Musée de l’Homme a Parigi dove viene in modo semplice e nel contempo poetico presentata la relazione tra il cibo e la morte, cosa significa per alcuni gruppi culturali cibarsi del nemico defunto o del proprio nonno… L’antropologia culturale in effetti ha collezionato moltissime tradizioni non occidentali riguardo la relazione con i defunti e con il loro mondo. Il Covid19, che non dimentichiamo, ha una dimensione globale ha posto tutti i gruppi, tutte le credenze di fronte a questo problema: come continuare a svolgere i riti funebri… La legge dello Stato ha imposto la sospensione per proteggere gli individui vivi, ma, e questo non possiamo negarlo, ha inflitto un dolore. Il non potere dire addio ai propri cari come si è abituati a fare di solito, ci strazia. L’immagine della bare che lasciano Bergamo come hai ricordato nella tua domanda ha iniziato a popolare il nostro inconscio, anche le persone che hanno un carattere più “forte” stanno soffrendo grandemente (ho raccolto diverse testimonianze nella mia nuova ricerca a questo proposito).
L’angoscia è generata anche da questa interruzione, dalla mancanza di umanità nella gestione della morte, in questo caso l’angoscia viene provata non solo da chi sta vivendo il lutto ma anche dagli altri che vengono mossi da com-passione, immedesimazione nei confronti di chi rimane vivo e di chi invece trapassa… Il momento del decesso, la vicinanza negli ultimi istanti è qualcosa che è presente in quasi tutte le culture umane del presente ma anche del passato: è necessario per chi vive ascoltare chi va avanti, è importante raccogliere il testimone, soprattutto se chi sta morendo è anziano…
Circolano spesso su Facebook, e in particolare in questi giorni, citazioni che attribuiscono a grandi autori pensieri edificanti: fra queste, una attribuiva a Margareth Mead l’indicazione della cura, visibile nei resti di ossa fratturate e ricomposte, come primo segno della civiltà umana. Al di là della correttezza dell’attribuzione, è vero questo, o è piuttosto un segno della contraddittorietà delle pulsioni umane, divise tra aggressività e solidarietà?
Anche questo è un discorso molto importante e per questo anche molto ampio. Certamente l’archeologia ci ha mostrato che i nostri antenati cercavano di curare i loro simili (ricordo sempre due conferenze a cui ho assistito nelle quali gli archeologi avevano descritto dei reperti ritrovati e avevano desunto che gli uomini primitivi si curavano il mal di denti, un caso è quello italiano di Riparo Fredian a Lucca dove sono stati studiati i primi segni di una otturazione con perforazione, i dentisti preistorici asportavano la carie e poi riempivano il buco per alleviare anche il dolore con elementi naturali, siamo intorno a 12-15 mila anni fa nel Paleolitico finale, ossia al termine della glaciazione wurmiana). Il caso delle cure dentali è molto suggestivo, ma abbiamo anche come citato nella attribuzione alla Mead altri tipi di esempi di cure mediche: certamente questa attenzione del gruppo umano nei confronti di consimili sofferenti è una caratteristica della civiltà umana, anche se sono altri i segnali che ci vengono dal mondo preistorico e che sono stati interpretati come momenti imprescindibili per la nascita della cultura: la creazione dei primi manufatti con i quali Homo Habilis, e siamo intorno a 2 milioni di anni fa, riuscì a sopravvivere in ambienti anche ostili, la scoperta del fuoco con Homo Erectus, intorno a 1,5 milioni di anni fa, che ha rivoluzionato la vita dei nostri antenati ed ha dato inizio all’arte culinaria (una scoperta quindi di altissimo valore in termini di civiltà). Ad esse è seguito tutto il resto: quindi certamente possiamo dire che questi segni siano un tratto caratteristico della civiltà umana, una umanità che alterna momenti di aggressività a momenti di solidarietà.
L’antropologia può aiutarci a capire quali sono le condizioni che favoriscono il prevalere dell’una o dell’altra?
