Nessuna delle sue idee è stata sviluppata. Pds, Ds, Pd le hanno dimenticate dando l’impressione che esse fossero quasi di impaccio. Al massimo le si ricorda una volta ogni dieci anni, nel mese di giugno.
E tu che scrivi? mi chiede Antonio, il direttore. Avrei voluto rispondere… una favola. Ma non ho aperto bocca perché non avrei sopportato gli inevitabili sghignazzi dei giovani redattori che sedevano al mio fianco. Eppure l’idea della favola mi è rimasta in testa. Una favola a 82 anni? Si, proprio una favola. Mi conquistava soprattutto l’inizio: C’era una volta… e poi raccontare vicende politiche che i giovani non hanno ovviamente vissuto ma che, non per questo, sono meno importanti.
Partiamo da quello che c’è oggi: i nostri giorni sono veramente grami, pieni di problemi e di difficoltà. Aumentano i livelli di povertà, il posto di lavoro soprattutto per i giovani è una sorta di terno al Lotto, gli investimenti languono, la macchina che dovrebbe produrre sviluppo in pratica è ferma. E i conti dello Stato sono un disastro. Viaggiamo con un buco di 2.230 miliardi di euro (il 132,6% del valore del prodotto interno lordo), un macigno, che ci costa oltre 100 miliardi all’anno solo per mantenerlo tale, senza minimamente scalfirlo. Anche la corruzione ha un prezzo: ogni anno 60 miliardi vengono sottratti alla produzione, poi c’è l’evasione che ammonta a 160-170 miliardi. Non parliamo degli sprechi. Pure le banche sono in crisi e in crisi conseguentemente è il risparmio degli italiani, per molti dei quali il materasso comincia ad essere una alternativa.
Tutto questo a bocce ferme, il guaio è che nel gioco (se di gioco è consentito parlare) ci sono gli imprevisti: il disastroso terremoto, ad esempio, che il 24 agosto ha colpito le provincie di Rieti, Perugia ed Ascoli Piceno (298 morti, 338 feriti, interi paesi evacuati, danni per almeno 4 miliardi di euro) e la incessante e tumultuosa immigrazione di chi fugge dalla guerra e dalla povertà del continente africano. E come non bastasse la capitale del Paese, Roma, e una intera regione, la Sicilia, sono a rischio default, cioè a rischio di insolvenza o di fallimento. Potrebbero - tanto per usare un termine popolare - essere costretti a portare i libri in Tribunale.
Il quadro è impressionante. Ma impressionante è anche la leggerezza delle misure di contrasto che si sono prese o che si stanno per prendere. Robetta. Oppure proposte assurde, disperate, come l’organizzazione delle Olimpiadi nel 2024 o la costruzione del Ponte di Messina. Chi le avanza o è un vanesio oppure un provocatore. Sul fronte politico la situazione non migliora, in generale non siamo all’altezza della gravità dei problemi. Spaccata è la sinistra, la destra è una identità difficile da definire, il Movimento dei Cinque stelle è - ad essere buoni - in stato confusionale. Resta Matteo Renzi con una preoccupante sovraesposizione televisiva che batte largamente persino quella del Cavaliere che pur disponeva di tre Reti Tv, tutte di sua proprietà; e continua a girare per il mondo come una trottola. In questo è veramente un campione. Parla, parla, promette, promette, ma i risultati sono ben modesti. Materia di sinistra nemmeno l’ombra. Invece ce ne sarebbe bisogno. E tanto.
Qui inizia la favola. Una volta in questo paese esisteva una sinistra forte di cui un Partito, quello di Togliatti, Longo e Berlinguer, era l’asse portante. Aveva ideali, uomini e mezzi. Forte elettoralmente ma sempre all’opposizione. Mai al governo, per una conventio ad excludendum di marca democristiana ma anche cattolica, socialista e imprenditoriale. Ci vollero il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro per farla cadere, assieme alla formulazione di quel compromesso storico che rappresenta il più alto progetto di strategia politica delineato alla fine degli anni 70 e nei primi anni 80. Del secolo scorso ovviamente.