L’uomo mostra diverse modalità di relazione con i suoi simili e come individuo o come collettività è sia aggressivo sia solidale, forse non c’è un prevalere dell’una o dell’altra ma c’è una compresenza mediata dalla cultura. Vi sono luoghi dove gli esseri umani appaiono molto pacifici e sono apparsi anche nell’antichità, e luoghi invece dove l’aggressività è sinonimo di valore: potremmo ritornare al ragionamento scritto a proposito del pericolo, vi sono comportamenti che vengono interpretati all’interno di un gruppo sociale in un modo e in un altro gruppo in un altro. La solidarietà può essere molto positiva in una cultura e molto negativa in un’altra, lo stesso vale per la violenza o gli atteggiamenti ostili, soprattutto verso gli esterni. L’antropologia è una collezione di queste specificità e i padri della disciplina hanno cercato di dare delle interpretazioni alle diverse manifestazioni, confrontandole tra loro oppure analizzandole in se stesse.
C’è, a tua parere, qualcosa di specifico nelle reazioni alla pandemia del ventunesimo secolo?
Le reazioni a questa pandemia contemporanea mi sembrano abbastanza simili per ora a quelle avute nel passato e ovviamente con questo non sto dicendo che sono state reazioni sempre positive, forse la riproposizione delle medesime reazioni ancora una volta può farci riflettere su quanto la storia NON sia maestra di vita, contrariamente al vecchio adagio. Probabilmente non siamo ancora così pronti ad imparare dai nostri errori o a cercare soluzioni diversificate che non ci portino a ricommettere scelte che si sono mostrate non del tutto efficaci. Tuttavia possiamo notare che ci sono degli aspetti completamente nuovi nel governo di questa epidemia. Le modalità con le quali è stata interpretata e categorizzata non sono apparse nelle altre pestilenze storiche. Certamente una delle caratteristiche più lampanti e innovative di questa situazione è la sua dimensione globale: siamo in un mondo globalizzato da decenni sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista personale, come noi e le merci possiamo circolare a velocità inusuali per il passato allo stesso modo lo stanno facendo gli agenti patogeni: tempi e luoghi hanno subito una accelerazione mai vista prima (né con la spagnola degli anni del Primo Conflitto mondiale né con l’asiatica degli anni Cinquanta-Sessanta, per citare due eventi epidemici contemporanei e non la peste del Manzoni). Nel contempo è stata data una risposta differente rispetto al passato a proposito delle misure legate all’isolamento dei malati e dei probabili malati e al contenimento quindi della diffusione dell’agente infettivo: in passato non sono mai state sospese le libertà individuali e nemmeno lo stato di diritto, in questo momento è avvenuta la dichiarazione di uno stato di emergenza, l’istituzione di una sospensione delle libertà collettive e personali: in passato le città chiudevano le porte delle mura o isolavano determinati quartieri più colpiti dalle pestilenze ma i cittadini erano liberi di spostarsi, c’era il controllo ma questo non era divenuto così sofisticato e pervasivo. Questa è certamente una novità alla quale, hanno detto, dobbiamo abituarci. Questo obbligo nuovo che ha mutato la quotidianità e la stessa intimità delle persone non è certamente libero da conseguenze, le persone stanno avendo o avranno a lungo andare delle reazioni che potremmo definire claustrofobiche. Ancora una volta cito i dati raccolti durante la mia indagine attuale: sono moltissimi i testimoni che mi hanno parlato di angoscia, di paure, di incubi, di momenti di depressione e sconforto, di irritabilità, di noia, nella sua accezione negativa… Un’altra novità risiede certamente nei mezzi che il controllo ha a disposizione per esercitare il suo potere: sono stati ideati e introdotti dei mezzi per tracciare gli spostamenti e quindi per seguire il diffondersi del contagio, si sta parlando di censimento della popolazione dal punto di vista biologico con test sierologici, anche questa è una novità, fino ad oggi i dati sanitari sono stati i più sensibili e i più giustamente protetti. Ho ricevuto l’altra sera un link per aderire all’indagine epidemiologica nazionale Covid19 dove erano rese obbligatorie le risposte ad alcune domande molto sensibili. Faccio un esempio, anche se parzialmente anonimo (il questionario chiede espressamente genere, etnia - anche su questo mi permetto un sorriso pensando all’intramontabile lavoro di Luca e Luigi Cavalli Sforza [-sich!!!! non abbiamo capito niente] - anno di nascita, cap e comune di residenza, titolo di studio, lavoro attuale e precedente) il test poi si addentra a voler conoscere dati non solo relativi al Covid19 ma anche alla mia salute generale e non legata solo al momento attuale, ma anche a tutta una serie di esperienze sanitarie pregresse e di seguito chiede anche di conoscere le mie abitudini relative agli spostamenti… Ripeto: questa è una novità rispetto alla gestione passata di una emergenza sanitaria. Un altro aspetto appare diverso da prima, ossia l’individuazione di nuove categorie problematiche: una fra tutte è proprio quella dell’asintomatico, che attenzione bene, non viene più definito come soggetto sano, ma come un soggetto senza sintomi. In questa pandemia quindi sembra che non vi sia più la classica distinzione fra chi è malato e chi non lo è, ma che tutti abbiamo in noi stessi una malattia che si manifesta differentemente.
quella dell'asintomatico è una nuova categoria, che supera la distinzione tra sano e malato e individua in ciascuno di noi una fonte di pericolo e di timore
Ma tutti, se ci pensiamo, siamo asintomatici di qualche patologia: l’essere umano è un insieme di agenti patogeni che viaggiano accanto e dentro di lui. Per la prima volta quindi assistiamo alla trasformazione della categoria di sano o senza sintomi che conseguentemente permette una gestione nuova anche delle fasi successive e lo stiamo già vedendo. L'esistenza dell'asintomatico, la possibilità di incontrarlo senza poterne riconoscere la pericolosità, diviene fonte di angoscia. Voglio concludere questa riflessioni con un altro esempio letto pochissimo tempo fa (20 aprile 2020) sui media: ad una ditta è stata affidata l’ideazione di braccialetti colorati che ciascuno dovrà indossare e tenere bene in vista se vorrà uscire di casa… Ogni braccialetto avrà un colore (non sto neanche ad addentrarmi nella rievocazione della teoria dei colori ma mi prometto di farlo appena ci daranno questi nuovi codici e allora mi divertirò ad illustrarvela) e testimonierà lo stato sanitario di ciascuno di noi… Questo modo di gestire le categorie con le quali venivano suddivisi gli esseri umani è cosa già vista, in questo caso non c’è alcuna novità, dal 1215 in poi ad esempio con le ruote gialle o il pileus cornutus per gli ebrei… o quei triangoli colorati sulle divise rigate… o le stelle a sei punte… Scusami ma a questo punto non posso che rabbrividire, anzi sono letteralmente terrorizzata!
Possiamo dunque definire la nostra civiltà, o inciviltà sulla base delle reazioni alla pandemia o della sue stessa gestione? Penso in particolare al peso delle preoccupazioni economiche rispetto alle necessità di cura e prevenzione.
Per rispondere a questa tua sollecitazione è necessario chiedersi quale significato attribuiamo alla parola civile e incivile e credo se siamo in questa situazione che non ci sia un accordo. Che cosa è civile? Per me e per il mio modo di pensare, civile è ad esempio non piegarsi alle ragioni di una certa economia, è assicurare a tutti le cure dovute, è garantire che se accadono eventi inaspettati come una epidemia ci siano le persone nel numero sufficiente e in condizioni di lavoro dignitose per riuscire a curare tutti, che non si debba correre ai ripari… Civile è in una situazione di emergenza il garantire a tutti i bisogni primari come l’istruzione, il cibo di qualità, la possibilità di connessione con gli altri anche se a distanza… Ma per altri questi segni di inciviltà (tutto il contrario di quello detto sopra ovviamente) possono invece essere i segni della civiltà: di nuovo una certa economia può essere il massimo grado di civiltà. Per diversi infatti la civiltà è quello status in cui qualcuno si può curare se ne ha i mezzi e altri no. Una delle nazioni più civilizzate del nostro mondo, a detta loro, sembra abbia deciso di sacrificare anziani e disabili a cui vengono negate le cure più significative. È da ritenersi civile quello che abbiamo visto anche in Italia, ossia la riduzione a puri numeri, di persone con volti e storie di vita? È da ritenersi civile per motivi di emergenza sanitaria l’avere interrotto il sentimento di pietas per i morti, il cordoglio, la dimensione collettiva del rituale funebre, come abbiamo già detto? Quindi lascerei questa tua domanda aperta con un’altra domanda ai nostri lettori: quale civiltà vogliamo che appaia dopo il Covid19? La risposta è prima di tutto individuale, ognuno nel proprio cervello dovrà fare una scelta, poi sarà collettiva… con la richiesta di una nuova agenda politica, di nuove priorità… Potrebbe essere che l’apice di questa crisi decennale apra un nuovo periodo finalmente civile?