Sfortunatamente la morte improvvisa del suo principale ideatore, Enrico Berlinguer, ha mandato all’aria sia le idee lunghe che il Partito. Dopo di lui, tutto è franato. Gli oppositori interni di quella alta strategia si rifugiarono ben presto nella politichetta, capace di soddisfare magari esigenze personali (la presidenza di questo o quel ramo del parlamento, di questa o quella commissione, sino ad arrivare al governo, a Palazzo Chigi e persino al Quirinale) ma mai capace di affrontare i temi di fondo dello sviluppo economico, della corruzione dilagante e delle riforme, compresa quella del Pci. Il Partito comunista italiano, soprattutto alla luce dei fatti nuovi (il crollo del muro di Berlino) e della lunga esperienza accumulata negli ultimi 45 anni, andava senza dubbio rinnovato con intelligenza e con coraggio. Cambiato ma non ammazzato.
Gli eredi di Berlinguer preferirono l’assurda scorciatoia del Pds. E poiché sottovalutarono il fenomeno Lega Nord e la discesa in campo di Berlusconi, subirono clamorose sconfitte elettorali e contribuirono, pure loro, a consegnare alla storia il peggiore ventennio della nostra storia repubblicana.
Quindi c’era una volta Enrico Berlinguer. Un grande, capace di suscitare grandi emozioni e grande rispetto. Nessuna confusione fra destra e sinistra, sapeva farsi carico dei problemi sia di casa nostra che dell’Europa e del mondo. Le diseguaglianze sociali erano il suo cruccio. Guidava una grande organizzazione democratica riconosciuta tale anche dagli altri, avversari compresi. Gli aggettivi, spesso iperbolici, si sprecano ad ogni anniversario della morte. È avvenuto nel 1994, si è ripetuto nel 2004 e nel 2014. Sembra quasi una gara ma nessuno spiega come mai le sue idee lunghe siano state dimenticate e perchè nessuno dei suoi successori le abbia riprese. La sua diversità – lo ha scritto uno che lo conosceva bene, Alessandro Natta – stava nella ricerca continua di una via per sfuggire alla tenaglia dell’omologazione con il sistema corrotto in Italia e dall’altra parte del rapporto con i Partiti comunisti dell’Est. “Lui non ha mai cessato di pensare ad una trasformazione socialista dell’Italia nell’Occidente sviluppato “.
Quel giorno, quello dei funerali (era il 13 giugno 1984), il silenzio avvolse Roma: lo definì così dieci anni dopo il grande regista Ettore Scola che con altri 35 colleghi firmò l’addio di Enrico. Enzo Biagi, sempre dieci anni dopo, scrisse: rimpiango quella dignità. E Giulio Einaudi mise in fila i tre punti principali della sua politica: lo strappo di Mosca, la scelta dell’austerità, la pace. Mino Martinazzoli, che si era appena ritirato dalla segreteria del Ppi, giustamente osservò quanto “Enrico e la nostra deriva rappresentassero una memoria scomoda”. Tanto più scomoda oggi davanti a una deriva difficilmente qualificabile. E Cesare Romiti, grand commis di casa Agnelli, sottolineò, sempre nel ‘94, quanto il segretario generale del Pci avesse operato per dare un fascino alla moralità in politica contro la grande malattia rappresentata dalla corruzione nella vita pubblica italiana.
E potremmo continuare. Walter Veltroni, che allora era direttore de l’Unità, organo del Pds, su di lui scrisse, sempre nel 1994, addirittura un libro, più esattamente una bella prefazione ad una ampia antologia degli scritti e delle interviste di Enrico. Lo intitolò: La Sfida interrotta, sottotitolo Le idee di Enrico Berlinguer. Interrotta ma, aggiungiamo noi, dimenticata da gruppi dirigenti litigiosi e comunque non all’altezza delle sue idee lunghe.
C’era una volta Enrico Berlinguer, un grande. Il suo nome era una garanzia. Basta ricordare che i suoi funerali, i più imponenti della storia italiana, sono stati occasione di una poderosa manifestazione popolare, di affetto e di forza politica. Ma tutto è finito lì. Nessuna delle sue idee è stata in seguito sviluppata. Pds, Ds, Pd le hanno dimenticate dando l’impressione che esse fossero quasi di impaccio. Al massimo le si ricorda una volta ogni dieci anni, nel mese di giugno. Eppure di quelle idee – lo ripetiamo - il Paese e la sinistra avrebbero oggi tanto bisogno. Che le snobbi Renzi è un conto… scontato, ma gli altri, quelli che con Berlinguer sono nati e cresciuti che fanno? Almeno ce lo spieghino. Allora sì che il dibattito si farebbe interessante. Tutto il resto, purtroppo, è… noia.